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Il terzo uomo

di Livio Cadè - 18/04/2021

Il terzo uomo

Fonte: Ereticamente

È tentazione comune far rientrare le persone in una categoria, secondo la razza, la religione, l’orientamento politico o sessuale, il loro essere estroverse o introverse, mancine o destrimani ecc. Cedendo a questa tentazione, anch’io ho diviso gli esseri umani in due grandi classi, a seconda che in loro prevalgano caratteri mistici o magici. Ovviamente questa dicotomia richiede una spiegazione. Vorrei però premettere alcune considerazioni generali.

Innanzitutto, io credo che ognuno di noi condivida una medesima natura, sospesa tra le lusinghe del piacere e le minacce del dolore. Tutti fuggiamo o inseguiamo qualcosa. Quello che cerchiamo e come lo cerchiamo definisce la fondamentale differenza tra un mistico e un mago. Di questa infinita fenomenologia si può solo tentare una sintesi, perché i caratteri dei due tipi si esplicano in una tale inesauribile esuberanza di modi che “il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere”.
 
Il divario tra i due generi non si pone su un piano puramente psicologico ma metafisico. È opportuno chiarire che non mi riferisco a maghi e mistici nell’accezione ufficiale, storica o psicologica, dei due termini. Ne parlo nei limiti modesti di alcune osservazioni personali. Tuttavia, per comodità, dovrò trattarne non come realmente mi si presentano nell’esperienza, dove incontro sempre mescolanze fluide e variabili, ma come essenze contrapposte, muovendomi tra gli estremi di un’astrazione teorica.

Preciso che, parlando di ‘pensiero magico’ e ‘pensiero mistico’ non prendo a prestito né le idee tradizionali della vasta tradizione teurgica, alchemica, ermetica, occultistica, né agiografie e resoconti di santi visionari. Di regola, quando mi riferisco a ‘mistici’ o a ‘maghi’ non alludo a santa Teresa d’Avila o al Conte di Saint Germain. Non ho nessun interesse per le questioni accademiche né per gli stereotipi intellettuali legati a questi temi. Semplicemente, uso magia e misticismo come allegoria di una relazione con la vita, di un’attitudine interiore che riguarda ognuno di noi.


 
Cosa ci rende maghi o mistici? Si potrebbe rispondere che il mago cerca di arrivare a un risultato attraverso una prassi. Il mistico, viceversa, va dal risultato alla prassi. Dogen, filosofo buddhista medievale, spiega in modo limpido questa radicale differenza: si può meditare perché si vuole diventare dei Buddha; oppure si medita senza scopo, semplicemente manifestando la propria natura. Ecco una prima antitesi tra magia e misticismo, la presenza o l’assenza di un ‘perché’, il calcolo intenzionale o la spontaneità.


 
Un’altra possibile risposta viene dal Vangelo: Marta “si preoccupa e si affanna per molte cose”; Maria si abbandona alla contemplazione dell’Uno. La prima si sforza di imbandire una realtà funzionale e appetibile; la seconda ascolta quietamente il Logos e ne è sedotta. Non è solo un mero contrasto tra nature operative e contemplative. In questa opposizione si riflette la duplice tendenza del pensiero a disperdersi nella molteplicità degli enti o a raccogliersi nell’unità dell’essere; a obliare o ricordare quell’Uno che chiama all’esistenza tutte le cose e le rende uniche. Ma vi possiamo vedere anche l’opposta tendenza a restare orgogliosamente ritti di fronte al Logos, esibendo la propria efficienza personale, o a inginocchiarsi fiduciosamente ai suoi piedi.


 
Magico è il ‘fare’, mistico è il ‘non fare’, il wu-wei taoista, dove “nulla è fatto e tutto si compie”, perché v’è in ogni atto e in ogni cosa un farsi da sé. Buon esempio di ciò è l’addormentarsi,  frutto di un ‘non fare’ che consiste nel lasciare la presa sul mondo, lasciarsi andare. Questo abbandono è necessario anche nel fare l’amore, quel che i tedeschi dicono appunto “dormire insieme”, miteinander geschlafen. Un mago, in questi casi, preferirà invece affidarsi ai sonniferi, o a farmaci che gli promettano migliori prestazioni.


 
Anche certi movimenti del corpo raggiungono la loro massima grazia ed efficienza quando non lasciamo che la coscienza si insinui in loro e cerchi di applicarvi i suoi modelli di controllo. Allora, un sistema superiore e involontario (extrapiramidale, direbbe il fisiologo) agisce con una perfezione che è inaccessibile alla mente superficiale. Herrigel narra con ammirevole onestà dei suoi fallimenti nel tentativo di sottomettere l’arte del tiro con l’arco al controllo volontario dei movimenti. Il nodo del pensiero magico è proprio questa fuga dal ‘si fa’ per assecondare le pretese di un ‘io faccio’.

Nel suo saggio sul teatro delle marionette von Kleist ci mostra un orso in grado di parare senza alcuno sforzo gli attacchi del più abile spadaccino, proprio perché non pensa come rispondere ai colpi. Così le marionette hanno una particolare lievità, che nasce dall’essere sospese a mezz’aria e muoversi senza una volontà propria. Questa leggerezza ricorda il mistico, i cui movimenti hanno la grazia che il Burattinaio, tirando i fili, gli dona. Un mago, al contrario, è appesantito dalla sua (presunta) autosufficienza ontologica e dalle sue virtù.


 
“Ama e fa’ ciò che vuoi” dice Agostino. “Fa’ ciò che vuoi” gli fa eco Crowley. Qui appare un’elisione, cade un elemento importante. Quando amiamo il baricentro della nostra volontà è nell’Altro. Nella volontà magica il baricentro è nell’Io del mago. Quando lavora alla propria ‘evoluzione’, il mago cerca di migliorare sé stesso. Un mistico direbbe che non può migliorare ciò che Dio ha fatto. La magia crede nel ‘fare’, quindi è essenzialmente un culto della forza. Il mago interviene sui processi della realtà e se ne appropria, pianifica le sue opere. Il mistico segue invece la via della debolezza. Non vuole imporsi né ‘fare’ progetti per sé.

La magia è idolatria del sapere. Il mago sa, vuole sapere, sa di sapere. Se, socraticamente, ammette di non sapere è solo perché conta di poter colmare una lacuna. Gli sfugge la radicalità del non sapere. Il mistico non sa, non vuole sapere, non sa di non sapere. Il mago ama i maestri, i guru, i leader. Il mistico non vuole insegnare nulla e non vuole guidare nessuno. Per questo il territorio dei maghi è mondo di esperti e specialisti, di persone competenti e professionisti autorevoli nei vari campi.  Il mondo dei mistici è la terra degli eterni principianti. Mentre il mago si basa sul suo sapere, il mistico è guidato dall’amore. E poiché si può amare solo ciò che dà diletto, il mistico serba l’animo di un perenne dilettante.


 
Disgraziatamente, capita di trovare presupposti magici anche in un certo genere di meditazione, importato dall’Oriente, in quei tassonomici metodi di disciplina mentale che dovrebbero favorire l’accesso a livelli superiori di coscienza. Paradossalmente, si spera di trarre esperienze mistiche conformandosi a un atteggiamento tecnico-magico. Questa intima contraddizione è causa di profonde illusioni, incoraggia pratiche che vorrebbero essere spirituali ma che si esauriscono spesso in futilità psicologiche.

Così, per la presenza di uno scopo e di una tecnica intenzionali, anche atti che possono apparire squisitamente mistici, come sedersi in meditazione, divengono operazioni magiche. Il meditante a orientamento magico si propone infatti di trascendere la comune umanità raggiungendo, con un’opportuna metodologia, stati di illuminazione o speciali facoltà. Si sforza così di elevarsi sopra i suoi pensieri e le sue passioni, di reprimere anche quella latente intenzione –diventare un superuomo- che una teorica umiltà gli vieta. Questo crea in lui uno stato di perenne, benché dissimulata, conflittualità con sé stesso.

Viceversa, nessun pensiero di realizzazione personale attraversa gli strati profondi della coscienza di chi medita secondo l’impulso di una natura mistica. La meditazione non diventa mezzo o via verso qualcosa ma l’espressione di una pulsione naturale, come il dormire, il bere, il desiderio erotico. In modo analogo, un musicista suona e compone, un pittore dipinge, un poeta scrive poesie, un bambino gioca. E io so quanto diventi greve quell’arte in cui, invece di una inconscia ispirazione, si sente prevalere l’artificio intenzionale di chi vuole esprimere qualcosa.

Lo stesso pregare diviene atto magico se è vissuto come strumento di realizzazione di un desiderio. La preghiera mistica è affidamento e quieto assorbimento in Dio. Tale atteggiamento devozionale è spesso inviso al mago, che vi legge una sottomissione e passività poco virili, o un mero desiderio di consolazione. La ricerca di potere rende il mago attratto da modelli di forza, rigore e autodeterminazione. La preghiera per lui può al massimo essere una tecnica, strumento di progresso personale o di efficacia rituale. Il mago non può inginocchiarsi sinceramente. V’è in lui un congenito senso di superiorità che glielo rende impossibile, un sedimento inestinguibile di orgoglio luciferino. La sua sete di potenza esprime un’arroganza di fondo nei confronti della vita. Questa propensione alla conquista ha del resto provocato nella storia gli esiti disastrosi che ben conosciamo.

In realtà, l’abbandono del mistico richiede maggior forza e maggior coraggio di quell’aggrapparsi ai poteri della ragione e della tecnica, come forme di rassicurazione, che è tipico del mago. Inoltre, la maggior capacità intuitiva e ricettiva del mistico dipende proprio da alcuni tratti infantili e femminili della sua anima. “Io mi diletto nel tettare dalla Madre”, dice Lao-zi, e “la femmina vince il maschio col suo porsi sotto”; in termini più pittoreschi, il mistico “sa d’esser gallo ma si fa gallina”.

Avere una personalità mistica è propedeutico all’estasi, ovvero a un uscire da sé stessi che è dimenticanza del proprio io empirico e razionale. Il pensiero magico oppone invece resistenza a esperienze di sperdimento, rifiuta ogni dionisismo, perché non può, senza contraddire la propria natura, abbandonare la dimensione della vigilanza volontaria. Al mago preme conoscere le cause di ciò che gli accade e da questa conoscenza trarre un sistema di governo delle cose. Non può quindi, lasciandosi cadere nell’abisso dell’anima, abdicare al suo ruolo di cosciente amministratore della realtà.

Dopo aver esposto alcuni dei motivi su cui si fonda la mia divisione binaria, è importante ricordare che nella vita reale non esiste fra le due categorie una frattura precisa, ma una continuità di gradi intermedi, come tra il giorno e la notte. Vi sono forme aurorali del pensiero in cui magia e misticismo ancora si confondono; vi sono luci e ombre di un pensiero meridiano, in cui il pensiero magico si compiace della propria radiosità razionale e scientifica; vi sono bagliori crepuscolari di una riflessione filosofica che già inclina alle caligini notturne del misticismo.

Forse l’uomo di magia e il mistico, come due rette parallele, si incontrano all’infinito, dove la volontà dell’uno e la fede dell’altro divengono un volere e un credere senza oggetto, immagine perfetta del Tutto che non cerca più nulla. Ma questa è una semplice congettura.

Di fatto, non mi è possibile immaginare, ai limiti opposti, un uomo totalmente magico o mistico. Ognuno comprende in sé entrambe le nature in proporzioni diverse e imponderabili. Le varie circostanze possono stimolare nella stessa persona ora atteggiamenti mistici ora magici. Tutti siamo mistici quando ammiriamo un cielo stellato. D’altro canto, anche l’uomo più mistico dispone di attributi magici, senza i quali la vita umana sarebbe impossibile. Il misticismo non impedisce a Hildegard di creare una ponderosa silloge di medicina naturale né ad altri mistici di esercitare forti pressioni politiche sui potenti del loro tempo. Tuttavia, quando il mistico ‘fa’, non intende affermare una sua volontà e un suo potere. Anche in quel recesso intimo da cui fluiscono il suo volere e la sua intelligenza, egli avverte la presenza di una Grazia o di un Destino che non sono l’effetto dei suoi sforzi coscienti.

Mistici sono tutti coloro, artisti e poeti, filosofi o fisici, che aspirano senza secondi fini alla contemplazione della Realtà. Anche quando il mistico crea un’opera d’arte o di letteratura, elabora un teorema matematico o dispone dei fiori in un vaso, si fa tramite di una Bellezza e di un Senso come Realtà ultime, fini a sé stesse. Questa realtà creata che riposa in sé stessa, perfettamente compiuta anche nella sua imperfezione, è immagine dell’Essere. Questo creare comporta certo l’uso di strumenti e la padronanza di una tecnica, ossia un ‘fare’. Perciò alcuni mistici creativi possono apparire maghi.

Ma la natura del loro ‘fare’ è in realtà un ‘non fare’, cioè un liberare la realtà dalle scorie dell’io. Come dice Michelangelo, “l’arte è per via di levare”. Così il mistico crea sottraendo, riducendo le interferenze della propria volontà per far emergere una verità spirituale dalla materia, un ordine dal caos. “Ho visto un angelo nel marmo ed ho scolpito fino a liberarlo”, dice il Buonarroti. Nel creare, nel cercare il sublime, nello stesso faticoso affinamento dei suoi mezzi espressivi, egli sa di essere medium, di ricevere i doni di un Inconscio spirituale.

L’appartenenza al tipo magico o mistico dipende da un intimo sentire ed è quindi difficilmente diagnosticabile sulla base di forme esteriori. Tuttavia, secondo la mia esperienza, le personalità mistiche sono una rarità. Non mi pare esista un’equa ripartizione dei due tipi.  Direi anzi che i tipi magici sono una schiacciante maggioranza. Questa distribuzione ineguale colora la nostra società nel suo insieme, conferendole una decisa tonalità tecnico-scientifica. Ma se anche la proporzione fosse invertita e i maghi fossero una esigua minoranza, la loro casta resterebbe quella dominante, sarebbero sempre i loro modelli di pensiero a imporsi, perché dominare è nell’intrinseca struttura del pensiero magico mentre è totalmente estraneo al pensiero mistico.

Di fatto, la civiltà moderna è un’iperbole del magico. Soffre di una sorta di patologia spirituale che potremmo definire ‘complesso magico’, riconoscibile per l’ipertrofia e la degenerazione di alcuni degli organi che presiedono all’interazione tra la coscienza e la vita. La radice di questo male sta fondamentalmente nella volontà dell’ente finito di prevaricare l’essere infinito. Il paradigma del pensiero magico implica, infatti, un volere teso verso uno scopo particolare e la ricerca del potere necessario a realizzarlo. Questo stabilisce le forme di una relazione con i mezzi del fare, vale a dire con la tecnica. La tecnica è l’anima del mago. Egli vive di formule e metodi. Poco importa la natura del fine.



La personalità magica non può prescindere dalla ricerca di un potere superfluo, che eccede i suoi naturali bisogni. Il potere è il feticcio metafisico del mago, come il denaro può esserlo per un banchiere. Un mago può disprezzare ogni ricchezza, vivere asceticamente, prodigarsi per gli altri, subordinare il potere a nobili ideali, ma non può rinunciare alla sua volontà di potenza. L’esistenza di forze che non può controllare è la contraddizione più radicale e dolorosa della sua natura. Anche la ricerca di una conoscenza, non importa se profana o esoterica, non nasce in lui dall’amore disinteressato per il sapere ma è velleità di potere personale.

La volontà del mago si muove da una condizione di mancanza (A) verso una condizione (B) che rappresenta la realizzazione del suo scopo. Questo richiede che passi da uno stato di impotenza e di ignoranza a uno di potenza e di sapere. Il mistico sa che spostandosi volontariamente da A per raggiungere B, fidando nel suo potere personale di farlo, si troverà ancora in A, perché la volontà dell’uomo non può uscire da sé stessa e dalla sua congenita frustrazione. Sa anche che nessuna volontà o tecnica può elevare l’uomo alla Bellezza e al Senso se non è illuminata dalla Grazia.

La nostra società è invece quasi interamente dominata dagli aspetti magici della psiche. La ricerca scientifica e il progresso tecnologico sono le forme trionfanti del mago e della sua ricerca di potere. Anche la nostra cultura, la nostra educazione, antepongono il controllo magico, tecnico e razionale, alla coltivazione di facoltà contemplative, intuitive e artistiche. Il sapere viene capitalizzato attraverso i procedimenti sistematici, l’accumulo di concetti e nozioni, l’ipertrofia di apparati mnemonici. La verità viene chiusa nella cassaforte di un ‘possesso’ erudito, privandola di una libera e naturale vitalità. Lo stesso Eros, che si nutre di succhi mistici, degenera in un’orgia di tecniche e di teorizzazioni razionali.

Anche quando si esprime in forme oscure e iniziatiche o si riferisce a dimensioni astrali ed esoteriche, il pensiero magico conserva natura tecnico-scientifica. Per questo seduce coloro che amano andare dalle premesse alle conclusioni, dalle cause agli effetti. Sul piano del linguaggio, la parola magica è anti-poetica per eccellenza. Non allude, come la poesia, a segreti indicibili dell’essere, ma si fa attrezzo, dispositivo utile ai desideri dell’ente. In questo tipo di pensiero v’è la promessa di un risultato ottenuto rispettando determinate condizioni, come seguendo certe regole si può costruire un ponte, dimagrire, curarsi, vincere a scacchi ecc.

Le forme linguistiche del pensiero mistico sono invece quelle del paradosso e degli ossimori, delle metafore e delle evocazioni poetiche, delle sentenze oracolari. “Il Signore che ha l’oracolo in Delfi non dice e non nasconde, ma accenna”. Il cenno mistico non consente alla coscienza una presa solida, ma le chiede di immergersi nell’infinito mistero da cui tutto emerge, nella “caligine lucente del silenzio” dove “quanto più fitta è la tenebra, tanto più risplende e altamente irraggia”. Non mirano a esporre un sapere scientifico ma indicano una sapienza inattingibile dalla ragione. Sono imbevute di sacri misteri, di opposti che coincidono, e si innalzano “per questa via di ignoranza … a Colui che trascende ogni conoscenza”. Non offrono formule, ricette, spiegazioni. Perciò il mistico può sembrare al mago un folle, uno stupido, o un ingenuo sognatore.

Fondamentalmente diverso è l’approccio dei due tipi a una comprensione della realtà. Nel caso del mago questa comprensione si pone sul piano dei nessi logici, del rapporto delle cose tra loro e delle loro reciproche influenze. Per il mistico la comprensione è invece esperienza incomprensibile dell’essere. Anche la cognizione delle realtà più umili diviene conoscenza di Dio attraverso l’ignoranza. Non esiste una tecnica per arrivare a tale comprensione perché, come dice Silesius, “Dio è una luce alla quale nessuna via conduce”. È una verità che si rivela in modo spontaneo. Mentre il mago insegue il suo obiettivo con metodo e cerca di catturarlo con trappole razionali, il mistico va a caccia di Dio con l’istinto, col fiuto dell’anima, e sa che la sua caccia avrà fortuna solo se da cacciatore si farà preda.

La natura paradossale del suo pensiero non implica che il mistico non sappia far uso degli strumenti della logica o che gli difettino le facoltà intellettuali. Ma egli se ne serve per alludere alla relazione con un Sacro che supera la dimensione dell’intelligibile. Così, il declino del pensiero mistico coincide con una perdita di sacralità nella vita. La magia non può infatti accedere alla realtà del Sacro, solo simularla, perché le sue forme operative e concettuali si consumano nell’immanenza delle forme finite.

Per quanto elevati siano i suoi contenuti, la magia resta una scienza profana, incapace di attingere il Sacro nella sua Presenza inattingibile. Per lui tutto deve essere attingibile e consapevolmente fruibile. Ripiega perciò sull’idolatria dei mezzi e dei fini. Il mago ama gli apparati intellettuali e la stessa metafisica che la tradizione gli offre in quanto strumenti di controllo della realtà. Gli stessi misteri divini divengono oggetto di studio e classificazione razionali. Ne nasce una sorta di scolastica che mira alla coerenza e all’efficacia delle formule ma che in realtà non sa uscire dal piano dell’astrazione. Mentre il mistico “butta la buccia e tiene la polpa”, questa figura di mago bibliofilo si appaga di una simbologia ridotta a scorza vuota.

Nella sua ricerca di pietre filosofali il mago letterato si aggrappa all’autorità dei testi, esibisce una congerie di meri processi verbali che vorrebbero irretire l’Oltre nelle parole senza averne alcuna esperienza reale. Acquista così quel sapere tanto utile a superare esami scolastici quanto impotente ad affrontare gli esami della vita. Somiglia a un bimbo che voglia disquisire sui misteri della camera nuziale. Si difende così da quell’irruzione della rivelazione mistica che potrebbe bruciare il suo sapere come paglia -“ut palea videtur”.

L’avversario più radicale di questo culto della dissertazione, della dissezione dei concetti e della metafisica oziosa, è l’antico buddhismo cinese (Chan). In esso l’idiosincrasia per la speculazione astratta porta al rifiuto di ogni discorso che non si basi su un’esperienza profonda e immediata. La parola deve nascere dal centro dell’essere, dal suo cuore, e non dalla sua periferia o cervello. Qui tocchiamo forse il nucleo del misticismo, in cui atto e pensiero, parola e sentimento si fondono e provocano l’inatteso svelamento della realtà attraverso la totalità del sé.

Mistico e mago si oppongono anche sul piano degli atteggiamenti morali. Una prevalenza di pensiero magico determina la natura utilitaristica dell’etica. L’atto morale diventa un gesto efficace, un’operazione magica per accrescere una felicità mondana o per garantirsi la salvezza dell’anima. Il mago assegna al rispetto delle regole, all’osservanza di norme precise, alle procedure, una forza cogente, che impone alla vita o a Dio un’obbligazione inderogabile nei suoi confronti. Si attribuisce perciò un valore e un merito per le operazioni che svolge e conta di goderne gli interessi maturati. Non potrebbe mai applicare a sé stesso l’idea di una predestinazione o accettare una confutazione del suo libero arbitrio.

Agli antipodi di questa concezione fiscale c’è il misticismo luterano,  o il paradosso dell’amidismo, secondo cui “se i giusti si salvano, a maggior ragione i peccatori”. Perché non è la logica della giustizia ma quella della misericordia a redimere l’uomo. “Nella mia vita ho molto peccato ma, se mi pento, Dio mi perdonerà”. L’uomo magico conta su forme automatiche di retribuzione. “No, se Dio ti perdona tu ti pentirai”.  Il mistico offre al mago la prospettiva della Grazia, di qualcosa che tocca l’uomo uscendo da oscurità inconoscibili e lo libera.

Il mistico tende a trascendere i confini di ogni moralità esteriore e convenzionale, teso verso una dimensione al di là del bene e del male. Perciò Angela da Foligno giunge a dire che Dio “è presente nel demone, nell’angelo buono, nell’inferno, nel paradiso, nella rottura del matrimonio, nell’assassinio, in ogni opera buona e in tutto ciò che ha comunque un’esistenza, non importa se nel bene o nel male”. Tutto viene assorbito nella libertà assoluta di un Essere che è causa sui e totalmente svincolato dai nostri relativi giudizi di valore.

Destino della magia è invece restar incatenata a quelle apparenze fenomeniche che vuol dominare con la teoria e la prassi. Questo limite si riverbera anche nella sua metafisica. La trascendenza di ciò che non è riconducibile a forme di controllo è per il mago pietra di scandalo. Per questo, anche quando parla di Dio ne fa solo un Ente al di sopra di tutti gli enti, una Iper-Cosa Suprema. Ponendo Dio alla sommità di una scala di valori finiti, ne concepisce la superiorità secondo uno schema quantitativo, ma non ne comprende realmente la trascendenza.

Silesius sembra respingere tale concetto di Dio come meta di un processo graduale quando dice: «Tu dici che vedrai bene Dio e la sua luce: stolto, mai lo vedrai, se non lo vedi già ora». È in fondo la stessa idea di “illuminazione improvvisa” che appare nello zen e che tanto fa disperare i metodici ingegneri dello spirito. La compiuta sfericità del Reale mette in crisi la concezione lineare del tempo cui il mago deve subordinare la sua tensione realizzativa. La volontà, il suo operare per un fine, lo proiettano infatti sempre verso il futuro. Egli sospinge davanti a sé gli enti creati come un gregge di pecore senza raggiungere mai l’ovile. Per lui l’hic et nunc non è mai pienezza ma sempre imperfezione, assenza da colmare. Non coglie il valore in ciò che è ma in ciò che sarà.

«Se io dirò all’attimo che fugge: fermati! sei bello!, allora potrai chiudermi in ceppi, io perirò volentieri!» dice Faust a Mefistofele. L’appagamento, il dissolversi senza residui nella contemplazione di una realtà in sé perfetta, rappresenta infatti la fine del mago, cancella la sua raison d’être. Egli ha bisogno di un domani su cui allungare l’ombra della sua volontà, il presente non può soddisfarlo. Questo spiega perché al prevalere di un pensiero magico si accompagnino i miti del progresso e dell’evoluzione e tutte le classiche chimere della modernità.

D’altro canto, non bisogna immaginare il misticismo come piacere di un’indolente contemplazione, incurante del mondo intorno a sé e dei suoi problemi. La recriminazione di Marta, che si lamenta della inoperosità di Maria, è il classico refrain del mago che rimprovera al mistico di non essere utile alla società, di perdersi nella sterilità delle sue visioni. In realtà, la storia è piena di personalità mistiche, uomini e donne, dal carattere attivo, energico e persino bellicoso. Ma anche quando agisce, il mistico pone il suo cuore alla fonte della realtà o al suo estuario; immerge la sua opera in dimensioni sorgive o abissali. In lui vi è un radicale senso di fede e ubbidienza al divino (il fiat cristiano o la sottomissione islamica) cui si affida come un bambino anche quando porta il peso di eccezionali responsabilità.

Ancor più profondamente, il pensiero mistico ospita un sentimento di devozione e adorazione per il divino, ovunque lo veda. Inginocchiarsi, inchinarsi, rendere lode, ne sono le tipiche manifestazioni. Non potrebbe usare di realtà che percepisce come teofanie e farne un mezzo per i propri fini senza disonorare i propri sentimenti. È pronto viceversa a sacrificarsi per qualcosa che sente più grande e importante di lui.

Purtroppo sappiamo che questo afflato mistico non è scevro di pericoli. Spesso degrada e viene rivolto non all’Essere ma verso ideali politici, settari o nazionalistici. Allora prevalgono quei sentimenti oceanici, di appartenenza a un Ente superiore, che tanto esaltano e commuovono gli uomini, spingendoli a marciare e cantare insieme, ad adunarsi, conducendoli spesso ad azioni terribili. Questo pseudo-misticismo è in realtà una forma di magia camuffata.

Può esistere infatti una magia di massa ma non un misticismo di massa. Il mistico ha sempre in sé una vocazione solitaria. Ogni mistico, seppure in misura diversa, partecipa della natura di quell’uccello che san Giovanni della Croce descrive in cinque punti: si poggia sul ramo più alto, fissa la luce del Sole, non ha un colore definito, non ama accompagnarsi ad altri, neppure se simili a lui, canta molto dolcemente.

Non bisogna per altro credere che maghi e mistici siano in antagonismo tra loro, se non in senso ideale. Il vero conflitto si stabilisce tra forme diverse di magia, i cui scopi divergono. Alcuni maghi criticheranno i metodi, gli strumenti e le teorie di altri maghi, senza mai mettere in discussione la sostanza di una identica forma mentis. Magie di tipo materialistico e altre di tipo esoterico si scontreranno per contendersi il dominio del reale e del vero sapere.

Non si tratta infine di stabilire la superiorità o la maggior nobiltà di un carattere rispetto all’altro. La vita di ogni giorno richiede un equilibrio tra il volontarismo del mago e l’abbandono del mistico. Ma l’uomo moderno è quasi totalmente dedito ad atti magici di scandaglio e controllo del reale. Per converso, i suoi organi mistici si sono quasi completamente atrofizzati. Nella nostra società il Sacro resta lontano, sullo sfondo, coperto dai vari idoli del pensiero magico.

Ma nessuna civiltà sopravvive a un’eclissi del Sacro. Perciò qualcuno ha detto che la società del futuro sarà mistica o non sarà. L’umanità, diceva la Blavatsky, potrà essere salvata solo da divinità femminili, ovvero da un risveglio delle sue energie mistiche. È certo che finché l’uomo resterà imprigionato nella gabbia del pensiero magico, nel suo desiderio di padroneggiare il creato, richiamerà sulla Terra forze infere, verrà incatenato a pulsioni egoistiche e materialistiche.

È però assai difficile sia che il pensiero magico proceda a una sincera autocritica, sia che si possa coscientemente sviluppare il pensiero mistico. Attraverso lo sforzo si può forse diventare maghi. Ma niente può rendere mistico un uomo che non lo è per natura. Il misticismo, come il romanticismo e l’amore, ha un quid spontaneo e ingovernabile, cui non si giunge con la concentrazione intellettuale o lo sforzo morale. Solo attraverso una riflessione sui pericoli della tecnica e della razionalità, vivendo la disillusione del potere e la frustrazione dei suoi paradigmi teorico-pratici, l’uomo moderno potrebbe comprendere lo squilibrio presente nella sua anima e cercarvi un rimedio.

Se l’eccesso di magia è la causa del male, la cura dovrebbe prevedere un recupero di valori mistici. Bisognerebbe superare l’utilitarismo, la prudenza timorosa e la circospezione della nostra mentalità scientifica. Temo che la società attuale non sia pronta ad accettarlo. Ancora non può credere che per esser più felice dovrebbe guarire da un complesso magico. Anzi, di fronte ai problemi che il pensiero magico ha creato, ne aumenterà le dosi, adottando come terapia nuovi incantesimi e sortilegi. Finché, attraverso il dolore, forse capirà e lascerà la presa. Solo allora potranno fluire in lei forze mistiche e risanatrici. Sintesi e superamento di maghi e mistici, nascerà forse un terzo uomo che riuscirà dove i primi due hanno fallito.