Il triangolo no
di Enrico Tomaselli - 09/11/2024
Fonte: Giubbe rosse
L’elezione di Trump sembra aver portato scompiglio tra i dem statunitensi ed in gran parte delle leadership europee (pure se ora comincerà la corsa al riallineamento), ma anche speranza che i conflitti in atto possano trovare soluzione. Ma è poi davvero così? C’è davvero una possibilità di pace a breve termine, in Ucraina ed in Palestina? E c’è davvero un conflitto tra Trump ed il deep state amerikano?
Queste domande, strettamente intrecciate tra loro, nascono anche da una visione eccessivamente semplicistica della politica internazionale, e del sistema politico USA.
Cominciamo col chiarire alcuni punti base. È abbastanza evidente che una superpotenza globale, con una storia imperialistica di quasi un secolo, non si afferma - e non sopravvive - senza strategie di lungo periodo. Che, a loro volta, necessitano di tempi di maturazione non brevi, e non possono che estendere la propria proiezione su un arco di tempo misurabile in lustri. E, quindi, necessitano anche di un apparato che ne garantisca l’applicazione e la durata, giocoforza differente dai tempi della politica pubblica. Ne consegue che un'amministrazione presidenziale (soprattutto quando non può contare sulla possibilità di un secondo mandato) è parte di questo processo strategico, ma non ne è il dominus. In parole povere, pensare che un presidente possa ribaltare questo genere di strategie imperiali, è fuori dalla realtà. In effetti, molto più semplicemente, può anche essere un outsider, ma se fosse davvero fuori asse rispetto agli interessi profondi del paese, non arriverebbe mai neanche vicino alla presidenza. E naturalmente, nessuno potrebbe governare un paese senza l’assenso - figuriamoci con l’ostilità - di questo apparato, la cui permanenza nei gangli vitali dello stato si misura in decenni.
Dunque Trump avrà dei margini di manovra soprattutto all’interno degli Stati Uniti, mentre in politica estera non potrà andare contro i disegni strategici dell’impero. Non è sufficiente, quindi, guardare al Trump elettorale, per prevederne le mosse, ma bisogna sempre tener presente gli interessi profondi della superpotenza. Sotto questo profilo, al netto del roboante narcisismo del futuro presidente, non c’è una sostanziale divaricazione tra orientamenti presidenziali e disegni geopolitici statunitensi.
Rispetto al conflitto in Ucraina, l’orientamento del deep state è da tempo quello di sganciare gli USA quanto più possibile dal coinvolgimento nella guerra, mantenendola al tempo stesso in vita il più a lungo possibile, a spese però dell’Europa. Il piano di pace ipotizzato è, ancora una volta, lontano quanto basta dalle posizioni russe, tanto da lasciare supporre che si continuerà a combattere almeno per tutto l’anno a venire, e forse anche nel 2026 - a meno che l’AFU non collassi prima.
Anche per quanto riguarda il conflitto in Medio Oriente, non c’è da aspettarsi novità, né positive né tantomeno negative. Anche se Trump ed il suo entourage sono pienamente filo-sionisti, ed anche se Netanyahu sta accelerando i suoi tentativi di coinvolgere Washington nella guerra, il quadro fattuale non muta, ed è ben noto. La nuova amministrazione continuerà a sostenere Israele, ma non gli consentirà di farlo a discapito degli interessi statunitensi. E questo significa, essenzialmente, tre cose: la politica israeliana deve smetterla di creare problemi con i paesi arabi amici; la guerra multifronte deve darsi un orizzonte temporale definito, perché il sostegno militare non può continuare indefinitamente a questo ritmo; tentare l’avventura di una guerra con l’Iran è da escludere poiché in netto conflitto con gli interessi strategici americani.
In entrambi questi lati del triangolo USA-Ucraina-Israele, l’azione della presidenza Trump potrà esercitarsi sul come ottenere i risultati desiderati, ma niente di più. Trump non sarà il deus ex machina che interviene e risolve la tragedia. Perché non solo i problemi in essere sono estremamente complessi, ma il suo margine di manovra è predeterminato.