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Il triangolo no

di Enrico Tomaselli - 05/02/2025

Il triangolo no

Fonte: Giubbe rosse

Nell’ambito della sempre esplosiva situazione mediorientale, assume sempre più rilevanza una complessa triangolazione, che rappresenta oggi il cardine della politica statunitense nella regione. Mentre durante l’amministrazione Biden, infatti, la politica americana è andata completamente a rimorchio di quella israeliana, con l’avvento della nuova amministrazione Trump tornano a primeggiare gli interessi strategici di Washington – pur fermo restando il saldo appoggio per Tel Aviv.
In questa fase, in effetti, gli interessi strategici statunitensi si trovano a coincidere con gli interessi tattici israeliani, anche se – per ragioni di equilibri politici interni – questi ultimi non possono essere dichiarati apertamente all’interno dello stato ebraico. Ragion per cui Netanyahu trova comodo nascondersi dietro le pressioni americane, ed al tempo stesso le utilizza per contrattare delle contropartite. Il suo viaggio negli states (primo leader straniero incontrato da Trump dal suo insediamento) serve precisamente a questo.
Rapidamente archiviata la tragica boutade di trasferire i gazawi in Egitto e Giordania [1], le questioni sul tavolo sono altre, ma tutte di non facile soluzione.

La prima è quella dell’implementazione della seconda fase del cessate il fuoco. La questione centrale è in effetti quella del governo di Gaza dopo il ritiro israeliano. Netanyahu vorrebbe un sostegno americano alla possibilità di riaprire il conflitto, qualora lo ritenga necessario, ma si tratta di una questione che serve soprattutto a tenere buoni Smotrich e Ben Gvir. Israele è in guerra ininterrottamente da sedici mesi, e non ce la fa più. È probabile che Trump sia disponibile a dare supporto alle pretese espansionistiche ebraiche in Cisgiordania, come già fece durante il suo primo mandato, il che farà piacere all’estrema destra sionista, ma in questo momento Tel Aviv ha lì ben altri problemi: la guerra sospesa a Gaza divampa nella West Bank. La questione del governo della Striscia, quindi, è la prima che deve essere risolta. Hamas ha già fatto sapere che è disponibile ad accettare un governo terzo (del resto, è chiaro che il potere è nelle sue mani). L’unica soluzione possibile, quindi, cioè una amministrazione gestita da alcuni paesi arabi, richiede necessariamente la mediazione americana.

Israele vorrebbe tenersi le mani libere anche su questo, magari mantenendo una presenza militare nella Striscia (soprattutto lungo il corridoio Philadelphia, al confine con l’Egitto), ma non è una questione centrale; in ogni caso, quali che siano gli accordi che verranno sottoscritti, come sempre il governo dello stato ebraico sarà pronto a violare gli accordi quando e come gli farà più comodo. Come del resto si vede massicciamente per quanto riguarda il cessate il fuoco in Libano e, in misura minore, nella stessa prima fase di quello a Gaza. L’affidabilità israeliana, sotto questo profilo, è esattamente quella del proverbiale scorpione in groppa alla rana.
Del resto, è abbastanza evidente che quando si parla di pace, il non detto – da entrambe le parti – è che va intesa come temporanea. Quella tra palestinesi e stato israeliano, infatti, è una guerra di liberazione nazionale, e finirà soltanto con la definitiva sconfitta di uno dei due.
Ma in questa fase, appunto, sia Israele che i palestinesi (e l’Asse della Resistenza più in generale) hanno bisogno di una pausa. Che è poi quello che vuole anche Trump, per il quale porre fine ai conflitti più impegnativi e potenzialmente destabilizzanti è una priorità.

La vera partita, dunque, si gioca nella summenzionata triangolazione: USA-Israele-Arabia Saudita.
Washington offre a Tel Aviv soprattutto il rilancio degli Accordi di Abramo (che sono ben più importanti, per Netanyahu, di una impossibile vittoria militare contro Hamas), che per fare passi avanti però necessitano della fine della guerra (quantomeno a Gaza, preferibilmente anche in Cisgiordania) [2]. Trump ha quindi bisogno di Ryad, che a sua volta gioca la sua partita. Quando Trump chiede a Bin Salman di aumentare la produzione petrolifera, per abbassarne il prezzo e danneggiare così la Russia, l’Arabia ha buon gioco a dire di no. Non solo perché così facendo danneggerebbe sé stessa, ma perché Ryad e Mosca vanno d’amore e d’accordo nell’OPEC, e di fatto la controllano. I sauditi, quindi, cercano di trarre il massimo vantaggio possibile in una situazione complessa e multi fronte (adesione o meno ai BRICS, ripresa o meno del conflitto indiretto con lo Yemen, sviluppo o meno delle relazioni pacifiche con l’Iran…), e benché interessati a loro volta a sviluppare i rapporti con Israele, sanno di avere il coltello dalla parte del manico.

Ciò che rende dunque possibile il raggiungimento di un accordo anche sulla seconda fase dei negoziati che si svolgono tra Qatar ed Egitto, è il sostanziale convergere degli interessi a breve-medio termine di tutti i soggetti coinvolti. Il che ovviamente non vuol dire che saranno semplici. Soprattutto da parte israeliana, che proprio in quanto è quello in maggiori difficoltà (anche interne), necessita di un atteggiamento che ne mascheri la debolezza. Si può però, a ragion veduta, ritenere che la situazione in Medio Oriente vada in direzione di una temporanea attenuazione delle tensioni. Fermo restando che l’intera regione è comunque fitta di potenziali aree di crisi, capaci di innescare una nuova deflagrazione generale.
Dalla Siria allo Yemen, dalla Cisgiordania all’Iran, dal Kurdistan alla Turchia, il triangolo è sempre e comunque un segnale di pericolo.


1 – Nella conferenza stampa congiunta, in occasione della visita di Netanyahu, il Presidente Trump ha nuovamente rilanciato l’idea del trasferimento dei palestinesi da Gaza in Egitto e Giordania, arricchendola però di ulteriori, deliranti particolari. Se nella primaria declinazione l’idea riguardava una parte dei palestinesi della Striscia, adesso viene estesa all’intera popolazione e, cosa ancor più fuori da ogni realtà, Trump dice che saranno gli Stati Uniti a “prendere possesso” della Striscia, a ripulirla dalle bombe inesplose e dalle macerie, ed a ricostruirla. Non fa ovviamente menzione né delle brigate combattenti della Resistenza, né delle strutture logistiche militari di questa (tunnel e fabbriche di armi sotterranee), ma è chiaro che la prima parte sarebbe impossibile senza questa.
Anche a prescindere, infatti, dalla totale e decisa opposizione di tutti i paesi della regione, oltre che ovviamente di Russia e Cina (e per primi proprio Egitto e Giordania), non c’è solo un problema di fattibilità politica – per non parlare di quella logistica – ma ce n’è uno (gigantesco) di fattibilità militare.
Un progetto del genere chiaramente non potrebbe essere attuato senza aver prima distrutto ogni capacità di combattimento della Resistenza. E tenendo presente che Israele, in quindici mesi di feroci combattimenti e bombardamenti a tappeto non è stata capace di conseguire questo risultato (persino l’intelligence USA riconosce che le brigate combattenti hanno già reclutato più uomini di quanti ne abbiano perduti), è semplicemente inimmaginabile che i Marines vengano inviati a farsi ammazzare a Gaza, per cosa poi? Fare un favore a Netanyahu? L’unica ragione per cui vale pena fare menzione di queste dichiarazioni è per sottolineare che, con questa continua raffica di proposte insensate, Trump riesce comunque a monopolizzare la sfera informativa globale, coprendo al contempo la sua completa incapacità di formulare proposte fattibili per risolvere le crisi più drammatiche ed urgenti.
2 – Di recente, l’Arabia Saudita ha ribadito che non prenderà in considerazione alcuna ripresa dei rapporti con Israele, finché non ci sarà uno stato palestinese. Si tratta però, con ogni evidenza, di un modo per tenere alta l’asticella. Se la guerra avesse uno stop significativo, e venisse avviato un percorso politico-diplomatico che dichiarasse come obiettivo finale la soluzione dei due stati, è probabile che Ryad finirebbe con l’aderire agli Accordi, magari giustificandolo come un passo per favorire la nascita di uno stato palestinese, pur consapevole che Israele non lo accetterà mai e poi mai.
Allo stato attuale, quindi, l’adesione saudita agli Accordi di Abramo è la carota da agitare per convincere Tel Aviv ad implementare – in un modo o in un altro – la seconda fase del cessate il fuoco.