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Il “trumpismo” e la conclamata subalternità dell'Europa

di Daniele Perra - 15/01/2025

Il “trumpismo” e la conclamata subalternità dell'Europa

Fonte: Daniele Perra

Secondo A. Dugin, il “trumpismo” (che assume il rango di vera e propria ideologia) sarebbe una sorta di “forza multipolarista passiva”, nel senso che questo non avrebbe nulla in contrario rispetto alla realizzazione di ordine globale multipolare e, di conseguenza, non farebbe nulla di concreto per impedirlo. Tale considerazione deriverebbe da una problematica (a mio modo di vedere) interpretazione della cosiddetta “Dottrina Monroe” che viene (sempre a mio modo di vedere) messa indebitamente in contrapposizione alla “Dottrina Wilson”; come se le due impostazioni geopolitiche fossero agli antipodi all'interno di quell'agglomerato che potremmo definire in modo molto generale come “ideologia americana” (fondata essenzialmente sui temi di derivazione teologico-protestante  della “predestinazione”, e dell'“eccezionalismo”, e sul “mito della frontiera”). Avendo letto (e non dimenticato) Carl Schmitt, invece, tendo a considerare la “Dottrina Monroe” come la prima reale manifestazione dell'imperialismo americano e, di conseguenza, la “Dottrina Wilson” come una sua evoluzione non necessariamente in contrasto con la prima.
Sempre Schmitt, inoltre, ci ricorda che l'insistenza sul tema della “predestinazione” (la fede nella “predestinazione”) è “solo l'intensificazione estrema della coscienza di appartenere ad un mondo diverso da quello corrotto e condannato al declino”. Fu così per i Padri Pellegrini che lasciarono l'Europa; è così per il “trumpismo” che cerca di imporsi come qualcosa di nuovo rispetto alla decadente “cultura progressista” di parte delle élite oligarchiche nordamericane. In questo senso, sempre secondo A. Dugin, la nuova elezione di Donald J. Trump rappresenterebbe una sorta di “rivoluzione”. La realtà mi pare essere assai diversa. Il “trumpismo”, infatti, ad un attento studioso di geopolitica (sotto tutti i suoi aspetti), non può che apparire per una delle innumerevoli forme di “riproduzione costante delle forme di appartenenza”. Faccio un esempio classico. Alla fine degli anni '70 del secolo scorso, tra scandali e la rovinosa sconfitta in Vietnam, gli Stati Uniti sembravano aver perso il loro slancio vitale di guida del cosiddetto “mondo libero”. L'ascesa di Ronald Reagan alla Casa Bianca (più o meno gli stessi anni del trionfo imprenditoriale, assai agevolato, dello stesso Trump) venne percepita come l'inizio di una “nuova epoca”, all'insegna di un rinnovato spirito patriottico strettamente interconnesso al mito del libero mercato e del neoliberismo. In quel caso gli “spazi liberi” del mercato sostituivano in qualche modo lo spirito di conquista della frontiera e la conseguente appropriazione di nuovi spazi. Allo stesso modo, l'elezione di Trump viene percepita dagli “apologeti dell'Occidente” come una necessaria catarsi dalla quale ripartire per ristrutturare (e magari ampliare) il loro mondo corrotto, provato dalla decadenza, e prossimo alla sconfitta su più teatri.  
A questo proposito, inoltre, bisogna tenere a mente che, sin dalla fine dell'Ottocento (proprio quando il “mito della frontiera” si stava esaurendo), correnti di pensiero interne agli Stati Uniti sostenevano la tesi che per rendere sostenibile il sogno americano fosse (era ed è tutt'oggi) necessario che il suddetto “mito della frontiera” venisse proiettato verso l'esterno in modo da “riprodurre costantemente il senso di nuova e rinnovata appartenenza” e di “continuare a vivere la tensione realizzativa” di un (percepito) “mondo della luce” (lo spazio pensato in origine dai gruppi protestanti arrivati in Nord America) che si pone in naturale contrasto/opposizione con il “mondo delle tenebre” (ovvero: tutto il resto; tutto ciò che non è stato omologato allo spirito americano).
Il “trumpismo” non è affatto estraneo a questa dinamica (si pensi al sogno espansionista verso l'Artico, con l'eventuale e conseguente “territorializzazione” a stelle e strisce dello stesso Mare Artico). Anzi, in un mondo in cui lo Stato (nonostante la globalizzazione) continua a rimanere il detentore privilegiato della forza di coercizione, il “trumpismo” si manifesta come il tentativo ultimo di dare all'Occidente egemonizzato dagli USA una struttura pseudoimperiale in cui gli apparati di sicurezza vengono appaltati ad agenzie private direttamente collegate al centro (a Washington, che detiene il primato tecnologico ed economico a discapito delle aree periferiche dello “pseudoimpero”). Un qualcosa in cui neanche le cosiddette “élite globaliste” sono riuscite.
In altri termini, si presenta come un passo ulteriore verso la “managed democracy”: forma politica tutta incentrata su forme di sorveglianza digitale in cui élite plutocratiche ricorrono alla tecnologia informatica e ad algoritmi per ridurre l'esperienza umana a fattori misurabili, osservabili e (naturalmente) manipolabili. In questo caso, inoltre, non dovrebbero ingannare le presunte aperture alla “libertà di opinione” sulle piattaforme dei vari Musk e Zuckerberg.
Di conseguenza, il presunto “multipolarismo trumpista” si risolve in una “costruzione ideale” in cui non solo gli Stati Uniti mantengono invariato il loro primato egemonico di appropriazione spaziale e di forza coercitiva a livello globale ma solidificano ulteriormente il loro controllo sull'Europa: la vera vittima sacrificale sull'altare della loro ristrutturazione politica, economica ed industriale.