Incendiari
di Marco Tarchi - 26/02/2023
Fonte: Diorama letterario
Che concetti come ipocrisia, manipolazione, faziosità, cinismo, inganno siano strettamente imparentati con la politica, non è certamente una novità: l’opera di Machiavelli – ma anche quella dei grandi pensatori della classicità greca o cinese – offre una spiegazione più che sufficiente dei motivi di questo imperituro connubio. E la storia dei cinque secoli successivi alla pubblicazione del Principe non ha fatto che confermare le affermazioni che vi erano contenute, allargando a dismisura la casistica degli esempi a cui attingere per rendersene conto, sia in tempi di pace che in epoche di guerra.
Tuttavia, fino a un anno fa era difficile immaginare sino a che punto estremo l’intensità dell’uso dei comportamenti che in quelle parole si rispecchiano avrebbe potuto spingersi. Le vicende che ruotano intorno al conflitto russo-ucraino, e al suo interno, ce lo stanno mostrando. E forse il catalogo delle manifestazioni di tutte queste forme di negazione dei princìpi etici a cui le democrazie liberali a parole si richiamano incessantemente non ha ancora finito di illustrarci il suo campionario.
Nel momento in cui scriviamo, la mistificazione dei caratteri dello scontro in atto – già in partenza falsati dal ricorso all’oleografia della lotta del Bene contro il Male – sta infatti facendo ulteriori passi in avanti. Dopo aver assistito ai proclami dei governanti “occidentali” che hanno camuffato la loro partecipazione alla guerra sotto la patetica finzione dell’assistenza al paese aggredito, ci tocca persino di ascoltare un presidente nordamericano che, mentre annuncia il futuro invio di carri armati Abrams all’esercito di Kiev – mossa decisa all’unico scopo di rendere immediata la consegna degli omologhi Leopard da parte dei vassalli europei –, assicura che quella decisione non configura un’offensiva contro la Russia. E questo ennesimo insulto all’intelligenza passa, ancora una volta, sotto silenzio.
A coprire la guerra vigliacca – perché combattuta per procura, senza dichiararla e soprattutto senza rischiare la vita di un solo soldato sul terreno, limitandosi a fornire strumenti di morte e informazioni spionistiche per renderne l’impatto più efficace – provvede l’esercito di riservisti in borghese che occupa le redazioni giornalistiche e da lì lancia chiamate alle armi, denigra il nemico, dirama notizie false, offusca, minimizza o tace quelle vere quando non sono gradite ai superiori, e se è necessario rincuora i tifosi e fa loro sognare l’inevitabile trionfo finale. È una storia vecchia anche questa, che tante volte ci è stata ricordata, ironizzandoci sopra quando riguardava gli altri – chi non ricorda i sarcastici riferimenti agli inattendibili dispacci della agenzia Stefani fra il 1941 e il 1943, che innumerevoli volte ci sono stati propinati da giornali e documentari? –, ma che descrive alla perfezione quanto sta accadendo nei paesi europei dal 24 febbraio 2022 ad oggi.
L’esemplificazione di questo dato di fatto, sulla base dello spoglio di giornali e siti web e dell’ascolto delle trasmissioni radiofoniche e televisive, potrebbe assumere ritmi quotidiani, ma è più utile e semplice riassumere sinteticamente i capisaldi su cui si regge questa strategia di intossicazione dei cervelli, che purtroppo sta dando, in mancanza forzata di un efficace contrasto, cospicui, anche se provvisori, risultati. Un primo strumento di questa campagna di propaganda è l’unilateralità con cui vengono filtrate e presentate le notizie su quanto sta accadendo nel teatro bellico. Ai cittadini europei giungono solo le voci allineate con il governo ucraino, o a quest’ultimo pregiudizialmente favorevoli. Chiuse già nei primi giorni le fonti di informazione russe, come Sputnik e Russia Today, le prese di posizione del Cremlino sono riferite in modo molto frammentario e quasi esclusivamente quando si prestano a dipingere la brutalità e la virulenza dell’Orco Rosso. E in ogni caso, quali che siano le affermazioni provenienti dallo stato maggiore o da un ministero moscovita, le si liquida senza la benché minima verifica, derubricandole a inattendibili e propagandistiche.
Di contro, ogni dichiarazione rilasciata da Zelensky o da qualcuno dei suoi collaboratori viene presa per oro colato, anche quando è apertamente smentita dai fatti: basti pensare al sito web del “Corriere della sera” che, nello stesso giorno, apriva la pagina con la notizia che tutti i missili lanciati su Kiev nella notte precedente erano stati intercettati e, nella colonna di destra, riportava un video nel quale si illustrava la ampiezza delle distruzioni che quegli stessi missili, evidentemente giunti a bersaglio, avevano provocato. Oppure alla conquista della località di notevole rilevanza strategica di Soledar, documentata da precise immagini e certificata da autorevoli centri di analisi statunitensi, ma per oltre una settimana negata dal governo ucraino e dalla stampa simpatizzante. O, ancora, al tentativo iniziale di attribuire alla Russia il missile caduto all’interno del territorio polacco, rivelatosi invece, dopo un semplice esame dei suoi resti, uno di quelli in dotazione alla contraerea ucraina, che aveva (forse…) sbagliato obiettivo.
Un secondo elemento è la promozione a celebrity mediatica dell’attuale presidente ucraino. Messi subito in sordina gli elementi più pittoreschi della sua biografia di attore comico (gli stessi che sono stati a lungo usati per intralciare in Italia l’avventura politica di Beppe Grillo), di Zelensky vengono sfruttate abbondantemente le abilità istrioniche, esibendolo su ogni possibile palcoscenico come il messia del nuovo ordine planetario a venire, finalmente integralmente convertito ai valori liberali, magari con qualche nuova iniziativa di democratizzazione a mano armata sul tipo di quelle che avrebbero dovuto rimettere in riga l’Iraq e la Libia. Dai Grammy Awards al forum di Davos e agli incontri del G8, fino a qualunque altro scenario praticabile per raggiungere le platee che contano (dagli esponenti del Gotha finanziario fino ai telespettatori dei festival musicali), il fedele esecutore degli ordini di Washington recita il suo copione senza contraddittorio sperando di diventare il proconsole, e forse il governatore, della provincia più orientale dell’impero a stelle e strisce, senza neppure risparmiarsi comparsate accuratamente studiate dell’affascinante consorte, gratificata dagli organi di stampa dell’appellativo di first lady.
Una terza, e certo non meno efficace, arma propagandistica è la demonizzazione dell’avversario. La raffigurazione del nemico come un mostro è un metodo abituale, specialmente da quando all’etica del duello si è sostituita quella della lotta in nome del “bene dell’umanità”, e non è difficile trovare il modo per fare indossare al bersaglio scelto i panni adatti a trasformarlo in uno spauracchio. Dagli archivi iconografici delle epopee rivoluzionarie inglese, francese e americana e delle due guerre mondiali si possono estrarre un’infinità di caricature destinate ad aizzare gli umori delle opinioni pubbliche contro i malvagi di turno, autorizzando il ricorso a qualunque metodo pur di sconfiggere i loro perversi disegni. Oggigiorno, gli strumenti si sono fatti più raffinati, e quelle manipolazioni legate al potere dell’immagine che Giovanni Sartori ha denunciato nel suo Homo videns oltre un quarto di secolo fa sono diventate più facili e incisive. La regola a cui obbediscono è chiara: illustrare i reali o presunti crimini altrui, occultare i propri. Chi non sta al gioco, come è accaduto per sbadataggine ad Amnesty International nel suo deprecato e insabbiato rapporto che metteva in causa anche gli ucraini, è ridotto al silenzio o viene denunciato come collaborazionista.
Nel caso che qui ci interessa, questa tattica si è arricchita di nuove varianti. È noto, e ne abbiamo già fatto oggetto di riflessione, come già agli albori del conflitto l’intero patrimonio culturale russo sia stato condannato all’emarginazione sul suolo occidentale, quasi che si avesse timore di subirne una malefica contaminazione. La scomparsa pressoché totale di rappresentazioni teatrali, di film e di manifestazioni del genio letterario, figurativo o scientifico russo ha avuto l’evidente obiettivo di eliminare qualunque ostacolo alla promozione di un’immagine del grande paese euroasiatico come un ricettacolo di rozzezza, brutalità, disumanità. Ma si è voluto procedere anche oltre, vietando ogni presenza russa in campo sportivo, pronunciando di fatto un giudizio di correità di un intero popolo rispetto all’azione dei suoi governanti, e adesso Zelensky esige dalla Francia – e non, si badi bene, dal Cio, dove siedono rappresentanti di tutti i paesi del mondo, molti dei quali restii a sottoscrivere i diktat ucraino-statunitensi – che a nessun atleta russo, sotto qualsivoglia vessillo, sia consentito di partecipare alle Olimpiadi di Parigi del 2024. Estremo stigma di disumanizzazione, che con amara ironia splendidamente contrasta con la regola dei giochi olimpici antichi, che per tutta la loro durata imponevano la tregua alle armi.
Tutt’altro che da sottovalutare è poi un quarto versante dell’offensiva bellico-mediatica del fronte occidentale: il ricorso al ricatto emotivo basato sulla commozione e sulla compassione, già sperimentato e collaudato in altre occasioni, in primis il racconto dell’immigrazione.
Se infatti è logico che nell’animo degli spettatori esterni al conflitto possa accendersi una spontanea solidarietà per le sorti dei tanti cittadini ucraini coinvolti loro malgrado negli scontri, con distruzioni di case e privazioni di fonti energetiche, molto meno lo è tacere sistematicamente sulle condizioni nelle quali si sono venuti a trovare i tanti ucraini russofoni che abitavano le regioni orientali del paese, da anni sottoposti a bombardamenti e vessazioni.
Le cronache strappalacrime che si soffermano con toni e parole che un tempo si sarebbero detti “da libro Cuore” sull’una o l’altra vicenda drammatica delle vittime civili di una parte contrastano con l’assoluto silenzio che circonda chi ha conosciuto lo stesso destino “dall’altra parte”. E il contrasto diventa ancor più eclatante quando, mentre si piange sulla morte della donna medico che prestava servizio nell’esercito di Kiev o del volontario che aveva lasciato la chitarra della sua band per imbracciare il mitra, non si riesce a nascondere la soddisfazione per il video che mostra un carro armato russo saltare in aria su una mina e far bruciare vivi i suoi occupanti o per il “colpo inflitto all’armata russa” centrando un edificio dove erano accasermate centinaia di reclute mobilitate dalla riserva, che il più diffuso quotidiano italiano non ha esitato a descrivere come “sbriciolate”. Alle leggi del manicheismo, evidentemente, non ci si può sottrarre, e le lacrime a disposizione non sono sufficienti per soffermarsi a compiangere i caduti della “parte sbagliata”. Lo sa bene chi non ignora quale trattamento i vincitori riservano ai vinti da quando nelle guerre si sono insinuate le passioni connesse alle ideologie e ha appreso quale significato concreto abbia assunto a tale proposito l’espressione damnatio memoriae: una sorta di applicazione preventiva, si potrebbe dire oggi, della mentalità che sta alla base della cancel culture.
Un ruolo a parte, naturalmente, viene riservato alla censura, da sempre essenziale in guerra ma che nella nostra epoca, grazie ai progressi tecnologici, ha raggiunto inedite forme di raffinatezza. È superfluo dilungarsi sul tema dell’emarginazione-squalificazione-intimidazione riservata a quanti, in sede pubblica e in particolare nei contesti più visibili come le trasmissioni radiotelevisive, sostengono opinioni o anche solo interpretazioni non conformi alla vulgata dominante sulla questione di cui ci stiamo occupando. Quanto abbiamo scritto nei primi mesi di guerra ci appare sufficiente. Più interessante è notare come il gioco dei palinsesti riesca a far slittare nell’anonimato o far evaporare nel più breve tempo possibile le notizie sgradite. Quale rilievo ha avuto, sulle testate giornalistiche che contano, l’immediato allontanamento dall’incarico del consigliere di Zelensky che aveva sollevato il sospetto che l’edificio civile di Dnipro colpito da un bombardamento con conseguente morte di almeno 45 dei suoi abitanti fosse stato centrato da un missile russo non diretto su quel bersaglio ma deviato dai colpi della contraerea “amica”? E l’inchiesta di un organo di stampa ucraino che ha svelato le impressionanti cifre del giro di vicende corruttive che ha coinvolto numerosi membri del governo e obbligato il presidente a un ampio rimpasto? La presenza di queste informazioni sulla rete è durata il classico spazio di un mattino e nelle versioni cartacee si è ridotta a un parco numero di righe relegate, con scarse eccezioni, nelle pagine interne.
Molte altre osservazioni si potrebbero fare sulle incongruenze e assurdità che caratterizzano la rappresentazione politico-mediatica del conflitto in atto. Basti pensare alla definizione di “Stato terrorista” affibbiata alla Russia, perché bombarda centrali elettriche e depositi di carburanti per indebolire il nemico senza dover colpire direttamente luoghi abitati, da chi continua a ritenere inevitabili e perciò giusti i massacri di popolazioni civili tedesche, a partire da quella di Dresda, operati a suo tempo dagli angloamericani, o quelli più recenti di decine se non centinaia di migliaia di iracheni, e non all’Ucraina che fa uccidere con una bomba collocata nella sua auto la figlia di un intellettuale russo avversario o invia un camion imbottito di tritolo a far saltare il ponte che collega la Russia alla Crimea. Oppure soffermarsi sul modo ipocrita in cui i governanti dei paesi asserviti alla Nato e a chi la comanda utilizzano la formula della “difesa del nostro interesse nazionale” per giustificare il loro impegno militare nella guerra, quando invece è proprio quell’interesse ad essere negato e tradito attraverso quegli atti, che riaffermano concretamente la condizione di sovranità limitata in cui versano i loro Stati. Ma è meglio limitarsi a dire, con chiarezza, verso quali scenari ci stanno conducendo questo tipo di comportamenti.
Per sudditanza e/o per incoscienza, questi governi stanno rendendo realistica un’ipotesi a cui soltanto pochi mesi fa pareva assurdo dar credito: l’avvio di una nuova guerra planetaria.
Suscitando un odio fra russi e ucraini destinato a protrarsi indefinitamente nel tempo, la Nato e i suoi zelanti sudditi hanno inferto una ferita insanabile all’Europa e al mondo, aprendo una partita geopolitica che va ben oltre i confini della Siberia. Fornendo armi sempre più sofisticate e ingenti finanziamenti sottratti alle loro rispettive popolazioni a uno dei due contendenti – che, del resto, appare ogni giorno più insaziabile: la marionetta di Kiev si prende ormai per il suo burattinaio e chiede missili a lunga gittata e bombardieri supersonici, convinto di poter giungere da trionfatore sino a Mosca, mentre i suoi collaboratori lucrano milioni di euro nelle loro attività corruttive, estese perfino alla fornitura di generi essenziali ai compatrioti –, questi incendiari danzano sul ciglio dell’abisso.
Si illudono di poter dissanguare fa Russia attraverso le sanzioni economiche e di suscitarne una crisi interna che possa portare all’agognato regime change, immaginando di poter far conto su una classe dirigente di ricambio disposta ad accettare un drastico ridimensionamento del peso e del ruolo del paese in cambio di una maggiore apertura al mercato internazionale dei capitali degli oligarchi e di generosi aiuti allo sviluppo economico. Sperano, con un’ingenuità senza limiti, che la Cina non solo li lascerà condurre in porto il progetto di cui, attraverso l’Alleanza atlantica, si sono resi complici, ma addirittura si schiererà al loro fianco, predestinandosi ad essere la prossima vittima del progetto di egemonia unipolare che la classe dirigente degli Stati Uniti d’America, nella sua branca politica così come in quella economico-finanziaria, non ha mai smesso di coltivare, sviluppare e perfezionare.
L’Europa non è nuova, purtroppo, a questi esercizi di sprovvedutezza e di cecità dei suoi governanti, di cui il Vecchio continente ha subìto già più volte le tragiche conseguenze, perdendo prima la sua centralità e poi la sua indipendenza. Malgrado i fiumi di retorica profusi da politici e media per dimostrare il contrario, è evidente oggi più che mai che le lezioni di quegli errori non sono state comprese.
La guerra vile e per procura che la Nato, l’Unione europea e i governi di quasi tutti i paesi che la compongono stanno conducendo contro la Russia potrebbe far pagare prezzi inauditi ai popoli che sono ad essi assoggettati. È perciò un dovere civile, prima ancora che una scelta politica o ideologica, contrastare con fermezza, pur con la consapevolezza della scarsità delle risorse che oggi le voci libere e dissidenti hanno a disposizione, questa folle deriva.
(Diorama, n. 371, gennaio-febbraio 2023, pp. 1-3)