Inchiesta sulla solitudine di massa, la malattia del XXI secolo
di Alessio Mannino - 16/03/2025
Fonte: La Fionda
La malattia silenziosa del secolo ha un nome: solitudine di massa. Si diffonde come una selezione al contrario: là dove la vita è movimento, la solitudine porta all’isolamento. L’assenza di relazioni imprigiona in bolle di morte sociale, e non a caso la bolla digitale è la metafora più usata nel nostro tempo. Per la mente umana, figlia dell’evoluzione biologica che ci rende ancora, nonostante tutto, primati bisognosi di empatia, solitudine e morte coincidono. Sotto la superficie di un’apparente normalità avanzano consumismo emotivo, povertà affettiva, sradicamento spirituale. Lo vediamo ogni giorno: il tempo concesso al cibo attorno a una tavola comune è crollato, l’home delivery sostituisce il cucinare, il cinema e ogni tipo d’acquisto, per la gioia della piovra Amazon. Anche le droghe si adeguano, per lo meno negli Usa faro della nostra superiore civiltà: come sottolinea un’inchiesta dal titolo “The Anti-Social Century” recentemente pubblicata dal mensile The Atlantic, dopo gli analgesici, sono gli oppioidi a fare strage, con il fentanyl come arma di autodistruzione per poveracci. Trasversale a età, reddito e ceto, la solitudine è un fatto politico, poiché pesa di più su chi ha minori disponibilità economiche. E non conosce confini: secondo un sondaggio Gallup del luglio 2024, nel mondo oltre una persona su cinque dichiara di sentirsi “molto o abbastanza sola” (23%, più di 1 miliardo e 800 milioni di individui).
Il più grande studio realizzato finora, uscito sulla rivista scientifica Nature nell’ottobre 2024 e ripreso a novembre sul sito di aggiornamento medico Medscape, definisce la solitudine “una seria minaccia sia per il cervello che per il corpo”, perché “provoca ansia e depressione ma anche patologie pericolose per la vita, come le malattie cardiovascolari, l’ictus, l’alzheimer e il Parkinson”. Già da due anni a questa parte, infatti, l’Oms ha istituito un’apposita commissione per indagare il fenomeno. I singoli Stati non sono da meno. La Gran Bretagna ha scoperto che su quasi 67 milioni di abitanti ben 9 milioni si sentono soli, e il 17 gennaio 2018 ha istituito il Ministero della Solitudine. Negli Stati Uniti, dove un quarto degli adulti non è sposato, il presidente dell’American Enterprise Institute, Arthur C. Brooks, nel 2018 scriveva sul New York Times che “l’America sta soffrendo di un’epidemia di solitudine”. In Spagna, l’Istituto Nazionale di Statistica ha rilevato che nel 2016 più di quattro milioni e mezzo di spagnoli vivevano da soli, la maggior parte dei quali sotto i 65 anni.
In Italia, secondo l’Istat il 2022 è stato l’anno spartiacque. Per la prima volta, infatti, i single hanno superato le famiglie: 33,2% contro 31,2%. I vedovi o separati (famiglie unipersonali) nel 2011 rappresentavano già un terzo del totale dei nuclei familiari: nel 1971, erano il 12,9%. In totale, nel 2024 nel nostro Paese 8 milioni e 365 mila persone vivevano sole. Un numero, complice l’invecchiamento demografico, destinato a crescere. Nel 2017, un rapporto Eurostat segnalava che gli italiani che non sapevano a chi affidarsi in caso di bisogno erano più che raddoppiati, rispetto alla media dei 28 Stati esaminati (13% contro 6%). Dato interessante se confrontato con un’altra analisi Istat di qualche anno dopo, secondo cui, nella fascia tra i 18 e i 49 anni, erano soltanto 500 mila coloro che non inserivano la paternità o maternità nel proprio progetto esistenziale (anzi, il 46% vorrebbe non meno di due figli). “L’impressione di fondo”, commentavano gli autori del dossier del 2020, “è che il nostro Paese non riesca a pensare al suo futuro, ad assecondare un desiderio visibile nella società che può realizzarsi solamente rimuovendo tutti quegli ostacoli che hanno impedito in questi anni, a uomini e donne, di costruire la propria indipendenza, di avere i figli che volevano e di tradurre in realtà un loro desiderio”.
Una frustrazione esacerbata dalla tempesta raggelante del Covid. Le pause forzate dei lockdown hanno, da un lato, fatto certamente riscoprire il gusto di ritmi più lenti, influendo sulle massicce dimissioni dai posti di lavoro e sul rifiuto di accettare occupazioni con orari penalizzanti per la vita privata. Ma hanno anche accelerato la colonizzazione del tempo libero da parte dei social network e, più in generale, dell’iperconnessione in Rete. Navigando, chattando, videochiamando, guardando streaming e acquistando online, si ammazza il tempo. Ma si ammazza anche la vita di relazione, faccia a faccia. A farne le spese sono soprattutto gli adolescenti. Secondo una corposa indagine1 svolta dalla sociologa Jean Twenge sui ragazzi americani, è comprovato che comunicano ormai più virtualmente che di persona. Le amicizie online non hanno soppiantato quelle dal vivo, ma hanno preso il sopravvento. O meglio: le prime strutturarano le seconde. Perché l’uso dello smartphone come strumento di socializzazione è più facile, più comodo, meno faticoso. E soddisfa il bisogno di sicurezza che tradisce, nei soggetti più fragili, un’enorme insicurezza.
Venendo alle nostre latitudini, un rapporto elaborato da Telefono Azzurro nel febbraio 2023 (“Tra realtà e Metaverso. Adolescenti e genitori nel mondo digitale”) riferisce che, fra i 12 e i 18 anni, il 50% di loro passa sui social dalle due alle tre ore al giorno, mentre il 14% dalle quattro alle sei ore. Il 35% non riesce ad addormentarsi normalmente, e il 22% dichiara che si sentirebbe “perso” senza la dose giornaliera di onlife. Il punto non è tanto la percentuale dei sentimenti ansiosi, ma l’aumento tendenziale: più 10 per cento nell’arco di cinque anni. Una significativa minoranza (che va dal 12 al 24%) prova invidia, frustrazione, senso di inadeguatezza. Molto più veloci nell’immagazzinare informazioni delle generazioni precedenti, gli adolescenti hanno però una soglia di attenzione più bassa, e sono più deboli nella capacità di concentrarsi. I libri sono più ostici che in passato perché non sono, per i loro standard, adeguatamente veloci. Non catturano l’attenzione di chi è cresciuto cliccando su un link o scorrendo pagine nel giro di pochi secondi. Senza contare i danni alla salute derivanti dalla sedentarietà, che spesso si accompagna all’auto-recludersi in casa (fino ai casi estremi degli hikkikomori, i neo-stiliti dell’auto-segregazione). L’aumento dell’obesità, altro killer occulto in un Occidente ingozzato a zuccheri, viene anche da qui.
È la desertificazione degli affetti, tuttavia, a costituire l’allarme maggiore. Mentre Google, Meta, Amazon e gli altri oligopolisti s’ingrassano, l’affaccendarsi in Rete non colma la mancanza d’intimità, che in tanti cercano di riempire con le applicazioni di dating. Secondo una stima di qualche anno fa, 9 milioni di italiani sarebbero ricorsi a Tinder, Meetic o Grindr per avere uno straccio di appuntamento, o più comunemente per sfogare le voglie sessuali. Tuttavia oggi, a quanto pare, i ragazzi della Generazione Z (i nati fra il 1997 e il 2012) starebbero abbandonando l’uso compulsivo di questi strumenti. Ma non per tornare alla fisicità del vis-à-vis: per paura del rifiuto. “Scartata anche l’opzione dell’online, per i giovanissimi sembrano restare solo due opzioni: la solitudine o il metaverso”2. Oppure la pornografia online, che a differenza delle vecchie riviste “sporche”, è massiva e fruibile da tutti, minorenni compresi (quasi esclusivamente maschi). O ancora, il cyber sex e il sexting su OnlyFans, che ha “democratizzato” il porno trasformandolo in un’industria delle perversioni casalinghe. Et voilà: una manciata di piattaforme che monopolizzano il mercato video e la diffusione di una catena di montaggio di produttori del sesso fai-da-te: anche qui, fra milioni di mani che sudano nell’atto onanistico, è all’opera il modello liberista che monetizza tutto ciò che tocca. Con la sessualità ridotta a merce di consumo autoerotico e anestetizzata in un’ipertrofia di immagini performanti e irreali. E, oltretutto, destinata a proiettarsi in un universo di piaceri su misura, stanchi e deprimenti, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Su questo fronte, sono in fase di avanzata sperimentazione macchine che sembrino sempre più empatiche, in grado di capire se il “partner” è triste così da proporgli una canzone, raccontargli una barzelletta o giocare con lui. Oltre a soddisfare, con apposito buco, i suoi appetiti.
Negli anni è fiorita un’ampia letteratura di studi sulla sex addiction, la dipendenza dalla tecnologia come surrogato del sesso praticato. Tutti convergono nella tesi che siamo di fronte a una fuga dalle relazioni, dietro cui si cela l’incapacità di reggere il confronto con l’altro e la paura di dipenderne. L’espressione in voga fra i giovani negli Usa è “catching feelings”, prendersi dei sentimenti: come fossero un’infezione. Sono distorsioni dovuta a una crescente ansia di prestazione che discende, inutile girarci intorno, da un preciso fattore ideologico. La visione individualista ed efficientista mette al centro dell’esistenza l’io, in una ricerca di costante autopromozione e autoaffermazione che spinge a misurare eros ed affettività in termini di efficienza, calcolo, rapidità. “Investimento emotivo”, “capitale relazionale”, “performance” formano un lessico e un immaginario a cui la psiche di chi è meno “competitivo” reagisce con l’auto-inibizione e il ripiegamento solitario. La psicoterapeuta Silvia De Napoli, autrice di uno studio specifico (“La solitudine, fonte di benessere ma di altrettanta patologia”, State of Mind, 2019), spiega il vuoto affettivo con l’idea egemone del “fare prestazionale”, il “bisogno indotto di dover riuscire per forza”. Sui social si privilegia una rappresentazione positiva di sé, circoscritta ai momenti felici. Ma questo porta a nascondere quelli infelici. La relazione sana, al contrario, è “saper stare assieme senza obbligo di fare nulla, ma con l’impegno di prendersi cura dell’altro”.
Come sempre, le nevrosi fanno la felicità delle case farmaceutiche: nel 2019, secondo l’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco), il 10% della popolazione faceva largo uso di ansiolitici a base di benzodiazepina. Una “droga legale” che ha conosciuto un vero boom negli ultimi anni. Ma attenzione: stando a un recente rapporto3, l’aumento degli antidepressivi non è giustificato da un parallelo aumento della depressione. Delle 36,5 milioni di confezioni di psicofarmaci vendute in Italia nel 2020 (Eurispes 2021), solo 565 mila sono state prescritte da strutture ospedaliere o dai Centri di Salute Mentale (CSM). Significa che, al netto dei pazienti in cura da terapeuti privati, c’è una massa enorme di infelici che ricorrendo al medico di base tentano di rattoppare con gocce o pillole i propri buchi interiori. Il fatto è che il progressivo diradarsi delle relazioni di prossimità ha dato una bella spinta all’alienazione, psicopatologia dell’uomo contemporaneo. La cura starebbe nel coltivare legami, nella partecipazione, nella gratuità. In una parola: nella comunità. Non solo familiare o d’interessi, ma anche politica. L’etimologia di “polis”, città, rimanda alla moltitudine, alla dimensione plurale. Nonostante la “solitudine endemica” del modo di vivere capitalistico (“strutturale”, secondo la definizione di una studiosa inglese4), l’uomo resta, per fortuna, un animale sociale, politico. Una stretta di mano, un abbraccio, una conversazione, un progetto condiviso, una passione comune: questi sono i veri antidoti alla quieta disperazione del presente. In fondo, è la perdita di fiducia in sé stessi che andrebbe pazientemente ricucita e sanata. Missione impossibile in chi avrebbe bisogno di supporto terapeutico. Il Servizio Sanitario Nazionale non è neppure lontanamente in grado di far fronte alla domanda di assistenza di persone con disturbi, bisognose di essere seguite e rimesse in piedi. Con appena il 3% del budget sanitario dedicato alle cure psicologiche (dati 2020), l’assistenza pubblica è assolutamente insufficiente, e questo è un dramma per coloro che non possono permettersi le tariffe da 70-80 euro all’ora di uno psicologo privato (che schizzano fino a 120 euro e oltre presso gli psichiatri). A parte le gravi patologie, è il filo rosso della solitudine a contrassegnare il balzo in avanti dei disturbi: “Non ho nessuno con cui parlare”, è il mantra di chi bussa alle porte dei centri.
Il tanto strombazzato “bonus psicologo” ben riassume il lato grottesco del problema: dapprima escluso dalla finanziaria 2021, poi inserito nel Decreto Milleproroghe del 2022, è consistito inizialmente in un contributo di massimo 600 euro per possessori di Isee inferiori a 50 mila euro. Quel primo anno, a richiederlo sono state 394 mila persone, in maggioranza donne sotto i 35 anni, e solo il 41% di esse hanno ricevuto poi l’indennizzo. Nel 2023 il tetto è salito a 1500 euro a testa, ma lo stanziamento complessivo è stato drasticamente tagliato: da 25 milioni a 10 milioni (per poi salire a 12 nel 2024 e tornare giù a 9,5 quest’anno). Una miseria. Perché non bisogna sottovalutare il fatto che il disagio psichico è in diretta correlazione con il disagio economico e sociale. Un conto è avere le spalle coperte, con un reddito decente o accudito da una famiglia comprensiva e riuscire così a fars carico delle spese mediche. Un altro è far parte della fascia dei lavoratori poveri, se non in quella dei poveri assoluti, o aver la sfortuna di vivere in un ambiente tossico. Avverte Gisella Trincas, presidente dell’Unione Nazionale Associazioni Salute Mentale (UNASAM): “Quando ti occupi di salute mentale ti occupi anche di povertà, di esclusione, di prepotenze, di soprusi”5.
Il giornalista Mattia Ferraresi ha opportunamente scritto che la “natura paradossale della solitudine odierna” consiste nell’essere “figlia legittima di una precisa – e prevalente – concezione della libertà”6. È la falsa libertà dell’individualismo liberal-liberista di cui già si diceva. In altre parole la questione, qui, è il nostro modello esistenziale: scintillante fuori, marcio dentro. Ricco è chi ha abbastanza denaro per finanziare il tempo per gli affetti, i propri cari, la convivialità, l’amicizia, il sesso, l’amore, i figli e, ultimo ma non ultimo, l’impegno per la comunità. Tutti lussi, per i redditi più bassi che trovano nel cazzeggio auto-ipnotico sul web il passatempo ideale, perché è free, costa poco o niente. E quanto a partecipazione politica e senso del collettivo, il nuovo greenwashing si chiama we-washing: lo sfruttamento dell’appartenenza a un noi, la commercializzazione del sentimento comunitario, immiserito a una selva di community da remoto in cui la nicchia è appagata da una strategia di vendita ad hoc. Ma la comunità non equivale a una condivisione virtuale di interessi, né è una semplice “connessione”: è vivere un’esperienza insieme, è agire insieme. Non è un’unione di solitudini: è la vita, la vita vera, che la mutazione antropologica del XXI secolo inaridisce riducendo le vittime a zombie apolitici e schiavi cibernetici. Qua non si tratta di numeri, di Pil, di quell’orrore di grafici e tabelle in cui viene triturata e disumanizzata la realtà, ma del vissuto, delle aspirazioni e delle difficoltà degli uomini e delle donne in carne e ossa. Se alla solitudine non si reagisce sentendo come un dovere la giustizia solidale, possiamo anche fare a meno di immaginare futuri alternativi: resteranno disegni nell’aria. Ha scritto Albert Camus, il solitaire-solidaire: “Ho letto di recente che sarei un solitario. Forse, ma lo sono come milioni di uomini che reputo mio fratelli e al cui fianco cammino”.
- Jean M. Twenge, “Iperconnessi. Perché i ragazzi oggi crescono meno ribelli, più tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti”, Einaudi, 2018, Torino.
- Francesco Sbandi, “I giovani abbandonano le app di dating, ma non tornano alle conquiste dal vivo: la ragione è un’altra”, ilfattoquotidiano.it, 9 aprile 2024.
- Rapporto OsMed (Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali), anno 2022 https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1967301/Rapporto-OsMed-2022.pdf
- Noreena Hertz, “Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni”, Il Saggiatore, 2021.
- Cit. in Jessica Marianna Masucci, “Il fronte psichico. Inchiesta sulla salute mentale degli italiani”, Nottetempo, 2023, Milano, p. 32.
- Mattia Ferraresi, “Solitudine. Il male oscuro delle società occidentali”, Einaudi, 2020.