Interrogativi sulla pandemia in corso dal punto di vista di Ivan Illich
di David Cayley - 07/05/2020
Fonte: L'intellettuale dissidente
La scorsa settimana ho iniziato a scrivere un saggio sulla pandemia in corso, in cui cercavo di affrontare quella che a mio parere è la questione principale che essa solleva: questo enorme e costoso sforzo che stiamo facendo nel tentativo di contenere i danni del virus è davvero l’unica soluzione possibile? Si tratta semplicemente di un inevitabile esercizio di prudenza intrapreso per proteggere i soggetti più vulnerabili? O è piuttosto un disastroso tentativo di tenere sotto controllo una situazione che ci è chiaramente sfuggita di mano, tentativo che aggraverà il danno causato dalla malattia con nuovi problemi dalle ripercussioni future incalcolabili? Avevo appena cominciato a scrivere quando d’un tratto mi sono reso conto che molte delle ipotesi che stavo formulando erano piuttosto lontane da tutto ciò che sentivo ripetere intorno a me. Tali ipotesi, ho pensato, derivavano in gran parte dalla mia prolungata frequentazione del pensiero di Ivan Illich. Così mi sono convinto che, prima di poter parlare in modo intellegibile delle nostre circostanze attuali, avrei dovuto introdurre il lettore alle posizioni che Illich sviluppò nel corso della sua vita riguardo a temi quali la salute, la medicina ed il benessere. Perciò, nel testo che segue, inizierò con un breve resoconto dell’evoluzione della critica illichiana nei confronti della biomedicina e solo in un secondo momento tenterò di rispondere agli interrogativi che ho appena posto in tale luce.
All’inizio del suo studio La Convivialità (1973), Illich aveva descritto quello che riteneva essere il tipico percorso di sviluppo seguito dalle istituzioni contemporanee, usando l’istituzione medica come esempio. La medicina, disse, aveva attraversato “due spartiacque”. Il primo era stato attraversato nei primi anni del XX secolo, quando le cure mediche erano diventate sperimentalmente efficaci ed i benefici avevano generalmente iniziato a superare i danni. Per molti storici della medicina questo è l’unico vero punto di svolta – da qui in poi si ritiene che il progresso continuerà indefinitamente e, sebbene possano esserci rendimenti decrescenti, in linea di principio esso non si fermerà più. Illich però, non era di quest’avviso. Egli ipotizzò un secondo spartiacque, che riteneva essere già stato attraversato e addirittura superato nel periodo in cui scriveva. Oltre questo secondo spartiacque, pensava, sarebbe iniziata ciò che lui chiamava controproduttività: l’intervento medico avrebbe infatti iniziato a contraddire i propri obiettivi, finendo per generare nel complesso più danni che benefici. Questo, sosteneva Illich, era caratteristico di qualsiasi istituzione, bene o servizio – si poteva individuare un punto limite in cui ce ne sarebbe stato abbastanza, e oltre il quale ce ne sarebbe stato troppo. La Convivialità fu quindi un tentativo di identificare queste “scale naturali” – l’unica ricerca davvero generale e programmatica per una filosofia della tecnologia che Illich intraprese.
Due anni dopo, in Nemesi Medica - più tardi ribattezzata, nella sua edizione finale e più completa, “Limiti della medicina” – Illich cercò di esporre nel dettaglio i benefici e i danni prodotti dalla medicina. Egli era generalmente favorevole alle innovazioni su larga scala nella sanità pubblica che ci avevano garantito cibo sicuro, acqua potabile, aria pulita, un buon sistema fognario, ecc. Elogiava anche gli sforzi allora in corso in Cina e in Cile per allestire un kit di attrezzature mediche e farmacologiche di base che fossero facilmente disponibili e alla portata di tutti, invece di lasciare che la medicina si dedicasse allo sviluppo di terapie ad alto costo che sarebbero sempre rimaste inaccessibili per la stragrande maggioranza della gente. Ma il punto principale del suo libro era quello di identificare e descrivere quegli effetti controproducenti che a suo avviso stavano diventando sempre più marcati man mano che la medicina superava il suo secondo spartiacque.
Illich si riferiva a questi ‘effetti collaterali da eccesso di medicina’ come iatrogenesi, e li suddivideva in tre categorie: clinica, sociale e culturale. Per quanto riguarda i primi, chiunque oggigiorno può capire di cosa si tratti: una diagnosi sbagliata, una medicina sbagliata, un’operazione sbagliata, un’infezione presa in ospedale, ecc. Questo tipo di danno collaterale non è di poco conto. Un articolo apparso sulla rivista canadese The Walrus – Rachel Giese, “The Errors of Their Ways”, aprile 2012 – ha stimato che ogni anno il 7,5% dei canadesi ricoverati negli ospedali subisce almeno un “evento avverso” e che 24.000 muoiono a causa di errori medici. Nello stesso periodo, Ralph Nader, scrivendo su Harper’s Magazine, ha ipotizzato che negli Stati Uniti circa 400.000 persone muoiano ogni anno a causa di errori medici evitabili. Si tratta di un numero impressionante, anche qualora fosse esagerato – la stima di Nader è, in rapporto alla popolazione, due volte più alta di quella del Walrus – ma questa prima categoria di danni accidentali non era il vero cruccio di Illich. Ciò che lo preoccupava veramente era il modo in cui gli eccessi di trattamento medico andassero a minare le attitudini sociali e culturali di base.
Un esempio di ciò che lui chiamava iatrogenesi sociale è il modo in cui la medicina intesa come arte, per cui un medico agisce come guaritore, testimone e consigliere, tende a lasciare il posto alla medicina intesa come scienza, per cui il medico, in qualità di scienziato, deve per definizione trattare il proprio paziente come un soggetto sperimentale e non come caso unico. C’era infine una terza ferita inflitta dalla medicina: la iatrogenesi culturale. Essa si verifica, diceva Illich, quando certe capacità, formate e tramandate culturalmente per molte generazioni, vengono prima indebolite e poi, gradualmente, sostituite del tutto. Tra queste capacità egli includeva innanzitutto la capacità di soffrire e di sopportare la propria realtà e la capacità di morire della propria morte. L’arte della sofferenza viene oscurata, sosteneva Illich, dall’aspettativa che ogni sofferenza possa e debba essere immediatamente alleviata – un atteggiamento che, di fatto, non pone fine alla sofferenza, ma la rende insignificante, facendone semplicemente un’anomalia o un fallimento tecnico. E infine la morte viene trasformata da un atto intimo e personale – qualcosa che ciascuno di noi è chiamato a compiere – in una semplice sconfitta priva di senso – una mera cessazione del trattamento terapeutico o uno “staccare la spina”, come talvolta si dice brutalmente.
Dietro al ragionamento di Illich si può riconoscere una mentalità cristiana tradizionale. Egli affermava infatti che la sofferenza e la morte sono inerenti alla condizione umana – fanno parte di ciò che definisce tale condizione. E sosteneva che la perdita di questa condizione avrebbe comportato una rottura catastrofica sia con il nostro passato che con la nostra condizione creaturale. Cercare di mitigare o di migliorare la condizione umana era cosa buona, diceva. Ma perderla del tutto sarebbe stata una catastrofe perché noi possiamo conoscere Dio solo in quanto creature – cioè come esseri creati o dati in dono – e non in quanto dèi che hanno preso in mano il loro stesso destino.
Nemesi Medica è un libro sul potere professionale – un aspetto sul quale varrebbe la pena di soffermarsi un momento, visti i poteri straordinari che oggi vengono invocati in nome della salute pubblica. Secondo Illich, la medicina contemporanea, in ogni momento, esercita un potere politico, sebbene questo potere si nasconda dietro alla pretesa che il suo unico scopo sia quello di amministrare una cura. Nella provincia dell’Ontario in cui vivo, “le cure mediche” assorbono attualmente oltre il 40% del bilancio governativo, il che dovrebbe chiarire sufficientemente il concetto. Ma questo potere ordinario, per quanto grande esso sia, può espandersi ulteriormente durante ciò che Illich chiama “la ritualizzazione della crisi”. Questo conferisce alla medicina “una licenza che di solito solo i militari possono rivendicare”. E poi spiega:
Sotto lo stress di una crisi, il professionista che si ritrovi al comando può facilmente reclamare l’immunità dalle normali regole di giustizia o di decenza. Colui a cui viene assegnato il controllo sulla vita e sulla morte cessa di essere un normale essere umano… Poiché formano una sorta di misteriosa terra di confine tra questo e l’altro mondo, i tempi e gli spazi comunitari rivendicati dall’impresa medica diventano sacri proprio come le loro controparti religiose e militari.
In una nota a piè pagina su questo passaggio Illich aggiunge che “chi rivendica con successo il potere durante un’emergenza può sospendere e distruggere ogni valutazione razionale. L’insistenza del medico sulla propria esclusiva capacità di valutare e risolvere le singole crisi lo eleva simbolicamente al livello della Casa Bianca.” C’è un sorprendente parallelo qui con la tesi del giurista tedesco Carl Schmitt nella sua Teologia Politica, e cioè che il segno distintivo della vera sovranità è il potere di “decidere sull’eccezione”. Il punto di Schmitt è che la sovranità sta al di sopra della legge perché in un’emergenza il sovrano può sospendere la legge — dichiarare un’eccezione — e governare al suo posto come la fonte stessa della legge. Per Illich questo è precisamente il potere che il medico “rivendica … durante un’emergenza”. Le circostanze eccezionali lo rendono “immune” alle “normali regole” e in grado di crearne di nuove secondo il caso. Ma c’è una differenza interessante e, secondo me, significativa tra Schmitt e Illich. Schmitt era affascinato da ciò che lui chiamava “il politico”. Illich si rese conto che gran parte di quella che Schmitt chiamava sovranità fosse ormai sfuggita o addirittura usurpata all’ambito politico e reinvestita in varie categorie professionali.
Dieci anni dopo aver pubblicato Nemesi Medica, Illich rivisitò e corresse la sua tesi. Non rinunciava in alcun modo a quanto scritto in precedenza, anzi lo portava a conclusioni ancora più drammatiche. Nel suo libro, ammise, egli era stato “cieco ad un effetto iatrogeno molto più profondo, di tipo simbolico: la iatrogenesi del corpo stesso”. Aveva infatti
sottovalutato fino a che punto, intorno alla metà del secolo, l’esperienza dei ‘nostri corpi e di noi stessi’ fosse diventata il risultato di concetti e cure mediche.
In altre parole, aveva scritto Nemesi Medica come se il corpo naturale esistesse indipendentemente dell’apparato tecnico attraverso cui viene a formarsi la sua autocoscienza, e ora si rendeva conto che tale premessa era sbagliata. “Ogni momento storico,” scrisse, “si incarna in un corpo specifico per l’epoca.” La medicina quindi non agisce soltanto su uno stato preesistente, ma partecipa alla creazione di tale stato.
Questo riconoscimento fu solo l’inizio di un nuovo approccio da parte di Illich. In Nemesi Medica si era rivolto a una cittadinanza ritenuta in grado di agire per limitare la portata dell’intervento medico. Ora invece egli parlava a persone la cui stessa immagine di sé veniva generata dalla biomedicina. In Nemesi Medica aveva affermato, nella sua frase di apertura, che “l’istituzione medica è diventata una grave minaccia per la salute.” Ora invece egli pensava che la principale minaccia per la salute fosse la ricerca della salute stessa. Dietro questo cambiamento di mentalità c’era la sensazione che il mondo, nel frattempo, avesse subito un cambiamento epocale. “Credo,” mi disse nel 1988,
che… ci sia stato un cambiamento nello spazio mentale in cui vivono molte persone. Una sorta di catastrofica rottura di un certo modo di vedere le cose che ha portato all’emergenza di un nuovo modo di vederle. L’oggetto dei miei studi è stata la percezione del senso nel modo in cui viviamo; e a questo proposito, mi sembra che in questo momento noi stiamo attraversando uno spartiacque. Non mi aspettavo di osservare questo passaggio già nel corso della mia vita.
Illich definì “il nuovo modo di vedere le cose” come l’avvento di quella che lui ha chiamava “l’età dei sistemi” o “un’ontologia dei sistemi”. L’epoca che stava finendo era stata dominata dall’idea di strumentalità – dall’uso di mezzi strumentali, come la medicina, per raggiungere un certo fine o bene, come la salute. Caratteristica di quest’epoca era stata una chiara distinzione tra soggetti e oggetti, mezzi e fini, strumenti ed utenti, ecc. Nell’età dei sistemi, disse, queste distinzioni erano scomparse. Un sistema, concepito ciberneticamente, è un tutto avvolgente, non ha un esterno. L’utente di uno strumento utilizza lo strumento per raggiungere un fine. Gli utenti di un sistema invece si trovano all’interno del sistema, adeguando costantemente il loro stato al sistema, mentre il sistema regola il suo stato su di essi. Un individuo delimitato che persegue il proprio benessere personale lascia il posto ad un sistema immunitario che ricalibra costantemente il proprio confine mobile col sistema circostante.
All’interno di questo nuovo “discorso analitico sui sistemi”, come lo chiamava Illich, lo stato caratteristico delle persone è la disincarnazione . Questo è un paradosso, ovviamente, poiché ciò che Illich chiamava “la ricerca patogenica della salute” può comportare una preoccupazione intensa, incessante e addirittura narcisistica per il proprio corpo. Il perché Illich concepisse tale effetto come disincarnante può essere meglio compreso soffermandosi sul concetto di “percezione del rischio”, che lui considerava come “la più importante ideologia para-religiosa celebrata oggi”. Il rischio ha un effetto disincarnante, sosteneva, perché “è un concetto strettamente matematico”. Non riguarda le persone ma le popolazioni: nessuno sa cosa accadrà a questa o quella persona, ma ciò che accadrà all’aggregato di tali persone espresso in termini di probabilità. Identificarsi con questo tipo di astrazione statistica significa cimentarsi, sosteneva Illich, in una “radicale algoritmizzazione di sé”.
Il suo incontro più angosciante con questa nuova “ideologia para-religiosa” si verificò nel campo dei test genetici in gravidanza. Vi fu introdotto tramite la sua amica e collega Silja Samerski, che stava studiando la questione della consulenza genetica, divenuta obbligatoria in Germania per tutte le donne incinte che considerassero di fare test genetici – argomento su cui in seguito scrisse anche un libro intitolato The Decision Trap (Imprint — Academic, 2015). I test genetici fatti durante la gravidanza non rivelano nulla di preciso sul bambino che la donna sta effettivamente aspettando. Tutto ciò che viene rilevato sono marcatori il cui significato incerto può essere espresso in termini di probabilità – una probabilità calcolata su tutta la popolazione a cui appartiene la donna sottoposta al test, in base alla sua età, storia familiare, etnia ecc. Quando le viene detto, ad esempio, che c’è una probabilità del 30% che il bambino abbia questa o quella sindrome, non le viene detto nulla di specifico riguardo a lei stessa o al frutto del suo grembo – ma solo quello che potrebbe accadere a qualcuna come lei. Ella non sa nulla di più sulle sue circostanze reali di quanto non le suggeriscano le sue speranze, i suoi sogni e le sue intuizioni, ma il profilo di rischio che le è stato diagnosticato in base al suo doppio statistico richiede di prendere una decisione.
La scelta è esistenziale; l’informazione su cui si basa è la curva di probabilità su cui è stato iscritto il soggetto che sceglie. Illich lo trovò di un orrore perfetto. E non perché non sapesse accettare il fatto che ogni azione umana è un salto nel buio – un calcolo prudenziale di fronte all’ignoto. Il suo orrore era di vedere le persone riconoscersi nell’immagine di un costrutto statistico. Per lui, questo era un eclissarsi della persona dietro alle popolazioni; un tentativo di impedire al futuro di rivelare alcunché di imprevisto; ed un sostituire l’esperienza sensibile con modelli scientifici. E questo stava accadendo, si rese conto Illich, non solo nell’ambito specifico dei test genetici in gravidanza, ma più o meno per tutto ciò che riguardava l’assistenza medica in generale. Sempre più persone agivano in modo prospettico, probabilisticamente, in base al rischio percepito. Stavano diventando, come ironizzò una volta il ricercatore canadese Allan Cassels, “pre-malati” — e cioè vigili e attivi contro le malattie che qualcuno come loro avrebbe potuto contrarre. I singoli casi venivano gestiti sempre più spesso come casi generali, in quanto esempi di una categoria o classe, piuttosto che come situazioni uniche, e i medici erano sempre più impigliati in questa rete probabilistica e meno capaci di svolgere la loro funzione originaria di consiglieri intimi, consapevoli delle differenze specifiche e dei significati personali. Questo era ciò che Illich intendeva per “algoritmizzazione di sé” o disincarnazione.
Un modo per comprendere meglio il concetto di corpo iatrogeno che Illich considerava come l’effetto principale della biomedicina contemporanea sarebbe di riesaminare un saggio che fu ampiamente letto e discusso nel suo ambiente durante i primi anni ’90. Intitolato “Biopolitica di corpi postmoderni: la costituzione del sé nel discorso sul sistema immunitario”, fu scritto dalla storica e filosofa della scienza Donna Haraway e apparve nel suo libro Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1991). Questo saggio è interessante non solo perché credo abbia influenzato la percezione che Illich aveva delle tendenze in atto nel campo biomedico, ma anche perché Haraway, vedendo – oserei dire – quasi esattamente le stesse cose che vedeva Illich, trae però conclusioni che sono, punto per punto, diametralmente opposte. In questo articolo, ad esempio, Haraway afferma, in riferimento a quello che lei chiama “il corpo postmoderno”, che “gli esseri umani, come qualsiasi altra componente o sottosistema, devono essere localizzati in un’architettura sistemica le cui modalità operative di base sono probabilistiche, statistiche.” “In un certo senso,” continua, “gli organismi hanno smesso di esistere come oggetti di conoscenza, lasciando il posto a componenti biotiche.” Questo porta a una situazione in cui “gli oggetti, gli spazi o i corpi non sono intrinsecamente sacri; qualsiasi componente può essere interfacciata con ogni altra purché sia possibile costruire uno standard e un codice di elaborazione comune del linguaggio.” In un mondo di interfacce, in cui i limiti regolano le “velocità di flusso” piuttosto che marcare differenze reali, “l’integrità degli oggetti naturali” non è più un problema. “L’integrità o la sincerità del sé occidentale,” scrive Haraway, “cedono il posto a procedure decisionali, sistemi esperti e strategie di investimento delle risorse.”
In altre parole, Haraway, come Illich, capiva che le persone, in quanto esseri unici, radicati e consacrati, si erano dissolte in sottosistemi provvisori ed autoregolantisi in costante interscambio con i sistemi più grandi entro cui sono inseriti. In parole sue, “siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo… il cyborg è la nostra ontologia.” La differenza tra i due pensatori sta però nella loro reazione.
Haraway, più avanti nello stesso volume, pubblicò un pezzo intitolato “Manifesto Cyborg”. In esso invitava le persone a riconoscere e ad accettare questa nuova situazione, “interpretandola” come foriera di emancipazione. Non c’era, nella vecchia società patriarcale, alcuna condizione accettabile a cui si potesse sperare di tornare, e così ella offriva “un argomento a sostegno del piacere di confondere i confini e della nostra responsabilità nella loro costruzione.” Per Illich, invece, “l’ontologia cyborg”, come la chiamava Haraway, non era un’opzione. Per lui la posta in gioco era il carattere stesso delle persone umane in quanto esseri dotati d’anima, di origine divina e destino divino. Mentre le ultime vestigia di senso venivano cancellate dalla nuova percezione corporea dei suoi contemporanei, egli vide un mondo che era diventato “immune alla propria salvezza”. “Sono giunto alla conclusione,” mi disse mestamente, “che quando l’angelo Gabriele diceva a quella ragazza nella città di Nazareth in Galilea che Dio voleva incarnarsi nel suo ventre, indicava un corpo che è scomparso dal mondo in cui vivo.”
Il “nuovo modo di vedere le cose” che era riflesso nell’orientamento stesso della biomedicina equivaleva, secondo Illich, ad “una nuova fase della religiosità”. Egli usava la parola religiosità in senso lato, riferendosi a qualcosa di più profondo e vasto della religione formale o istituzionale. La religiosità è il terreno su cui ci muoviamo, il senso comune sul come e sul perché le cose sono come sono, l’orizzonte stesso all’interno del quale prende forma ogni nostro significato. Per Illich, l’idea del mondo come creazione, come dono di Dio, stava a fondamento di tutta la sua sensibilità. Ciò che vedeva arrivare era una religiosità totalmente immanente per cui il mondo è causa a sé stesso e non vi è alcuna fonte di significato o di ordine al di fuori di esso – “un cosmo,” come diceva, “nelle mani dell’uomo.” Il bene più alto in un mondo simile è la vita e il dovere principale delle persone è di conservare e favorire la vita. Ma questa non è la vita di cui si parla nella Bibbia – la vita che viene da Dio – è piuttosto una risorsa che le persone possiedono e che devono gestire responsabilmente. La sua peculiare proprietà è quella di essere allo stesso tempo oggetto di riverenza e di manipolazione. Questa vita naturalizzata, separata dalla sua fonte, è il nuovo dio. Salute e sicurezza sono i suoi aiutanti. Il suo nemico è la morte. La morte ci impone ancora una sconfitta finale ma non ha nessun altro significato personale. Non c’è un tempo giusto per morire – la morte sopraggiunge quando il trattamento fallisce o viene interrotto.
Illich si rifiutò di “interiorizzare i sistemi nel sé”. Non avrebbe rinunciato né alla natura umana né alla legge naturale. “Non riesco proprio a liberarmi della convinzione,” disse in un’intervista al suo amico Douglas Lummis, “che le norme con cui dobbiamo vivere corrispondano alla nostra visione di ciò che siamo.” Questo lo portò a respingere la nozione di “responsabilità per la salute”, concepita come una gestione di sistemi interconnessi. Come si può essere responsabili, si chiedeva, verso qualcosa che non ha senso, né confine o radicamento? Meglio rinunciare a tali rassicuranti illusioni e vivere piuttosto con quello spirito di autolimitazione che lui definiva come “una rinuncia coraggiosa, disciplinata ed autocritica realizzata in comunità”.
Riassumendo: Illich, nei suoi ultimi anni, arrivò alla conclusione che l’umanità, almeno quella attorno a lui, fosse uscita di senno e si fosse trasferita con armi e bagagli in un edificio sistemico privo di qualsiasi fondamento per la conduzione di una vita etica. I corpi entro cui le persone vivevano e camminavano erano divenuti costrutti sintetici estrapolati dalle scansioni TAC e dalle curve di rischio. La vita era diventata un idolo para-religioso, che presiedeva sopra una “ontologia dei sistemi”. La morte si era trasformata da saggia compagna ad insignificante oscenità. Tutto questo Illich lo diceva con forza e senza ambiguità. Non tentava di ammorbidirlo né di offrire un confortante “ma d’altra parte…”. Egli si occupava di ciò che sentiva accadere intorno a lui, e si premurava di registrarlo nel modo più sensibile possibile e di affrontarlo nel modo più sincero possibile. Il mondo, a suo avviso, non era nelle sue mani, ma nelle mani di Dio.
Fino alla morte, avvenuta nel 2002, Illich rimase del tutto estraneo al “nuovo modo di vedere le cose” che era andato affermandosi nella seconda metà della sua vita. In questa nuova “età dei sistemi” egli sentiva che l’unità primaria della creazione, la persona umana, avesse cominciato a perdere la propria fisionomia, la propria distinzione e la propria dignitá. Pensava che la rivelazione alla quale era legato fosse stata corrotta — la “vita in abbondanza” promessa nel Nuovo Testamento trasformata in un’egemonia umana così totalizzante e claustrofobica che nessuna voce esterna al sistema avrebbe più potuto disturbarla. Era convinto che la medicina avesse a tal punto superato la soglia entro cui poteva accompagnare, alleviandola, la condizione umana, da minacciare ormai di abolirla del tutto. E aveva concluso che gran parte dell’umanità non fosse più disposta a “sopportare … [la propria] carne ribelle, lacerata e disorientata” e avesse volentieri scambiato l’arte di saper soffrire e di saper morire per qualche anno in più di aspettativa di vita e per le comodità di una vita “creata artificialmente”. Si può dare un senso alla “crisi” attuale da un punto di vista del genere? Direi di sì, ma solo nella misura in cui siamo disposti a fare un passo indietro dalle urgenze del momento e a prenderci il tempo di osservare ciò che si sta rivelando delle nostre convinzioni di fondo – le nostre “certezze”, come le chiamava Illich.
Innanzitutto, la prospettiva di Illich ci indica che è da molto tempo ormai che mettiamo in atto quegli atteggiamenti che oggi caratterizzano la nostra risposta alla pandemia. Un aspetto sorprendente di quegli eventi che si ritiene abbiano cambiato la storia, o “cambiato tutto”, come si suol dire, è il fatto che spesso le persone appaiano in qualche modo preparate ad essi o addirittura, inconsciamente o semi-consciamente, in attesa di essi. Ricordando l’inizio della prima guerra mondiale, lo storico ed economista Karl Polanyi usò l’immagine dei sonnambuli per descrivere il modo in cui i paesi europei si trascinarono verso la loro rovina – automi che accettavano ciecamente un destino che essi stessi avevano inconsapevolmente predisposto. Più di recente, gli eventi dell’11 settembre 2001 parvero essere immediatamente interpretati e compresi, come se tutti non aspettassero altro che fornirci la chiave di lettura di quanto accaduto: la fine dell’Età dell’Ironia e l’inizio della Guerra al Terrorismo, qualunque cosa essa sia. Parte della spiegazione sta sicuramente nell’inganno prospettico per cui il senno di poi trasforma immediatamente ogni contingenza in necessità: dal momento che qualcosa è accaduto, supponiamo che fosse destinato ad accadere da sempre. Ma non mi pare che questo possa spiegare tutto.
L’assunto centrale dietro alla risposta al coronavirus è stato che fosse necessario agire preventivamente in modo da evitare quello che sarebbe potuto succedere: una crescita esponenziale delle infezioni ed un sovraccarico del sistema sanitario, che avrebbe messo il personale medico nella difficile posizione di dover decidere chi salvare, ecc. Altrimenti, si è detto, quando ci renderemo conto con cosa abbiamo a che fare, sarà troppo tardi. (Vale la pena sottolineare, en passant, che questa è un’idea non verificabile: se avremo successo, e ciò che temiamo non si verificherà, potremo dire che le nostre azioni lo hanno impedito, ma non sapremo mai realmente se sia andata davvero così). L’idea che un’azione preventiva fosse cruciale è stata prontamente accettata e le persone hanno persino gareggiato l’una con l’altra nel denunciare quegli ottusi che mostravano di resisterle. Ma per agire in questo modo bisogna avere esperienza di vivere in uno spazio ipotetico dove la prevenzione è più importante della cura, e questo è esattamente ciò che diceva Illich, quando parlava del rischio come “la più importante ideologia para-religiosa celebrata oggi”. Un’espressione come “appiattire la curva” può diventare di senso comune nel giro di poco tempo solo in una società già abituata a dover “stare sempre un passo avanti” (N.d.T. in inglese “Stay ahead of the curve”, “stare davanti alla curva”), e a pensare in termini di dinamiche demografiche piuttosto che di casi reali.
Il rischio ha una sua storia. Uno dei primi a identificarlo come la preoccupazione di una nuova forma di società fu il sociologo tedesco Ulrich Beck nel suo libro del 1986 La Società del Rischio, pubblicato in italiano nel 2000. In questo libro, Beck descriveva la tarda modernità come un esperimento scientifico incontrollato. Con incontrollato intendeva dire che non abbiamo un pianeta di riserva su cui possiamo condurre una guerra nucleare per vedere come va, nessuna seconda atmosfera che possiamo riscaldare per osservare i risultati. Ciò significa che la società tecno-scientifica è, da un lato, iper-scientifica e, dall’altro, radicalmente non scientifica nella misura in cui non ha alcun criterio di valutazione per controllare ciò che sta facendo. Ci sono infiniti esempi di questo tipo di esperimento incontrollato – dai bambini in provetta alle pecore transgeniche, dal turismo internazionale di massa alla trasformazione delle persone in relè di comunicazione. Tutte queste cose, fintantoché hanno conseguenze impensabili ed imprevedibili, costituiscono già una sorta di vita nel futuro. E proprio perché siamo cittadini di una società del rischio, e quindi partecipiamo, per definizione, ad un esperimento scientifico incontrollato, siamo diventati – paradossalmente o no – preoccupati di controllare il rischio. Come ho sottolineato sopra, siamo curati e sottoposti a screening per malattie che ancora non abbiamo, sulla base della nostra probabilità di contrarle. Le coppie in dolce attesa prendono decisioni di vita e di morte in base a profili di rischio probabilistici. La sicurezza diventa un mantra, la salute diventa un dio.
Ugualmente importante nell’atmosfera odierna è diventata la trasformazione della vita in un idolo e l’avversione dalla sua oscena controparte, la morte. Il fatto che dobbiamo “salvare vite” a tutti i costi non viene mai messo in discussione. Questo rende assai più facile scatenare un fuggi fuggi generale. Far sì che un intero paese “torni a casa e resti a casa”, come ha detto il nostro primo ministro non molto tempo fa, ha costi immensi ed incalcolabili. Nessuno sa quante imprese falliranno, quanti posti di lavoro andranno perduti, quanti si ammaleranno di solitudine, quanti ricadranno nelle dipendenze o si faranno violenza nel loro isolamento. Ma tutti questi costi ci sembrano tollerabili non appena lo spettro delle vite perse viene messo in scena. Non a caso, è da molto tempo che ci esercitiamo a fare il conteggio delle vite. La nostra ossessione per il “bilancio delle vittime” nell’ultima catastrofe è semplicemente l’altro lato della medaglia. La vita è diventata un’astrazione – un numero senza una storia.
Illich affermò verso la metà degli anni ’80 che cominciava ad incontrare delle persone il cui “stesso concetto di sé” era diventato un prodotto di “concetti e cure mediche”. Penso che ciò possa aiutarci a capire perché lo stato canadese, assieme ai governi provinciali e municipali al proprio interno, sia stato in gran parte incapace di ammettere quale sia la vera posta in gioco, in questa nostra “guerra” contro “il virus”. Nascondersi dietro la gonna della scienza — anche dove non c’è scienza — e rimettersi agli dei della salute e della sicurezza è parso loro come una necessità politica. Coloro che sono stati acclamati per la loro leadership, come il premier del Quebec François Legault, sono stati quelli che si sono distinti per la loro ostinata coerenza nell’applicare la saggezza convenzionale. Pochi osano ancora metterne in discussione il costo e, quando quei pochi includono Donald Trump, il compiacimento generale è solo rafforzato — chi oserebbe infatti essere d’accordo con lui? Sotto questo aspetto, l’insistente ripetizione della metafora della guerra è stata influente: in una guerra nessuno conta i costi o calcola chi li stia effettivamente pagando. Prima di tutto, bisogna vincere la guerra. Le guerre creano solidarietà sociale e scoraggiano il dissenso: chi non sventola la bandiera può aspettarsi l’equivalente delle piume bianche, con cui gli obiettori di coscienza venivano svergognati durante la prima guerra mondiale.
Alla data in cui scrivo, all’inizio di aprile, nessuno sa davvero cosa stia succedendo. Dal momento che nessuno sa quanti siano i contagiati, nessuno sa quale sia il tasso di mortalità: l’Italia è attualmente quotata ad oltre il 10%, il che la pone nel novero dell’influenza catastrofica di fine prima guerra mondiale, mentre la Germania è allo 0.8%, il che è più in linea con ciò che accade ogni anno senza che nessuno se ne accorga: certe persone molto anziane e qualcheduna più giovane prendono l’influenza e muoiono. Quello che sembra evidente, qui in Canada, è che ad eccezione di alcune località che affrontano una vera emergenza, il pervasivo senso di panico e di crisi è in gran parte il risultato delle misure adottate contro la pandemia e non della pandemia stessa. Qui la stessa parola ha avuto un ruolo importante: la dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che una pandemia fosse ufficialmente in corso non ha cambiato lo stato di salute di nessuno, ma ha cambiato radicalmente il clima generale. Era il segnale che i media stavano aspettando per introdurre un regime in cui non è ammesso discutere d’altro che del virus. Ormai trovare una storia sul giornale che non parla del coronavirus è quasi scioccante. Questo non può che dare l’impressione che il mondo sia in fiamme. Se non parli di nient’altro, presto sembrerà che non ci sia nient’altro. Un uccello, un fiore, una brezza primaverile possono iniziare a sembrarci quasi irresponsabili — “non sanno che è la fine del mondo?” come chiede un vecchio classico della musica country. Il virus assume capacità straordinarie — si dice che abbia depresso il mercato azionario, chiuso le attività commerciali e generato ondate di panico, come se queste non fossero azioni compiute da persone responsabili ma dalla malattia stessa.
Emblematico per me, qui a Toronto, è stato un titolo sul National Post. Scritto in un carattere che occupava gran parte della metà superiore della prima pagina, diceva semplicemente PANICO. Nulla indicava se la parola dovesse essere letta come descrizione o come esortazione. Questa ambiguità è costitutiva di tutti i media e glissare su di essa è una deformazione professionale caratteristica di ogni giornalista, ma ignorarla diventa ancora più facile durante una crisi certificata. A ribaltare il mondo non sono state l’isteria mediatica o le pressioni alle autorità per fare di più: è il virus che l’ha fatto. Non dare la colpa al messaggero. Un titolo sul sito STAT del primo aprile, e non penso fosse uno scherzo, ha addirittura affermato che “il Covid-19 ha affondato la nave dello stato”. Sarebbe interessante, a questo proposito, eseguire un esperimento mentale. Quanto grave ci sembrerebbe questa emergenza se non fosse mai stata definita una pandemia e se non fossero state prese misure così severe contro di essa? Molti problemi sfuggono all’attenzione dei media. Quanto sappiamo o ci preoccupiamo ad esempio della catastrofica disintegrazione politica del Sud Sudan negli ultimi anni, o dei milioni di morti nella Repubblica Democratica del Congo dopo lo scoppio della guerra civile nel 2004? È la nostra attenzione che stabilisce ciò che consideriamo rilevante o no in un dato momento. I media non agiscono da soli — le persone devono essere disposte a guardare dove i media dirigono la loro attenzione — ma non credo si possa negare che questa pandemia sia un fenomeno costruito, e che si sarebbe potuto costruire in modo diverso.
Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha dichiarato il 25 marzo scorso che stiamo affrontando “la più grande crisi sanitaria della nostra storia”. Se Trudeau si riferiva all’emergenza epidemiologica in senso stretto, quanto affermato mi sembra una grottesca esagerazione. Pensate solo all’effetto disastroso che ebbe il vaiolo sulle comunità indigene o a molte altre epidemie catastrofiche dal colera alla febbre gialla o dalla difterite alla poliomielite. Si può davvero affermare che un’epidemia di influenza che sembra uccidere principalmente vecchi e soggetti affetti da patologie pregresse sia di gravità paragonabile alla devastazione di interi popoli, o addirittura peggio? Eppure, espressioni come “senza precedenti”, vedi il “più grande di sempre” del Primo Ministro, sembrano essere sulla bocca di tutti. In realtà però, se prendiamo le parole del Primo Ministro alla lettera e consideriamo quindi l’entità dello sforzo sanitario nel suo complesso e non solo il rischio effettivo per la salute, la questione cambia. Fin dall’inizio le misure di sanità pubblica adottate in Canada sono state esplicitamente volte a proteggere il sistema sanitario da un possibile sovraccarico. Questo per me indica uno straordinario senso di dipendenza dagli ospedali e una altrettanto straordinaria mancanza di fiducia nella nostra capacità di prenderci cura gli uni degli altri. Indipendentemente dal fatto che gli ospedali canadesi vadano effettivamente in sovraccarico oppure no, sembra essersi diffusa un’inedita, quasi mistica forma di riverenza nei loro confronti: gli ospedali e il loro personale specializzato vengono ritenuti indispensabili, anche quando le cose si potrebbero gestire più facilmente e con maggior sicurezza da casa. Ancora una volta Illich è stato profetico quando affermava, nel suo saggio “Professioni disabilitanti”, che sovraccaricare di responsabilità le categorie professionali fiacca le capacità popolari e fa dubitare la gente delle proprie risorse.
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