Io amo Io, non voglio nessun tu, nessun noi
di Marcello Veneziani - 14/04/2025
Fonte: Marcello Veneziani
“Mi amo troppo per stare con chiunque”: è la frase che Sara Campanella, la ragazza uccisa a Messina, aveva scritto sui social come biglietto da visita del suo profilo. È stata affissa alle fermate dei bus della città, sventolata nei cortei di piazza e presentata nei telegiornali come una bandiera di libertà e una rivendicazione dei diritti della donna; una sorta di manifesto, testamento, motto e canone di comportamento. Non si sono resi conto che è una frase terribile. È una dichiarazione di solitudine narcisistica, di egoismo e di egocentrismo assoluto, di onanismo mentale; proclama la rottura col mondo e con gli altri, la rinuncia a priori a ogni vero amore, a ogni legame affettivo, e in prospettiva a ogni dedizione e proiezione verso la famiglia, i figli, gli amici, la società. Mi amo troppo, non ho tempo né spazio per voialtri, tutti, dovrei sottrarlo a me stesso.
La pietà per la sua precoce, assurda morte, per la sua giovane vita spezzata, vittima di un ragazzo che pretendeva di essere amato e non tollerava di essere respinto, resta intatta e totale. Ma non deve indurre a esaltare quella frase che è invece la rivelazione di una tragica condizione giovanile. Non è il pensiero isolato di una ragazza che si ama troppo ma è piuttosto la forma mentis più preoccupante diffusa tra le ragazze e i ragazzi. È la variante peggiorativa di un’altra frase che si ama ripetere: l’importante è star bene con se stessi. Se quel che conta è solo quello, allora posso tranquillamente fregarmene degli altri, lasciarli morire o andare al diavolo, e perfino compiere azioni di ogni tipo, anche criminale, se mi fanno star bene. E se invece fosse vero il contrario, che l’importante è star bene con gli altri, ossia trovare un giusto equilibrio tra la propria vita e quella di chi sta intorno, dare e ricevere, scambiarsi i doni dell’amicizia e dell’affetto, curarsi del mondo? Certo, è naturale che l’istinto di autoconservazione ci porti a preoccuparci prima di noi, poi di chi sta più vicino a noi, quindi degli altri. Ma un conto è vivere solo per noi stessi, un altro è vivere a partire da se stessi e poi allargarsi al mondo, a cominciare da chi ci è più caro e vicino.
Amare se stessi in positivo vuol dire non buttare via la propria vita, non sprecarla, rispettarsi, curarsi, avere anche un po’ di fierezza e amor proprio: ma la proclamazione di un amore esclusivo di sé, autoreferenziale, in cui non c’è posto per gli altri, è l’inizio del male, il passaggio dalla solitudine benefica all’isolamento. Che società potrà nascere da chi adotta quel motto? Già la parola nascere è abusiva in quel contesto, in cui il massimo che ci si può aspettare è autoriprodursi e rispecchiarsi; non certo generare relazioni, amicizie, amori, creature.
Una sponda a questo universo autocentrato la dà oggi su la Lettura del Corriere della sera Roberto Saviano che, in un momento di sconforto, appoggiandosi a un libretto mortifero, scrive un articolo dal titolo “L’umanità è una malattia” in cui si professa omovacantista, ovvero auspica la fine dell’umanità e inneggia all’antinatalismo, ovvero al rifiuto di mettere al mondo altri umani. Saviano abbraccia convinto la “filosofia antinatalista” e spera di trovare il coraggio di essere coerente fino in fondo. “Dopo di me il diluvio”, è il grido d’angoscia dei narcisisti frustrati, degli egocentrici delusi che scoprono di non essere al centro del mondo e allora “Muoia Sansone con tutti i filistei”, perisca l’umanità intera.
Ma al di là dello stato mentale di Saviano, del suo maledettismo letterario e dei suoi travagli personali (gli auguriamo di passare questo brutto momento, o come si dice a Napoli, “a nuttata”) il tema che qui preme sottolineare riguarda in realtà una generazione allevata ad amare se stesso sopra ogni altra cosa, persona, principio o valore e a rigettare legami con chiunque. Viviamo nell’epoca dell’individualizzazione tragica, come la definisce Ulrick Beck; l’io si sradica, non si sente erede di nessuno e rifiuta di essere padre/madre di nulla; perde la realtà, il mondo, la natura, la storia, la società. S’inabissa nella sua solitudine, munita solo di connessione tecnologica. Salvo poi, contraddittoriamente, nutrire la paura di essere escluso, di essere tagliato fuori, quel che in sigla si chiama Fomo (fear of missing out). Così vive on line la sua esistenza virtuale, in rete ma fuori dal reale, è connesso da remoto ma sconnesso dalla vita vera e dalla sue prossimità; ha contatti senza avere legami. A tale proposito segnalo una bella sezione della rivista Formiche dedicata a Teen lonellines machine, quella solitudine adolescenziale e giovanile aggrappata alla macchina, uno smartphone o altri mezzi. In quel contesto fiorisce Narciso, e trova fondamento quella frase “maledetta” che diventa frase di culto, anche perché consacrata dal sacrificio della vittima che l’ha pronunciata.
Qui s’innesta come ulteriore deformazione della realtà l’uso becero dei cosiddetti femminicidi per armare il femminismo contro i maschi assassini potenziali e incitare alla lotta per l’autorealizzazione. Dopo ogni femminicidio c’è questa chiamata alle armi per combattere il maschio violento e mobilitarsi in una specie di lotta di genere, succedaneo della lotta di classe. Il presupposto falso e fuorviante di questo esercito della salvezza è che si fronteggi con un esercito di maschi potenziali femminicidi, che sarebbe lì di fronte a loro e vorrebbe opprimere e anche sopprimere la donna insubordinata. E invece non c’è nessun esercito maschile contro cui combattere; il novantanove per cento dei maschi non usa violenza verso le donne, semmai è intimidito, in fuga o si arrocca sulla difensiva. I femminicidi sono aberrazioni di singoli che hanno perso la testa; non sono vittime di uno scontro sociale di genere. Non c’è nessun esercito nemico da battere ma ci sono solo individui solitari che uccidono per incapacità di vivere, dipendenza assoluta dalla loro partner e fragilità distruttiva e autodistruttiva. Sono, lo ripeto, uomini-narciso, che vivono specchiandosi nell’altro e quando lo specchio si rompe (porta male) le schegge diventano coltelli per uccidere chi ha infranto la loro immagine proiettata nella vita di lei.
Alla fine siamo tra due deserti di solitudine: quella di chi ritiene di dover alzare i ponti col resto del mondo perché ama troppo se stessa e quella di chi escluso dalla prima si vendica e uccide l’oggetto proibito del suo ego che chiama amore. Narciso contro Narciso, solitudine contro solitudine mentre le tifoserie inveiscono e incitano alla lotta. Ma il vero nemico è l’egolatria di massa. Viva Io, a morte l’Io altrui. Così muore una società, non solo un individuo.