Io mi vergogno di Riccardo Franco Levi, non di Carlo Rovelli
di Alessio Mannino - 14/05/2023
Fonte: Alessio Mannino
L'ultimo caso Rovelli è, nel suo piccolo, emblematico. Chiusosi in appena ventiquattr'ore con una retromarcia più comica che tragica, mette a fuoco con plastica evidenza il male sottostante alla censura: l'autocensura. E per di più, elemento politicamente ancor più significativo, da parte di pezzi dell'eterno establishment di cui, specie in Italia (ma non solo in Italia), ci si libera solo in virtù della dea Anagrafe. A farsi promotore del tentativo di benservito al fisico pacifista, che ha la malagrazia di intervenire pubblicamente sulla guerra in Ucraina, è stato un signore che di nome fa Ricardo Franco Levi. Detto che i doppi cognomi dovrebbero sempre indurre a un certo sospetto, la biografia del commissario governativo per la Fiera del Libro di Francoforte 2024, nonché presidente dell'AIE (l'associazione editori), esemplifica tutto un mondo di vita e un modo di procedere. Nato giornalista, fondatore nel '91 del quotidiano l'Indipendente (sotto la sua direzione, interessante come la carta da parati, ci volle il Vittorio Feltri non ancora berlusconizzato per farlo decollare), è grazie a Prodi prima, e a Veltroni poi, che spicca il volo in politica: il primo lo sceglie come portavoce sia nel suo primo governo sia nella presidenza della Commissione Ue, lo fa eleggere parlamentare con l'Ulivo, se lo porta dietro nominandolo sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel suo secondo esecutivo (con strategica delega all'informazione ed editoria), dopodiché viene ripescato da Veltroni, primo segretario Pd, come portavoce del partito, poi logicamente rieletto in parlamento, dove per lo meno si dà da fare per legiferare a favore del prodotto-libro, con una legge a lui intestata definita "ammazza- Amazon" - quanto l'abbia ammazzato, Amazon, lo si è visto... Dal 2017 presiede, come detto, l'associazione degli editori italiani, ed è in questa veste, o meglio sotto pressione dei grandi editori, dalla Feltrinelli alla Mondadori i quali hanno capito la malaparata, che ha deciso il dietrofront rispetto alla lettera in cui invitava - eufemismo - Rovelli a farsi da parte, perché avrebbe potuto creare "imbarazzo". A chi? A un Paese, il nostro, cioè al suo governo allineatissimo alla Nato sull'Ucraina, guerrafondaio e atlantista come pochi altri in Europa.
Meloni e i suoi, questa volta almeno di sicuro, non hanno premuto per censurare. Per il semplice fatto che Franco Levi non ne aveva bisogno, incarnando piuttosto bene la figura del funzionario omologato: omologato, si capisce, al potere. Personaggio sbiadito, che non dà biada, senza contenuti, pauroso di gestire difficoltà e intoppi che avrebbero potuto rendere la vita difficile a lui, sottolineato a lui, in vista della Buchmesse francofortese (la prima fiera libraria d'Europa, mica bruscolini), ha fatto quello che fanno con scatto pavloviano i tipi come lui: correre a pararsi le terga, incorrendo però in uno zelo più realista del re su cui rischiava di capitombolare subito. Insomma, ha fatto tutto da solo. Stiamo parlando, questo va detto allargando bene gli orecchi di sinistra, di uno che forse solo per ragioni di età o, meglio, del ruolo in cui pare ben sistemato, gli amici di sinistra non si ritroverebbero a dover applaudire su qualche futuro palco assieme a Schlein e compagnia. Parliamo di un galleggiatore, schiatta prolificissima e solitamente munita di paracadute pronto uso. Parliamo di uno di quelli che non si dimettono mai, perché giustificano ogni compromesso e ogni vigliaccheria con la scusa premurosa della "serenità" d'ufficio cui sono preposti, da difendere e mantenere sacrificando i sacri ideali di libertà, democrazia eccetera che, pure, hanno sempre in bocca. Parliamo di un officiante lui sì imbarazzante. Io non mi vergogno di Rovelli. Io mi vergogno di Ricardo Franco Levi, e di tutti i Ricardo Franco Levi che ammorbano l'Italia.