Italia ed Europa tra recessione ed espropriazione del lavoro
di Luigi Tedeschi - 15/03/2019
Fonte: Italicum
L’Europa si presenta disarmata dinanzi alla recessione incombente, ma soprattutto non ha mai superato la crisi del 2008
L’Italia è in recessione tecnica. Ma tecnica o no, la recessione avanza in Italia e in tutta l’Europa.
Quale migliore occasione si offre alle opposizioni europeiste, filo – capitaliste e progressiste, quali PD e Forza Italia per imputare la responsabilità della recessione alla politica populista, sovranista, anti – establishment del governo gialloverde? Trattasi di forze politiche ormai condannate alla marginalità dal verdetto popolare, che ripongono le uniche speranze di resurrezione dalla loro irreversibile decadenza nell’innalzamento dello spread e nel possibile default del debito italiano.
Essi aspirano ad essere partecipi in qualità di “responsabili” ad una eventuale riedizione di un governo tecnico a immagine e somiglianza del famigerato governo Monti imposta dalla UE.
Il governo gialloverde in realtà è erede di un fallimento ventennale iniziato con il declino della politica, che ha coinciso con la nascita della seconda repubblica e soprattutto con l’integrazione dell’Italia nella UE e l’istituzione della moneta unica. I gialloverdi hanno dato vita ad un governo che ha realizzato un rinnovamento dimezzato e spesso contrastato e velleitario. Tuttavia i gialloverdi hanno rappresentato una svolta determinante nella politica italiana. Lega e M5S sono forze popolari che hanno costituito un governo sulla base del consenso elettorale, segnando un decisivo distacco con i precedenti governi del presidente che, dal governo tecnico di Monti, fino al governo Gentiloni, in coerente continuità hanno perseguito la politica di austerity imposta dalla UE pur con diversificate modalità, soprattutto legate all’immagine mediatica offerta, al fine di creare consenso popolare, per generare cioè l’assenso a misure impopolari altrimenti inaccettabili dall’elettorato. Con i gialloverdi è iniziato il dopo – Monti, in quanto il popolo che già aveva sostenuto i costi sociali della crisi e dell’austerity, ha manifestato la propria volontà di riscatto contro il declino morale, politico ed economico italiano degli ultimi 20 anni. Ma certo è che dopo soli 10 mesi di governo i gialloverdi non possono essere identificati come i responsabili di una decadenza ventennale del paese.
L’Europa dell’euro disarmata dinanzi alla crisi
L’economia europea ha registrato un brusco rallentamento sin dalla metà del 2018. Le cause della crisi sono identificabili nella guerra dei dazi istaurata da Trump verso la Cina, le incognite della Brexit, le difficoltà dei paesi emergenti, le diffuse situazioni di conflittualità nel mondo. La vorticosa crescita cinese, che negli ultimi anni ha alimentato l’export europeo, specie della Germania, registra rilevanti battute d’arresto. L’export dell’auto della Germania in USA è stato penalizzato dai dazi e soprattutto dagli scandali legati alle emissioni dei gas.
Le stime di crescita dell’economia mondiale sono state riviste al ribasso dal FMI, dal 3,7% al 3,5%. La frenata è assai rilevante per l’Europa, la cui crescita media è scesa all’1,6%, rispetto all’1,9% previsto. Per la Germania nel 2019 è prevista una crescita dell’1,3% (contro il previsto 1,9%), mentre la Francia, pesantemente scossa dalle tensioni sociali dei gilets gialli, si attesta all’1,5%. Le difficoltà più preoccupanti riguardano l’Italia, la cui crescita, già prevista intorno all’1%, si attesterà allo 0,6%. Dati gli squilibri già presenti nell’economia italiana, a causa dell’elevato debito pubblico, è prevedibile che la UE imporrà all’Italia nuove manovre restrittive della finanza pubblica, al fine di accrescere l’avanzo primario e ricondurre il rapporto debito / Pil entro i parametri europei. In una fase di recessione, l’imporre politiche di rigidità finanziaria mediante tagli alla spesa pubblica e inasprimenti della pressione fiscale, significa solo aggravare la crisi già in atto e produrre nuova deflazione. L’Europa si rivela dunque un fattore generatore di crisi e non certo una istituzione di sostegno dei paesi in crisi.
L’Europa si presenta disarmata dinanzi alla crisi incombente. In questa nuova fase di recessione emergono in tutta la loro evidenza i contrasti e gli squilibri interni tra i paesi della UE, dovuti alla posizione dominante dell’asse franco – tedesco. Ma soprattutto l’Europa si trova ad affrontare un ciclo recessivo dell’economia senza aver conseguito dal 2009 in poi una crescita comparabile a quella degli USA: l’Europa non ha mai definitivamente superato la crisi del 2008. Occorre rilevare che in 10 anni il Pil europeo è aumentato del 6,6% mentre gli USA sono cresciuti del 19,3%. Il primato della crescita europea è della Germania con il 13,5%. L’Europa, chiusa nella gabbia d’acciaio finanziaria, si dimostra inadeguata a sostenere i ritmi di crescita dell’economia mondiale.
Inoltre l’Europa si dimostra attualmente del tutto impreparata ad affrontare le trasformazioni in atto della globalizzazione. Il commercio mondiale evidenzia una decrescita, così come diminuiscono le delocalizzazioni della produzione. Si verifica anzi il fenomeno del reshoring, ossia del ritorno in patria delle imprese. Si afferma una nuova geopolitica multipolare, che ha protagonisti gli USA, la Cina, la Russia e i paesi emergenti, mentre si accentua la marginalizzazione dell’Europa. Si espande invece l’economia finanziaria, con relativa crescita esponenziale dei derivati, che oggi hanno raggiunto la cifra di 2,2 milioni di miliardi di euro, per un ammontare di circa 33 volte il Pil mondiale, e tre volte superiore al 2008. I fattori di rischio che hanno generato la crisi del 2008 si sono notevolmente incrementati: potrebbero verificarsi nuove bolle finanziarie devastanti. La crisi di 10 anni fa non ha insegnato nulla. I fondamentali dell’economia finanziaria sono rimasti inalterati: possiamo quindi concludere che l’economia finanziaria neocapitalista sussiste oltre le proprie crisi e si riproduce in virtù delle proprie crisi.
Il declino ventennale italiano
Il declino italiano si è progressivamente accentuato nel corso degli ultimi 20 anni ed è addirittura risibile addossare le responsabilità di tale crisi strutturale al governo populista gialloverde. L’Italia, pur avendo subito un processo di deindustrializzazione che ha decrementato la propria capacità produttiva del 25%, riesce tuttora a realizzare quote di export ragguardevoli. Ma l’Italia evidenzia rilevanti deficit strutturali nei settori delle infrastrutture pubbliche, degli investimenti, dell’innovazione tecnologica, dell’amministrazione pubblica, della giustizia, della formazione. Gli investimenti pubblici dal 2007 sono diminuiti del 30% (circa di 57 miliardi). Il calo complessivo degli investimenti dal 2007 ammonta a 507 miliardi. Gli investimenti nella pubblica amministrazione dal 2009 al 2016 sono diminuiti da 36,15 miliardi a 20,18 miliardi. Non è un caso che tale declino italiano abbia coinciso con l’adesione dell’Italia all’Eurozona. Le crisi finanziarie e i vincoli di bilancio europei hanno gravemente inciso sulla spesa pubblica e reciso tutti gli incentivi alla crescita e allo sviluppo del paese.
Analogo processo si è verificato in Europa. Negli ultimi 10 anni il calo degli investimenti pubblici nell’Eurozona è stato di 263 miliardi. Rispetto ai livelli pre – crisi, oggi si registra nell’Eurozona un calo totale degli investimenti pari a 2.746 miliardi.
Di conseguenza, si è verificato un calo verticale della produttività, che dal 2000 in Italia non registra alcun incremento. La causa di tale fenomeno è stata imputata all’indebitamento pubblico. Ma occorre rilevare al riguardo che il Giappone ha il rapporto debito / Pil più alto del mondo (il debito è pari al 237% del Pil). Eppure il Giappone vanta il primato mondiale della produttività.
L’Italia come l’Europa non ha ancora superato la crisi del 2008: il Pil è inferiore del 4% rispetto ai livelli pre – crisi, gli investimenti sono sotto del 19%, i redditi sono inferiori dell’8,8%. La carenza di crescita così come l’incremento del debito pubblico al 130% del Pil sono dovuti al calo ventennale degli investimenti determinato dalla politica di austerity imposta dalla UE.
La BCE e i rischi del sistema bancario
La crisi imminente potrebbe avere gravi ripercussioni sulla tenuta del sistema bancario. Occorre però rilevare che dalla crisi del 2008, i sistemi bancari degli USA e della Gran Bretagna, che hanno usufruito di massicce ricapitalizzazioni da parte degli stati, si sono rapidamente ripresi e attualmente vantano situazioni patrimoniali solide e stabili. Pertanto sono in grado di sostenere l’economia nel ciclo recessivo imminente.
In Europa, nonostante i piani di salvataggio messi in atto, le banche tedesche versano in uno stato di crisi profonda a causa degli scandali della Deutsche Bank e della smisurata quantità di titoli tossici ancora nel loro portafoglio. Il sistema bancario italiano registra notevoli fattori di instabilità a causa dei crediti deteriorati non ancora smaltiti. Le banche di larga parte dell’Eurozona non sono in grado di sostenere la crescita economica. Nell’Eurozona i 2/3 delle PMI vivono del finanziamento bancario.
In Italia sarebbero necessarie misure di ricapitalizzazione per far fronte alla crisi, ma il governo non dispone delle necessarie risorse a causa dell’elevato debito pubblico e del deficit di bilancio. Inoltre, la normativa europea del bail – in, che fa gravare i rischi delle risoluzioni bancarie su azionisti e obbligazionisti, accentua i rischi di tenuta del sistema bancario stesso, specie in Italia in cui 1/3 del debito bancario è detenuto da privati cittadini. Recentemente la BCE ha esercitato pressioni su MPS e le principali banche italiane per un rapido abbattimento dei crediti deteriorati. Tali misure, se messe in atto, comporterebbero restrizioni del credito alle imprese e ai cittadini e pertanto priverebbero le banche italiane di rilevanti risorse per sostenere l’economia in crisi.
Draghi, dopo la fine del QE, date le prospettive di recessione dell’economia europea, ha annunciato il varo di misure espansive da parte della BCE, attuate mediante una LTRO, ovvero un piano di finanziamenti quadriennali alle banche a tassi vicini allo zero per l’erogazione del credito all’economia reale. Tuttavia, qualora le banche italiane dovessero destinare tali finanziamenti all’abbattimento delle masse di crediti deteriorati, non disporrebbero di adeguate risorse per finanziare l’economia in crisi. Dinanzi alla recessione incombente, le misure espansive della BCE verrebbero vanificate dalla rigidità finanziaria delle normative europee.
La BCE potrebbe finanziare direttamente gli investimenti in infrastrutture degli stati o addirittura erogare finanziamenti ai cittadini, dato che con il QE ha finanziato anche i prestiti obbligazionari delle grandi imprese. Ma tali prospettive sono del tutto illusorie nel contesto di questa Europa oligarchico – finanziaria.
La crisi finanziaria del 2008 è stata fronteggiata negli USA e in Europa mediante misure di finanza straordinaria come il QE di Draghi. Anche nella presente congiuntura economica si renderanno necessarie misure di finanza straordinaria al fine di erogare liquidità e scongiurare il rialzo dei tassi. Dobbiamo quindi concludere che il neocapitalismo sussiste e può svilupparsi solo mediante il sostegno permanente delle istituzioni che devono far fronte alle crisi e agli squilibri provocati dai mercati finanziari, altrimenti questi ultimi crollerebbero rapidamente.
L’espropriazione del lavoro
Il malessere e il dissenso sociale dilagano in tutta Europa. Il declino e la proletarizzazione dei ceti medi e il relativo espandersi della disoccupazione e delle diseguaglianze sono fenomeni evidenti. I temi delle migrazioni, della sicurezza, dei conflitti tra gli stati in Europa assumono tuttavia una valenza secondaria rispetto al dissenso sociale che ha per baricentro il tema del lavoro. I partiti populisti non si sono finora dimostrati in grado di rappresentare una alternativa sistemica all’ordine neocapitalista.
In Italia, nelle controversie relative alla TAV, vediamo larghe percentuali di lavoratori schierate a favore del si alla TAV. Così come masse di lavoratori aderire, nei fatti, alle istanze di Confindustria, omologate cioè alle ragioni della loro naturale controparte, costituita dal capitale. L’esigenza primaria di sopravvivenza, l’incertezza del futuro legata alla precarietà del lavoro, hanno subordinato il lavoro alle politiche imprenditoriali. Vengono osteggiate spesso dai lavoratori misure atte a combattere il precariato se non addirittura il lavoro nero. Un esempio evidente: il “decreto dignità” viene considerato un disincentivo alle assunzioni. La stessa posizione del M5S avversa alle trivellazioni nell’Adriatico ha condotto tale movimento ad una sconfitta elettorale in Abruzzo.
Le problematiche del lavoro vengono ormai subordinate a quelle dell’impresa. Il lavoro è una componente della produzione al pari delle merci, che vengono acquistate, immesse nel ciclo produttivo e quindi destinate al consumo. Il processo di espropriazione del lavoro, proprio del sistema neocapitalista è giunto al suo definitivo compimento. Larga parte dei ceti medi con l’avvento del liberismo globalista si omologarono al primato del libero mercato, facendo proprie le istanze della grande impresa e dell’economia finanziaria, da cui vennero poi fagocitati. Allo stesso modo oggi le classi subalterne, per amore o per forza, ripongono le proprie speranze di sopravivenza nella politica economica della grande industria, senza possibilità di alcuna mediazione tra il lavoro e il capitale.
L’impresa ha monopolizzato la politica economica. Si invocano sgravi fiscali per l’impresa e per il lavoro. Da decenni vengono varate agevolazioni contributive, sgravi fiscali a pioggia, erogazioni di contributi alle imprese, senza risultati apprezzabili in tema di sviluppo e occupazione. Ad esempio, il sistema di incentivi messi in atto da “Industria 4.0” non ha determinato la crescita della piccola e media impresa: i programmi di incentivo hanno incrementato i profitti, ma non gli investimenti. Anzi, i profitti sono spesso reinvestiti nel mercato finanziario o nel settore immobiliare.
Questa compressione sociale subita dalla classe lavoratrice è dovuta anche al venir meno del ruolo dei sindacati e alla scomparsa di forze politiche rappresentative degli interessi dei lavoratori.
La manifestazione sindacale unitaria dello scorso 2 marzo ne è stato un esempio evidente. E’ emersa una identità di prospettive tra imprenditori e sindacati. Tra i politici aderenti alla manifestazione spicca il nome di Calenda, già autorevole membro del partito di Mario Monti. Imprenditori, sinistra e sindacati hanno un nemico comune: il governo gialloverde. Si contesta al governo di non aver abolito la riforma Fornero con il varo quota 100, dimenticando che quota 100, era una proposta di riforma per anni sostenuta da Damiano (PD), ma sempre respinta dai governi di sinistra. I sindacati quando fu approvata la riforma Fornero indissero 2 ore di sciopero. Glielo ha ricordato recentemente Mario Monti, rinfacciando a sinistra e sindacati il loro consenso implicito alla riforma Fornero. Si sono contestate anche le modalità del reddito di cittadinanza, quando in decenni di sindacalismo e di governi di sinistra nessuno è stato in grado di emanare valide riforme a salvaguardia dei lavorati dalla disoccupazione e dalla povertà, già in vigore in quasi tutti i paesi europei. Non si intravvedono riforme della rappresentanza sindacale nelle imprese, quando negli ultimi anni a seguito del Job Act varato dal PD si è verificata una concorrenza selvaggia tra sigle sindacali spesso prive di rappresentatività per la firma di contratti aziendali graditi agli imprenditori, ma a danno dei lavoratori.
Occorre quindi ricreare una soggettività politica rappresentativa del lavoro. E pertanto è necessario svincolare dalla compressione imprenditoriale la classe lavoratrice. Il malessere e le tensioni sociali presenti in tutta l’Europa necessitano di alternative sistemiche al dominio neocapitalista, altrimenti qualunque movimento populista sarà condannato al fallimento. Deve essere necessariamente essere ripristinata la dialettica di contrapposizione tra capitale e lavoro: solo la lotta delle classi lavoratrici potrà riscattare i popoli dallo stato di emarginazione e subordinazione in cui sono stati relegati dalle oligarchie finanziarie che dominano la governance europea.