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Jane Austen non piace alla sinistra perché esalta la vita semplice, il matrimonio, la famiglia

di Francesco Lamendola - 31/01/2018

Jane Austen non piace alla sinistra perché esalta la vita semplice, il matrimonio, la famiglia

Fonte: Accademia nuova Italia

 

 

A sinistra - ma non si può dirlo a voce alta, perché la sinistra non vuole, e la sinistra è padrona dell’establishment culturale - Jane Austen piace poco, o non piace affatto; dà sui nervi, perché è veramente troppo borghese, tropo intimista, troppo… tradizionale, sia come scrittura, sia, soprattutto, come visione della vita e come morale. D’altra parte, si può sempre tentare una operazione simile a quella che la sinistra ha fatto, con un certo successo, per un’altra bestia nera, il filosofo Nietzsche: si può sempre cercare di arruolarla, surrettiziamente, nelle file della sinistra stessa, facendola passare per una autrice che, più o meno consapevolmente, più o meno sottilmente, critica la società borghese, il matrimonio (?), il maschilismo. In che modo si può fare una cosa simile? Cogliendo in lei qualche palpito, qualche fremito, qualche batter di ciglia proto-femminista; arruolandola, ovviamente a sua insaputa, nell’esercito delle scrittrici che avrebbe poi trionfato con Virginia Woolf, Simone de Beauvoir e magari Erica Jong. Non c’è bisogno di far nomi, basta andare su internet e fare una brevissima ricerca. Naturalmente, si tratta di una operazione alquanto dubbia, per non dire illecita; tuttavia è già stata fatta altre volte, e poi la sinistra ha pronta anche la bacchetta magica per realizzarla: la cultura del sospetto, declinata in senso freudiano. Non importa quel che uno dice o scrive, importa quel che pensa; o meglio, quel che c’è nel suo inconscio. E come si fa a sapere quel che c’è nell’inconscio, dal momento che è inconscio? Ah, qui si realizza l’autentico capolavoro: il triplo tuffo carpiato con avvitamento finale: non uno qualsiasi, ma loro sì, loro sanno cosa c’è nell’inconscio delle persone, perché loro possiedono gli strumenti - scientifici, per carità - per dedurlo, appunto, da ciò che uno non dice, da ciò che uno non scrive. Loro sanno leggere fra le righe, e molto bene: tanto quanto se leggessero in un libro aperto.
Dunque, dicevamo che la Austen non piace, di per sé, a meno di sottoporla a qualche ritocchino chirurgico, per il fatto che esalta i valori borghesi: il matrimonio, la famiglia, la vita semplice; e precisiamo, perché di questi tempi è necessario, che esalta il matrimonio fra un uomo e una donna, non il matrimonio, e neppure l’amore, fra due uomini o due donne. Le deviazioni sessuali, a Jane Austen, non interessano: a lei interessano i sentimenti e la psicologia delle persone normali. E già questo è insopportabile; già questa è una tacita, ma intollerabile provocazione. Come si permette di stabilire ciò che è normale? Il fatto è che lei non lo discute, lo dà per scontato, sulla base del puro buon senso e sulla base di ciò che la società, universalmente, ha sempre creduto. In questo senso è una donna dalle vedute tradizionali: parte da una piena accettazione della morale comune e del semplice buon senso; detesta gli eccessi, le furie, le scalmane; predilige la pacatezza, la riflessione, la capacità di ascoltare e di pensare, prima di gettarsi a capofitto nelle cose: tutte qualità che la cultura moderna e progressista non ama; perché la cultura moderna ama e proclama il relativismo, mentre la visione del reale di Jane Austen parte dall’assunto che esistono verità certe e assolute, che non hanno bisogno d’esser dimostrate, perché esistono da secoli e millenni, e perché hanno sempre dato buoni frutti, a patto d’esser vissute con ragionevolezza: a cominciare, appunto, dal matrimonio e dalla famiglia. A lei non interessano gli amanti, ma gl’innamorati: ciò a cui tende l’amore è il matrimonio; e il matrimonio, va da sé, è una faccenda che coinvolge un uomo e una donna. In un certo senso, Jane Austen è l’anti-Emily Bronte (che peraltro appartiene alla generazione successiva) e Orgoglio e pregiudizio è l’antitesi di Cime tempestose. A lei non piacciono i sentimenti forsennati, le passioni devastanti; non crede all’amore come forza cieca e indomabile: per lei, l’amore è equilibrio, maturità, saggezza, oltre che attrazione potente e misteriosa.
Scrive Pietro Meneghelli nella sua Introduzione a Ragione e sentimento di Jane Austen, di cui ha curato anche la traduzione (titolo originale: Sense and Sensibility; Roma, Newton Compton Editori, 1995, pp. 11-14):

Jane Austen ha un’intuizione che le consente una definizione rapida e felice dei caratteri dei personaggi, tanto spontanea e penetrante da apparire elementare. La sua percezione è vivace e piena di freschezza; cogliendo immediatamente i caratteri individuali e quindi anche l’elemento curioso e potenzialmente comico della vita, presenta al lettore una rappresentazione smaliziata dell’eterna commedia dell’esistenza. La sua reazione personale al contatto con la realtà si identifica in un atteggiamento divertito, privo di amarezza, o di rimpianti, in cui l’autocontrollo non cancella la simpatia, così come l’intuizione del carattere non rende superflua la registrazione fedele e arguta dei gesti e delle intenzioni dei personaggi. La vanità, l’egoismo, la meschinità, tutti quegli aspetti del comportamento che il romanzo pessimista analizzerà con l’intensità e l’amarezza della denuncia, nelle opere della Austen sono tratteggiati con una sobrietà e un’ironia che tendono sempre a minimizzare le reazioni emotive.[…]
Nel suo atteggiamento verso la morale e verso l’emozione, Jane Austen si dimostra, in “Sense and Sensibility”, una vera classicista. È tutt’altro che cinica nei confronti dell’amore, e disprezza il matrimonio di convenienza; però ritiene che il decoro sia più importante della felicità, e appare convinta che, se è un bene che i matrimoni siano l’espressione di un sentimento autentico, l’importante è  che abbiano le carte in regola per funzionare, e ciò si può stabilire in base a criteri basati sull’assoluta concretezza. Le doti indispensabili alla felicità sono l’equilibrio e il buonsenso, pervasi da una tranquilla, disciplinata armonia delle forze morali, dirette e dominate dall’intelligenza e accompagnate da una discreta rendita. […]
Jane Austen ignora il romanticismo che si va affermando, o meglio lo considera con ironica condiscendenza. Il sentimentalismo romantico è un eccesso scriteriato, e il cedimento a un’emozione troppo esasperata per essere autentica viene equiparato allo squilibrio intellettuale e morale.
L’atteggiamento di Jane Austen nei confronti del romanticismo diverrà, col tempo, meno critico; ma fino all’ultimo la sua visione delle vita rimarrà legata all’accettazione della forza della realtà, delle condizioni materiali della felicità, con una semplicità che non cela alcuna ribellione, alcuna protesta; la morale della Austen è fatta di una prudenza senza illusioni, tutta fondata sull’idea di un’armonia tra ragione e sentimento. Anche se la descrizione della passione non trova posto nelle sue pagine (e in questo può aver parte anche il desiderio di distinguersi dai romanzi popolari, in cui le passioni erano così esasperate), le sue eroine sono sempre estremamente oneste nel loro atteggiamento verso l’amore; non c’è traccia della falsa modestia tanto diffusa nei personaggi femminili dell’epoca.

In questo quadro, che ci trova sostanzialmente concordi, sono tre i punti che ci sembrano particolarmente degni di rilievo.
Il primo è quello in cui si afferma che, per Jane Austen, il decoro sia più importante della felicità; noi lo correggeremmo così: non il decoro, ma la serenità e il cuore pacificato sono, per la scrittrice, più importanti della elusiva, sfuggente felicità. La felicità è un concetto di matrice illuminista che, nel romanticismo, trova la sua esasperazione, appunto perché si è rivelato storicamente, e continua a rivelarsi individualmente, irraggiungibile: il romantico è un illuminista deluso, che ha creduto nel mito della felicità a portata di mano, e che ne ha ritratto una delusione carica di amarezza. Ma Jane Austen, che a quel mito non ha mai creduto, non è delusa e questo spiega la sua serenità e anche la sua benevolenza, il suo guardare il mondo e i propri personaggi con bonomia e una certa, sorridente indulgenza: esattamente l’opposto dell’atteggiamento degli scrittori moderni, specie quelli a noi più vicini, i quali, sovente, sono pieni di astio per il reale, e ostentano disprezzo e perfino schifo nei confronti dell’umanità che rappresentano (uno per tutti: il tanto decanato, e sopravvalutato, Carlo Emilio Gadda). Quanto alla convinzione della Austen che, se è un bene che i matrimoni siano l’espressione di un sentimento autentico, l’importante è che abbiano le carte in regola per funzionare, qui cui avviciniamo al nodo del problema che la Austen rappresenta per la critica di sinistra. Ella è convinta, horribile dictu, che si deve cercare il modo di far funzionare il matrimonio, laddove essi preferirebbero, come fanno quasi tutti gli scrittori che piacciono a loro, che il matrimonio serva per far vedere al mondo intero quanto esso sia odioso e insopportabile, un carcere ideato da una mente diabolica, una prigione escogitata dalla perfidia borghese e, naturalmente, maschilista, per tenere in gabbia due persone, ma specialmente, una, la donna. Insomma, ai critici progressisti il matrimonio “serve” (e, se non ci fosse, lo si dovrebbe inventare) per denunciare la falsità, l’ipocrisia e la violenza istituzionalizzata nei rapporto fra i sessi, la natura sordida e ripugnante dei legami familiari, la macchina infernale di tortura che opprime la libertà, la spontaneità e la creatività degli individui, specialmente quelli di sesso femminile. Così, da Gustave Flaubert in avanti, gli scrittori progressisti, quelli che piacciono ai critici di sinistra, si sono sbizzarriti nel descrivere le più orribili patologie della vita matrimoniale e hanno ostentato tutto il loro disprezzo per le persone che corrono volontariamente a rinchiudersi in un così orrendo carcere; e, come per i bianchi della Frontiera del West l’unico indiano buono era quello morto, così, per essi, l’unico matrimonio buono è quello carico di sopraffazione, di crudeltà, di finzione e ipocrisia, in modo da offrire alla penna acuminata dei vari Flaubert, Zola, Turgeniev, Galsworthy, Pirandello, la possibilità di sparare a zero contro di esso e celebrarne il funerale, quanto più possibile vergognoso ed infamante. Ma a Jane Austen non interessa ciò che può far fallire un matrimonio, bensì ciò che può farlo funzionare; poiché essa non odia la famiglia, ma la considera una realtà naturale e positiva, la sua attenzione è spinta a cercare le condizioni adatte affinché il matrimonio funzioni. Proprio come facevano i genitori, un tempo, quando “combinavano” il matrimonio dei figli, nella società contadina: ciò a cui essi miravano non era la chimera della “felicità” individuale, semplicemente perché non pensavano che si viene al mondo per cercare una cosa del genere, ma per fare la propria parte; al contrario, essi puntavano a unire un marito e una moglie che fossero compatibili, che potessero aiutarsi e fornirsi sostegno reciproco nelle difficoltà della vita; e sta di fatto che tali unioni, almeno nove volte su dieci, funzionavano. Quanto al fatto che la Austen accordi una parte non secondaria alla valutazione razionale dei fattori, anche di tipo materiale, che possono contribuire alla buona riuscita del matrimonio, inteso soprattutto come sano equilibrio di forze morali ed estraneo ad eccessi passionali semi-patologici, ci pare che questo sia un ulteriore elemento di buon senso e niente affatto una specie di calcolo meschino.
Il secondo punto notevole è quello in cui si afferma che la sua visione delle vita rimarrà legata all’accettazione della forza della realtà, delle condizioni materiali della felicità, con una semplicità che non cela alcuna ribellione, alcuna protesta: anche qui si vede perché Jane Austen non può piacere troppo alla cultura di sinistra. Ella non si ribella e non protesta; non ce l’ha con la realtà, ma ritiene saggezza accettarla: peraltro, accettarla non significa, di per sé, subirla; come nel caso dell’etica cristiana, si tratta di accettare la vita come una realtà transitoria, pur apprezzandone le cose buone, senza scambiarla per un valore assoluto e definitivo. Ma questo è un atteggiamento borghese e anti-rivoluzionario: se tutti facessero come lei, le cose non cambierebbero mai; e si sa che gl’intellettuali di sinistra, in fondo al loro cuore, non hanno mai preso congedo dal mito della rivoluzione: basta vedere come si commuovono, fin quasi alle lacrime, se si parla di Emiliano Zapata o di Ernesto Che Guevara; o, nel caso dei cattolici di sinistra, se si parla di don Milani o di don Mazzolari). Ma davanti a una donna, a una scrittrice, che accetta la realtà, che cosa si può fare? Evidentemente, ella è insensibile alle ingiustizie sociali e alla iniqua condizione femminile rispetto all’uomo: dunque, è inutilizzabile per la loro crociata ideologica.
Il terzo punto è che le sue eroine sono sempre estremamente oneste nel loro atteggiamento verso l’amore; in altre parole, non ragionano da donne rancorose o da femministe, non barano al gioco riversando ogni colpa sull’uomo, se le cose non funzionano nei rapporti fra i sessi; ed è lei stessa così onesta da vedere le cose, come scrittrice, in maniera equanime e spassionata. Questa è una dote molto rara, nelle donne: rifiutando il vittimismo e la tentazione dell’amarezza cronica, le sue eroine si assumono la responsabilità delle loro scelte, senza recriminazioni o rimpianti. E non è certo poco.