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Jung e l’etnopsichiatria: la psiche fra natura e cultura

di Flavia Corso - 21/08/2017

Jung e l’etnopsichiatria: la psiche fra natura e cultura

Fonte: Ereticamente

Mi sembra che, in ultima analisi, alla base della volontà di omologare gli individui ad una massa informe priva di identità storica, culturale e biologica, e pertanto dell’opposizione violenta all’autodeterminazione dei popoli, vi sia una svalutazione radicale del rapporto tra natura e cultura. La preoccupazione di coloro che parteggiano per un nuovo ordine mondiale di stampo orwelliano consiste nell’ammettere, direttamente o indirettamente, che una qualsiasi conformazione genetica ereditaria influenzi, in modo più o meno decisivo, la psicologia di un individuo. E’ chiaro che, ammessa una tale eventualità, ci si troverebbe di pari passo a dover accettare l’idea che a popoli differenti corrispondano tipi psicologici differenti, con tutte le ripercussioni culturali, sociali e politiche che ne conseguono. E dal momento che tutto ciò che è differenziato al suo interno, è meno gestibile da un punto di vista esterno, ne deriva automaticamente che l’uniformità, sotto ogni suo aspetto, è una delle principali condizioni affinché un governo totalitario possa esercitare il proprio potere illimitatamente. Il grande ostacolo al trionfo della cultura mondialista, infatti, è sempre stata l’esistenza di “identità forti”, restìe ad abbandonare i loro tradizionali sistemi di riferimento concettuali; la profonda identità psicologica, e dunque culturale, di un popolo, è da sempre vera e propria fonte di crescita spirituale dell’umanità.

 

A tale proposito, è sicuramente interessante mettere a confronto l’etnopsichiatria, ramo della psichiatria che si occupa di studiare l’influenza del contesto culturale e dell’etnia di provenienza sullo sviluppo di determinate malattie mentali, con la teoria degli archetipi di Carl Jung. Il nodo cruciale è sempre lo stesso: il rapporto natura-cultura e, nello specifico, il rapporto genetica-psicologia/cultura. L’etnopsichiatria parte dal presupposto pressocché innegabile che i contenuti psicologici non siano universali, ma siano determinati dal contesto culturale di riferimento; si tratta quindi di categorie di pensiero relative, sistemi di riferimento concettuali e simbolici che si manifestano nelle più svariate modalità, fra queste anche le malattie mentali. Quello che Georges Devereux chiama “segmento inconscio della personalità etnica” è quella parte dell’inconscio che un individuo ha in comune con gli altri membri della sua comunità culturale. In quest’ottica, i disturbi etnici corrispondono ad ideali antisociali in conflitto con le esigenze funzionali della società.

A questo punto, però, è lecito chiedersi: se la psiche è culturalmente determinata, che cosa in ultima analisi determina la cultura? L’approccio dell’etnopsichiatria conduce a un cortocircuito, poiché se da un lato la sfera psicologica degli individui sembra dipendere da una matrice culturale di base, dall’altro quest’ultima non può che essere il frutto dell’evoluzione delle menti umane. In breve, la psiche è culturale tanto quanto la cultura è inconscia, e l’una e l’altra costituiscono un binomio inscindibile la cui origine, a sua volta, va ricercata in quella natura naturans che, nel suo attuarsi, genera la natura naturata nelle sue molteplici forme.

 

Swiss psychiatrist Carl Gustav Jung (1875 ? 1961), the founder of analytical psychology, 1960. (Photo by Douglas Glass/Paul Popper/Popperfoto/Getty Images)

Vorrei approfondire ulteriormente questo ragionamento, facendo riferimento alla teoria junghiana degli archetipi. E’ noto che per Jung esista una sorta di sostrato psichico innato comune a tutti gli esseri umani che prende il nome di “inconscio collettivo”. Esso si manifesta tramite gli “archetipi”, ossia immagini mentali, contenuti psichici e simbolici che, nel corso dell’evoluzione della specie umana, si sono fissati geneticamente divenendo dunque soggetti all’ereditarietà. Gli archetipi di Jung sono paragonabili alle idee platoniche, e corrispondono a forme di pensiero preesistenti e primitive che trascendono il linguaggio stesso. Tuttavia, pur sostenendo l’universalità delle manifestazioni archetipiche, Jung nota come queste non siano ugualmente presenti in tutti i popoli, giungendo alla conclusione che esse siano geneticamente determinate. L’intuizione dello psichiatra svizzero sembra trovare conferma nel campo delle neuroscienze: recenti studi dell’Università di Oxford hanno persino evidenziato una correlazione tra la frequenza di determinati alleli e il relativo grado di individualismo-collettivismo dei gruppi etnici, suggerendo ancora una volta come la variazione genetica interagisca con fattori ambientali e sociali nell’influenzare le differenze psico-culturali. La dimensione psichica degli esseri umani è, per così dire, stratificata: al livello più primordiale corrisponde l’inconscio collettivo comune a tutta la specie umana; ma all’evoluzione e differenziazione genetica della specie corrisponde altresì una diversificazione psichica, funzionale alla sopravvivenza dello specifico popolo. E’ a questo punto che l’inconscio collettivo si fa inconscio razziale, ove gli archetipi rappresentano pure potenzialità che, a seconda della storia evolutiva di ciascuna razza, si attuano e si cristallizzano geneticamente. Dal momento che, per citare lo stesso Jung, “a nessun biologo verrebbe in mente di supporre che ogni individuo acquisisca da capo, ogni volta, il suo modo generale di comportarsi”, è lecito dunque ammettere l’esistenza di una qualche forma di conoscenza innata a carattere ereditario. Si può affermare che mentre l’inconscio etnico svolge una funzione adattiva da un punto di vista socio-culturale, l’inconscio razziale è funzionale all’adattamento della specie all’interno del suo contesto naturale; i due approcci, lungi dall’essere in contraddizione tra loro, possono integrarsi a vicenda attraverso un continuo dialogo costruttivo che miri ad inquadrare il rapporto che sussiste tra evoluzione naturale ed evoluzione socio-culturale, senza tuttavia invertirne il nesso causale. Poiché se è vero che la società è anteriore all’individuo, tuttavia ogni società rispecchia sempre e fedelmente l’identità biologica del popolo a cui fa riferimento; potremmo anzi affermare che la società, in senso ampio, non è altro che la modalità organizzativa della razza nel suo interagire con l’ambiente circostante.

La razza, per così dire, sta all’etnia come la natura sta alla cultura, e il mondo delle idee di un popolo sarà sempre in ultima istanza anche il prodotto delle peculiari predisposizioni genetiche che si sono compiute nel corso dell’evoluzione. Se a questo punto qualcuno obiettasse che il concetto di razza è arbitrario, per via della comune origine di tutti gli esseri umani, lo inviterei a leggere con attenzione il seguente passo di Kant, tratto dalla seconda recensione alle Idee di Herder:

 

“Alla divisione del genere umano in razze il nostro autore non è favorevole; […] egli assume come causa un principio di vita interno, che, secondo la diversità delle circostanze esterne, modifica se stesso, adattandovisi. Nel che il recensore conviene interamente con lui, solo con la riserva che, qualora la causa organizzatrice dall’interno per sua natura fosse limitata solo a un certo numero e grado di diversità nella formazione delle sue produzioni (nella cui effettuazione essa non sarebbe abbastanza libera per produrre in circostanze mutate un altro tipo), a questa disposizione formativa della natura si potrebbe benissimo dare il nome di germi o disposizioni originarie, senza per ciò considerare i primi come predisposti ab inizio e solo assumendoli come meccanismi e germogli capaci eventualmente di trasformarsi (come nel sistema dell’evoluzione), ma anche come semplici limitazioni, non ulteriormente spiegabili, di un potere autoformativo che noi non possiamo né comprendere, né rendere concepibile.” (1)

 

Ben lungi dal voler sfociare nel mero determinismo biologico, non intendo qui ridurre la complessità umana al suo corredo genetico, ma evidenziare semmai l’odierna tendenza ad annichilire, desacralizzandolo, l’antico concetto della zoé, la vita naturale propriamente detta.

La repulsione aprioristica per tutto ciò che è biologicamente determinato e non liquidabile come “costrutto sociale” è, infatti, il subdolo meccanismo attraverso il quale la politica diventa gradualmente biopolitica, e il corpo umano si fa strumento nelle mani di demiurghi ignoti.

 

Note:

 

1 – Kant, Recensioni, cit. pp. 170-171