Killers of the flower moon: una potente raffigurazione del lato oscuro dell'America (e di quello presunto buono, che però non esiste)
di Riccardo Paccosi - 11/11/2023
Fonte: Riccardo Paccosi
Dopo aver visto Killer of the Flower Moon, penso si possa riconoscere uno specifico primato a Martin Scorsese: quello di essere il regista che, nella storia del cinema, è riuscito a mantenere la qualità media per singolo lungometraggio più elevata entro il percorso di carriera più lungo.
Specificando che ho visto la maggior parte dei suoi film ma non tutti, mi pare si possa affermare che, in cinquant'anni di carriera, la suddivisione di suddetta filmografia sia tra film "solo" belli e film capolavori. In altre parole, all'interno dell'opera omnia di Scorsese non sono presenti film brutti e questo mi pare possa definirsi un primato.
Killer of the Flower Moon ritengo possa iscriversi alla categoria dei capolavori per la qualità complessiva della regia e, decisamente, per la prova degli attori. Anche se il protagonista è formalmente un Leonardo Di Caprio che esprime virtuosismo tecnico come al solito (nonché la capacità di rendere interessante un personaggio poco colto e poco intelligente), mi sembra sia soprattutto l'interpretazione "da cattivo" di Robert De Niro a giganteggiare e a tenere assieme l'intreccio.
Siamo assueffatti al vedere De Niro su grande schermo da ormai cinque decenni: sarebbe un errore, però, se per questo motivo si desse per scontata e quindi si smettesse di notare la potenza che, sul piano della tecnica di recitazione, a ottant'anni suonati quest'attore riesce ancora a esprimere.
Ammirare il cinema di Scorsese sul piano artistico, ovviamente, non implica l'obbligo di doverne sposare per intero la visione politica.
Killer of the Flower Moon è - al pari di tante altre opere come Gangs of New York - una riflessione sulla natura profondamente oscura e irrecuperabilmente sopraffattrice dell'America, fin dai suoi dispositivi di fondazione nazionale.
Se questa riflessione anti-progressista risulta condivisibile e coraggiosa, però, molto meno lo è la scelta di mettere in scena una presunta valenza positiva della componente più istituzionale e legale del sistema socio-politico.
Infatti, come in Wolf of Wall Street si dava a intendere che fossero le componenti più piratesche e criminali del mondo finanziario a essere marce e non già tutto il sistema, parimenti in quest'ultima opera alla sopraffazione dei bianchi sugli indiani che viene perpetrata dall'America di frontiera fa da contraltare un governo federale che, al contrario, raddrizza i torti e ristabilisce il primato del diritto.
Ma chiunque conosca un minimo la storia del West e delle Guerre Indiane, sa benissimo che invece è stato proprio il vertice politico di Washington a garantire e legalizzare de facto il genocidio prima e la reiterata invalidazione dei trattati poi.
In altre parole, negli anni '20 in cui è ambientato questo film così come nell'epoca attuale, non esiste un aspetto politico-istituzionale degli Stati Uniti che non sia qualificabile come male assoluto; non c'è un livello di quel sistema che non esprima, nei suoi principi fondativi e nella sua filosofia più profonda, una visione basata esclusivamente sul nichilismo dell'accumulazione e sulla sopraffazione dell'uomo sull'uomo. D'altro canto, Scorsese è pur sempre americano: quindi, è comprensibile, legittimo e coerente alla sua inculturazione cattolica ch'egli voglia ricercare un barlume di luce laddove sussiste soltanto il Nulla.