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L’8 settembre in salsa siriana

di Salvo Ardizzone - 12/01/2025

L’8 settembre in salsa siriana

Fonte: Italicum

L’8 dicembre la Siria è collassata, assai più che una sconfitta militare – ne parlerò a lungo - è stato il crollo repentino di un sistema, la fine del regime degli Assad, l’ultimo di quelli nati dal cosiddetto socialismo nazionale arabo, sopravvissuto per 54 anni alle tempeste della Storia. L’evento ha avuto molti padri che hanno agito con interessi e finalità diverse, spesso contrastanti. Seppur preparato da molto tempo, molti soggetti vi si sono inseriti in corso d’opera condizionandone le dinamiche e portando a conseguenze non sempre previste dai registi, costringendo gli attori a riposizionamenti e determinando un quadro finale ancora ben lontano dall’assestamento. Di seguito saranno descritti i fatti, le finalità di chi vi è stato coinvolto e le possibili prospettive di una crisi tutt’altro che conclusa. Anzi.

Gli eventi

All’alba del 27 novembre è iniziata l’Operazione “Dissuadere l’Aggressione”, così è stata chiamata la guerra in Siria 2.0. Ad attaccare da Idlib e dalle campagne occidentali di Damasco sono state le milizie di Harar Tharir al-Sham e dell’Esercito Nazionale Siriano, quest’ultimo una sigla ombrello che racchiude una quarantina di bande al soldo della Turchia, mercenari già usati più volte in Siria. La situazione si è evoluta con grande rapidità, in realtà troppa: Aleppo, la seconda città della Siria, è stata conquistata dopo pochi giorni, Saraqib è stata presa subito dopo e sono state tagliate le autostrade A4 e A5, fondamentali per la connessione del paese.

Dopo la spallata congiunta su Aleppo, i gruppi si sono divisi e le colonne di HayatTharir al-Sham si sono dirette verso sud: Hama è caduta dopo aspre battaglie, che sono state le uniche resistenze serie del regime. Da notare: l’improvviso ordine di ritirata è arrivato ai reparti lealisti appena dopo che essi avevano inflitto una pesante sconfitta alla cosiddetta “Banda Rossa”, il gruppo di punta di HayatTharir al-Sham. I miliziani si sono quindi diretti a sud verso Homs, la terza città del paese, che hanno preso praticamente senza combattere: la 25^ Divisione dell’Esercito Siriano, schierata a difesa, ha ricevuto dal Comando centrale l’ordine di ritirata generale appena prima del contatto col nemico; il suo disimpegno ha costretto anche i reparti di Hezbollah che l’affiancavano a ripiegare.

A quel punto, dai governatorati meridionali di Daraa e Suwayda al confine con la Giordania, e da Al-Tanf, anch’essa sul confine giordano, altri gruppi di ribelli d’assai dubbia matrice hanno respinto le forze lealiste e sono entrati a Damasco senza che nessuno organizzasse una resistenza. Nel frattempo, le milizie inquadrate dalle SDF, sostenute da Aviazione e Special Forces USA (alcuni operatori delle Forze Speciali americane, feriti, sono stati evacuati in Giordania), hanno attaccato lealisti e forze della Resistenza a DeirEzzor e Al-Bukamal, sull’Eufrate. Respinte in un primo momento, sono poi dilagate dopo che i reparti dell’Esercito Siriano hanno ricevuto l’ordine di ritirarsi e le formazioni della Resistenza hanno dovuto adeguarsi. Da quanto è emerso, l’Intelligence USA aveva allertato quelle milizie mercenarie diversi giorni prima dell’attacco, e aveva distribuito materiali e un primo pagamento in vista dell’azione.

Nel frattempo, la Turchia ha spinto le milizie dell’Esercito Nazionale Siriano lungo il confine e le forze curde delle SDF sono state costrette a ripiegare. La città chiave di Manbji è stata presa dai miliziani e, al momento in cui scrivo, oltre l’Eufrate e dalla parte turca del confine dinanzi a Kobani, si stanno ammassando grosse formazioni di milizie sostenute dall’Esercito di Ankara. Nei fatti la Turchia sta espandendo il proprio controllo su una fascia di territorio siriano confinante, col fine dichiarato di estenderla da Afrin, sul Mediterraneo, a Qamishli, al confine iracheno.

Spicca il fatto che, eccetto un certo numero di raid dell’Aviazione, le forze russe non abbiano opposto alcuna significativa resistenza;sono rimaste per lo più confinate nelle loro basi sparse per la Siria e, nei giorni successivi al collasso, le hanno abbandonate per ritirarsi nel governatorato di Latakia sul mare, a Tartus e Hmeimin; le lunghe colonne di uomini e mezzi hanno viaggiato scortate dai miliziani di HayatTharir al-Sham. La flotta russa presente (tre fregate, un sottomarino e due navi appoggio) ha levato gli ormeggi allontanandosi dal porto di Tartus, alcuni vascelli si sono poi ormeggiati al largo. Nei giorni successivi sono giunte nel porto due grandi navi trasporto per imbarcare i mezzi che vi erano stati concentrati.

Nel momento in cui scrivo, gli assetti aerei delle varie basi siriane si sono concentrati nella base di Hmeimin; da subito dopo il collasso è stato attivato un ponte aereo operato da due colossali AN 126-100 e tre IL-76MD che hanno trasferito materiali, personale e sistemi d’arma fra la Russia e gli aeroporti libici di Al-Jufra e Khadim controllati dalle forze russe dell’Afrikansy Korpus, su cui è stata già notata la presenza di nuovi sistemi antiaerei. È da notare, e ci ritornerò, che durante i giorni convulsi dell’offensiva Mosca aveva notificato a Damasco che avrebbe continuato a dare sostegno, ma limitato, perché le proprie priorità erano ormai altre.

Hezbollah aveva spostato circa duemila combattenti nell’area di Homs, accanto alle formazioni della 25^ Divisione dell’Esercito Siriano ma, dopo l’improvviso ordine di ritirata generale, si è disimpegnato ritirando tutti i suoi elementi dalla Siriagià il 7 dicembre e posizionando truppe lungo il confine libanese. L’Iran ha evacuato i consiglieri della Forza Quds mentre l’Iraq si è limitato ad attestarsi massicciamente sui propri confini. Fatta eccezione di un assai limitato contingente del Badr, entrato in Siria nei primissimi giorni dell’attacco, a seguito della decisione della Shura della Resistenza irachena le Hashd al-Shaabi hanno deciso di non precipitarsi in un teatro dichiarato compromesso. Il mancato intervento di una forza oggettivamente enorme, e tutto sommato vicina al teatro degli scontri, ha un chiaro significato che s’inquadra nel contesto complessivo che è emerso già a pochi giorni dagli eventi.

Mentre la situazione era in evoluzione, in una dichiarazione su X, Donald Trump ha dichiarato che gli USA dovevano rimanere estranei al conflitto. Con ciò avvalorando l’idea che la partecipazione al blitz sia stata anche un’ennesima iniziativa dell’Amministrazione uscente per avvelenare i pozzi, lasciando la nuova Amministrazione dinanzi a crisi difficilmente gestibili. A prescindere da ogni retroscena, è evidente un diverso approccio alle cosiddette “Attività Oltremare”.

Il 7 dicembre, a Doha, a margine di una conferenza tenutasi in Qatar, i ministri degli esteri russo, iraniano e turco hanno discusso nel format di Astana di una situazione ormai segnata: il regime siriano si era già dissolto, Erdogan emergeva dalla crisi con le carte migliori e Mosca appariva in rapido riposizionamento, anche troppo per l’evidente assonanza di Lavrov col Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan. Da parte sua, il ministro degli Esteri iraniano Araqchi dava mostra di pragmatismo, prendendo atto della situazione e attivando contatti anche con HayatTharir al-Sham che, per bocca del proprio leader, ha affermato di non aver nulla contro Teheran.

Quello stesso giorno, Damasco è caduta in mano dei gruppi ribelli che provenivano dal governatorato di Daraa e Suwayda; il presidente Al-Assad è fuggito in Russia e il primo ministro Mohammad al-Jalali si è messo a disposizione degli insorti per garantire la continuità del governo, mentre nel resto della Siria dilagavano le bande di HayatTharir al-Sham, dell’Esercito Nazionale Siriano, delle SDF curde e varie altre milizie sorte per l’occasione.

Dal canto suo, con la motivazione di voler prevenire gli eventi e garantire la propria sicurezza, Israele è entrato in forze nella zona cuscinetto del Golan istituita dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 350 del 1974, e si è allargato nella regione siriana di Quneitra; nei giorni immediatamente successivi ha occupato il versante siriano del Monte Hermon e diversi villaggi, fino a giungere a una quindicina di chilometri da Damasco. Colonne dell’IDF si sono dirette anche verso il governatorato di Daraa, al confine siro-giordano, giungendo a Qusayr. Netanyahu ha subito dichiarato che le terre del Golan siriano saranno israeliane per l’eternità.

Con la medesima “giustificazione”, dall’indomani del collasso del regime siriano, le IDF hanno lanciato la più pesante campagna aerea mai effettuata sulla Siria dai tempi della Guerra dello Yom Kippur; centinaia di raid hanno distrutto basi, depositi, aeroporti, installazioni e mezzi delle Forze Armate siriane. Al contempo, sono state affondate tutte le imbarcazioni militari alla fonda nei porti del Mediterraneo. Secondo le dichiarazioni di Tsahal, doveva essere evitato che mezzi e materiale potessero cadere in “mani sbagliate”.

È inutile sottolineare quanto i timori espressi da Israele siano strumentali: Tel Aviv è sempre stata vicina a qaedisti e “ribelli” vari della guerra siriana e li ha aiutati largamente al tempo del conflitto precedente; le foto di “Re Bibi” che visita i feriti taqfiri curati negli ospedali israeliani si sprecano. Dal canto loro, i nuovi padroni di Damasco, per bocca di diversi esponenti di HayatTharir al-Sham, e dello stesso leader al-Jolani, hanno dichiarato apertamente che Israele non ha nulla da temere da loro e che in futuro progettano di aprire un’ambasciata a Gerusalemme. In realtà, da quanto sta emergendo, le IDF pensano assai più a una possibile guerriglia “lealista” che a eventuali problemi con i “ribelli” siriani.    

Il 9 dicembre, Muhammad al-Bashir (già “premier” del cosiddetto “Governo di Salvezza Siriano” basato nell’enclave di Idlib controllata da HTS), è stato designato capo del governo provvisorio di transizione che entro il 30 marzo 2025 dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) traghettare la Siria verso un nuovo governo. 

Fin qui i fatti di un collasso che si è consumato in appena 11 giorni. Troppo pochi perché possa parlarsi solo del cedimento dell’Esercito siriano dinanzi a una riuscita operazione militare, né spiegare l’improvviso dissolversi del regime di Damasco. Soprattutto se si tiene conto di quanto sta emergendo. Ma andiamo con ordine.

Il regime siriano

Per comprendere quanto accaduto occorre fare alcune premesse che riguardano il regime siriano. A costo di mostrarmi tranchant, dico subito che esso è stato assai più attento a consolidare e mantenere il potere del proprio clan familiare e della propria base di riferimento, la componente alawita, che gli interessi delle popolazioni che ha retto con mano di ferro. Come ho avuto modo di spiegare lungamente nel volume che ho dedicato alla guerra in Siria[i], la decisione presa da Hezbollah e dalle altre componenti dell’Asse della Resistenza di scendere in campo accanto al regime di Damasco, e di combattere per anni per sostenerlo, non fu determinata da vicinanza politica. Fede ne fa che nello scenario siriano non è mai attecchito un soggetto politico che si rifacesse alla Dottrina della Resistenza, malgrado gli sforzi e le energie profuse da Hezbollah, Iran e dalle altre componenti dell’Asse.

La Resistenza era in tutto e per tutto assai lontana dall’apparato di potere siriano, fu un atto di realpolitik: nel 2011, lasciar affondare Bashar Al-Assad sarebbe equivalso a consegnare una vittoria a quello stesso sistema di potere che da decenni dominava il Medio Oriente e contro cui la Resistenza stava combattendo da tanti anni. E qui arriviamo alle radici che hanno generato la situazione odierna. Fino al 2016 Al-Assad è stato molto attento a rispettare la Resistenza, in particolare Hezbollah e l’Iran, a cui doveva la permanenza al potere; da quel momento è iniziato un progressivo mutamento delle posizioni del governo siriano, sempre più attratto dall’orbita di Mosca e sempre più sicuro per la sua protezione; questa dinamica l’ha reso progressivamente meno disponibile verso l’Asse della Resistenza e più sensibile alle lusinghe di soggetti terzi. In altre parole, ha ritenuto d’essere troppo importante per essere abbandonato e, dunque, di poter alzare il prezzo a piacimento giocando anche in proprio.

Da quanto è emerso, questa deriva è culminata nella visita del Ministro degli Esteri emiratino a Damasco nel gennaio del 2023, visita ricambiata dal Presidente siriano nel marzo successivo. Era già noto che nel corso di quegli incontri s’era parlato della riammissione della Siria nella Lega Araba (avvenuta nel maggio successivo), della fine delle sanzioni e di massicci finanziamenti. Ciò che rimaneva nell’ombra era la contropartita richiesta, ovvero l’allontanamento dall’Asse della Resistenza. E beninteso: gli Emirati non parlavano solo per sé, erano i portavoce di un fronte assai più largo che dal Golfo giungeva a Israele (con cui avevano già da tempo normalizzato i rapporti), agli USA e anche più in là.

Da quel momento, le relazioni fra il governo siriano e l’Asse della Resistenza sono continuamente a peggiorate: il totale distacco siriano dalla guerra scoppiata in seguito ad Al-Aqsa Flood è stato eclatante ed è emerso che Damasco ha posto il veto a operazioni dal Golan, fermando l’azione delle forti formazioni della Resistenza palestinese basate in Siria. E non è tutto: malgrado il gran parlare che si è fatto del corridoio di rifornimenti da Teheran a Beirut, pochi sanno che quei canali sono stati progressivamente recisi dal governo siriano fino a inaridirsi del tutto già da diversi mesi, con l’Iran ed Hezbollah – benché perfettamente consapevoli delle dinamiche – costretti a fare buon viso a cattivo gioco per gestire la situazione e non intestarsi politicamente una rottura.

Di qui il progressivo allontanamento di gran parte delle milizie della Resistenza – le vere vincitrici del primo step della guerra siriana – e di molti degli assetti di Hezbollah e della Forza Quds. Inoltre, e non da ultimo, da quanto lasciato trapelare dopo che il regime siriano è collassato, le clamorose falle nella sicurezza della Resistenza libanese e dei Pasdaran di cui hanno approfittato i servizi israeliani e americani sono da addebitare a soggetti appartenenti al più alto livello del regime siriano. Nei fatti, la continuità dell’Asse della Resistenza era già stata recisa da diversi mesi; gli sviluppi recenti hanno solo ufficializzato una situazione che era già nei fatti.

Il ruolo della Russia…

Per comprendere la posizione della Russia e i perché del suo coinvolgimento in Siria necessita sgombrare il campo da partigianerie sterili o tifoserie da stadio – nel comprendere i processi geopolitici esse sono escluse. È vero che Mosca aveva una lunga storia di rapporti con Damasco, ma la tradizionale vicinanza fra i due governi non è stata la causa, bensì l’occasione perfetta dell’intervento russo avvenuto nel settembre del 2015. Allora la Russia era isolata a seguito dell’occupazione della Crimea e delle conseguenti sanzioni occidentali. Le sue contromisure e il successivo riposizionamento sulla scena internazionale erano a venire; a Mosca serviva un modo per uscire dall’angolo sparigliando le carte.

Intervenendo in Siria su richiesta del legittimo governo di Damasco, la Russia conseguiva molti obiettivi in un colpo solo: si assicurava basi nei “mari caldi”; occupava il vuoto lasciato dall’Amministrazione Obama in Medio Oriente e ricavava così carte pesanti da giocare su altri fronti per lei più rilevanti: già nel 2016 entrava nell’OPEC Plus, gestendo di conserva con i sauditi il mercato petrolifero (e, allora ancora di riflesso, gasiero). Inoltre, intervenendo nel teatro siriano con operazioni “coperte” e no, curava l’eliminazione dei tanti terroristi caucasici e centroasiatici che vi si erano concentrati, impedendo che tornassero in terra russa. Infine, aveva altre due ottime ragioni per installarsi nel Levante: laggiù trovava la solida (e discreta) sponda di Israele, con cui la leadership russa ha sempre intrattenuto più che solidi rapporti che, seppur screziati da baruffe più di facciata che di sostanza, hanno retto sia alle vicende della guerra in Ucraina, sia a quasi un decennio di convivenza attraverso crisi e guerre mediorientali.

E ancora, Mosca ingaggiava la Turchia in quello che quest’ultima riteneva il suo giardino di casa, in un confronto prima tempestoso (vedi l’abbattimento del Su-24 russo per 17 secondi di sorvolo d’un lembo di territorio turco), col tempo divenuto reciprocamente assai fruttuoso (l’elenco delle reciproche convenienze è lungo: il transito delle navi russe dai Dardanelli, la costituzione di un hub gasiero e le triangolazioni di merci in barba alle sanzioni occidentali, la costruzione di una centrale nucleare ad Akkuyu [nel sud dell’Anatolia], gli accomodamenti dei reciproci interessi nel Caucaso, in Asia Centrale, in Africa, perfino nei Balcani e via discorrendo). 

A seguito dell’indiscusso successo ottenuto, e del conseguente prestigio, la Russia ha ritenuto di poter controllare la regione. Ma ha commesso l’errore di pensare di poterlo continuare a fare anche se impegnata in Ucraina in una partita esistenziale che le ha assorbito capitale politico e risorse. Le leggi della geopolitica non ammettono deroghe e la Siria non è stata un’eccezione: quando avversari e competitor avvertono distrazione o debolezza agiscono e Mosca, che fino a non molto tempo fa era convinta di poter continuare a dare le carte nell’area, s’è trovata nelle condizioni di doversi riposizionare dinanzi a nuove dinamiche.

I fatti (e le indiscrezioni) dicono che la Russia abbia accettato di sacrificare il regime siriano convincendo Al-Assad a farsi da parte e il Comando di Damasco a impartire l’ordine del “tutti a casa” ogni volta che veniva imbastita una resistenza. In cambio di cosa lo dirà il tempo. In ogni caso, ha fatto assai presto ad adeguarsi alla situazione, d'altronde, nessuno degli attuali vincitori della partita siriana era – ed è – in condizione di stravincere, ma il prestigio russo nell’area ha subito un vulnus e non è ancora chiaro il destino delle sue basi in Siria. Al momento in cui scrivo le trattative sembrano ancora in corso (e non sarà affatto semplice trovare una quadra fra i tanti interlocutori che ora hanno voce in capitolo sull’area).

A parte le diverse installazioni che Mosca aveva nell’interno per il controllo del territorio, oggi inutili nel nuovo scenario, il futuro della base navale di Tartus e di quella aerea di Hmeimin non è affatto assicurato. Tartus è uno scalo su cui, sulla scorta di un accordo concluso con Damasco nel gennaio del 2017, la Russia avrebbe (il condizionale è obbligo vista la situazione) giurisdizione sovrana fino al 2066; Mosca vi ha fatto grandi investimenti che ora corrono il rischio d’essere persi. Ma se lo scalo di Tartus potrebbe in prospettiva essere sostituito da un altro porto in Libia (come si vocifera da tempo, a Tobruk o a Bengasi), diversa è la questione della base aerea Hmeimin. La Russia ha speso molto per quell’installazione realizzando una seconda pista e varie infrastrutture, ma il suo valore sta nell’essere a mezza strada con l’Africa; se venisse meno, il carico utile dei velivoli destinati in Libia – costretti ad imbarcare molto più carburante - sarebbe giocoforza assai limitato. In ogni caso, il venir meno delle basi siriane farebbe alzare il prezzo di quelle libiche; Khalifa Haftar e il suo clan familiare non si farebbero sfuggire l’occasione. Pare stia già accadendo.

…e della Turchia

La Turchia è stata l’attrice principale, retroterra e base di “Dissuadere l’Aggressione”, senza di essa l’operazione sarebbe stata impossibile. Tuttavia, Ankara, benché perfettamente consapevole del progetto e pienamente coinvolta nei preparativi a Idlib, non si è impegnata da subito, lasciando che gli altri lavorassero mentre trattava con tutti per spuntare le migliori condizioni, inserendosi alla fine per indirizzare gli eventi verso la propria convenienza. Erdogan era stato messo all’angolo da Al Aqsa Flood; quella guerra aveva polarizzato la scena fra Iran e Israele, spiazzando la Turchia e ponendola fuori dai giochi; la nuova guerra le serviva per rientrarci. E c’è riuscita. Semmai è da vedere come saprà gestire un successo assai più ampio e repentino di quanto preventivato.

Erano (e rimangono a tutt’oggi) tre le imperative esigenze turche: la prima è completare l’occupazione di una fascia di territorio profonda una trentina di chilometri lungo tutti i confini con la Siria. La seconda è costituire una sorta di area cuscinetto in cui riversare almeno una parte dei milioni di profughi siriani residenti in Turchia, che rappresentano un impellente problema di politica interna. Il collasso del regime siriano va ora molto più in là, giustificando il loro rimpatrio sull’intero territorio della Siria. Almeno in teoria. La terza è la questione delle questioni: l’eliminazione delle milizie dell’SDF egemonizzate dai curdi, ovvero dalla branca siriana del PKK, che occupavano la Siria oltre l’Eufrate gestendo i territori per conto degli USA e nell’interesse proprio.

Per centrare questi obiettivi serviva la normalizzazione dei rapporti con Damasco, che Erdogan aveva cercato da circa un anno. Ma il presidente siriano Al-Assad, reso (troppo) sicuro dall’appoggio russo (e contando a prescindere su quello iraniano) aveva posto una precondizione all’inizio delle trattative: l’impegno formale al ritiro delle truppe turche dai territori siriani che già occupavano. Per Ankara prospettiva irricevibile, meno che mai nel quadro che si preparava. L’offensiva era ormai pronta da diverse settimane, mesi: Erdogan ha cercato fino all’ultimo il via libera di Putin e la collaborazione di Al-Assad; ma la Russia, pur consapevole di quanto stava maturando, ha dichiarato che la presenza turca in Siria era occupazione militare e Al-Assad, in margine del vertice di Astana, è stato irremovibile con il Presidente turco nella sua precondizione. A quel punto Erdogan ha dato il via libera al progetto caldeggiato da americani e israeliani.

Ultima notazione - ma determinante - per comprendere la traiettoria della Turchia. S’è molto detto sul fatto che Ankara mantenga una posizione ambigua giocando su più tavoli per massimizzare i guadagni: vero, sta sfruttando al meglio sia l’appartenenza alla NATO, sia le relazioni che intrattiene con i competitor dell’Alleanza per seguire una propria agenda sempre più assertiva. Ma c’è un ma: dopo anni di esitazioni la Turchia si è volta a est, girando le spalle agli USA e all’Occidente, con cui continua a coltivare rapporti per pura convenienza contingente.

La scelta è avvenuta dopo il tentato golpe del luglio 2016 azzardato dall’Izmet di Fetullah Gulem con la piena collaborazione di americani, emiratini e sauditi. Allora furono Mosca e Teheran a dare l’avviso e sostenere Erdogan, e lui stesso, rivolto agli USA dichiarò: “Ci avete persi quella notte”. Decisione rafforzata dopo l’attacco alla lira turca lanciato dalla finanza americana nell’agosto del 2018 su input dell’Amministrazione Trump; la Turchia si salvò a stento grazie a un assegno di 15 miliardi staccato dall’emiro del Qatar dalla sera alla mattina. Da allora il governo turco ha giocato partita in proprio, gravitando sempre più verso l’Oriente (vedi la richiesta di adesione ai BRICS) e facendosi pagare sempre più caro dall’Occidente. Resta comunque il fatto che la base economica su cui Ankara fonda la sua potenza è esigua, due terzi a stento di una disastrata Italia. Si regge solo perché è ritenuta attrice utile e credibile nell’interazione fra le potenze. Un passo falso ed è crollo. 

Ruolo di Israele, USA e paesi del Golfo

Non è certo un caso che l’attacco sia partito all’indomani della tregua in Libano; per Tel Aviv, provata dal lungo conflitto che durava dal 7 ottobre dello scorso anno, era imperativo distrarre l’Asse della Resistenza e isolare Hezbollah da una profondità strategica che pur sempre manteneva malgrado gli ultimi sviluppi. Per favorire il blitz, le IDF hanno effettuato numerosi raid per colpire basi, depositi e personale della Resistenza e delle forze armate siriane, e la sua Intelligence, che ha infiltrato ai massimi livelli la dirigenza siriana, è stata determinante per lo sviluppo dell’operazione.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, il regime degli Assad non era affatto inviso a Tel Aviv; da tempo Damasco aveva cessato d’essere un problema per Israele ma, piuttosto, un asset; flussi di preziose informazioni e i veti opposti alla Resistenza per operare nel Golan ne sono ampia dimostrazione. Tuttavia, il crollo della Siria ha dato modo alle IDF di espandersi oltre confini volutamente mai definiti (Israele è l’unico soggetto politico al mondo che non abbia mai stabilito confini ufficiali) in perfetta assonanza con i deliri dei nazional-religiosi oggi al potere, che sognano più che EretzYsrael, YsraelHashlema, ovvero il “Grande Israele”, dal Nilo all’Eufrate, e Damasco è ormai a un passo.

L’interrogativo strategico che si pone ora ai vertici israeliani è piuttosto la scelta fra curdi e turchi. Ovvero, se approfondire lo storico rapporto con le entità curde, oggi con la prospettiva assai concreta d’essere nuovamente abbandonate dagli USA e travolte dalla Turchia e dai suoi proxy, oppure volgersi ad Ankara, riallacciando i legami messi in stand-by dalle conseguenze di Al-Aqsa Flood, per gestire in condominio la Siria e, più in generale, il Levante. Realpolitik suggerirebbe nettamente la via di Ankara ma, con Israele, si sa, nulla è scontato meno che mai logico. 

Per gli USA l’obiettivo era ed è indebolire l’Iran, arcinemico per tutte le sfaccettature del Deep State americano. Dei tre soggetti che esso identifica come avversari sistemici, Mosca, Pechino e Teheran, è quest’ultima che mette d’accordo tutti e, poiché è ritenuta anche la più debole, è quella su cui si ritiene di poter esercitare la massima pressione, per molti fino allo scontro aperto, per ripristinare una deterrenza ormai in pezzi dopo un’ininterrotta serie di sconfitte (l’ultima, eclatante, quella che si delinea in Ucraina). Con ciò mostrando ancora una volta l’incapacità di leggere soggetti altri, ovvero culture diverse dalla propria.

A ciò s’aggiunge la volontà di limitare l’influenza russa nella regione, quantomeno ingaggiarla seriamente per acquisire carte negoziali da giocare con Mosca su altri quadranti; e se il conflitto ucraino è troppo rilevante perché la Russia possa accettare scambi, in Africa, dove essa è in netta espansione e l’America vorrebbe tornare (anche se non sa bene come), ciò può avvenire. In ogni caso, la protezione comunque e sempre dell’entità sionista è già obiettivo ritenuto necessario e sufficiente a giustificare qualunque operazione.

Resta la questione della presenza americana nell’est della Siria; il CENTCOM vorrà continuare a tenerlo, almeno fino a quando il nuovo regime si sarà stabilizzato, ma il Comando Centrale non è la nuova Amministrazione e comunque permane un quesito: con chi rimanere? Le SDF sono una creatura degli USA innervata dalle YPG curde, ma il destino di quelle milizie è quantomeno assai dubbio e, senza di loro, le SDF sono un contenitore vuoto. Mazloum Abdi, il loro capo, sta tentando di negoziare una tregua con la Turchia ma, a ogni evidenza, è solo questione di tempo prima che Ankara dia il via libera all’Esercito e spinga le milizie dell’ENS contro di loro.

Eternamente in vendita fra i vari contendenti, i curdi hanno storicamente avuto scelta infelice, che pagano regolarmente. Sotto la passata Amministrazione Trump è già avvenuto due volte: nel 2018 con l’Operazione Olive Brunch ad Afrin e nel 2019 con Peace Spring nel Rojava; in entrambi casi gli USA hanno lasciato mano libera ai turchi; con ogni probabilità a breve avverrà ancora. 

I paesi del Golfo Persico hanno giocato un ruolo rilevante nella preparazione della crisi, che però ha poi seguito via diversa; è altresì importante rilevare che Arabia Saudita, Qatar ed Emirati hanno ciascuno voluto intervenire, sì, ma con scopi e aspettative differenti. È vero, tutti e tre i soggetti hanno trovato convivenza con l’Iran e con altri paesi dell’Asse della Resistenza (vedi Iraq), ma per tutti è tre era (ed è) importante che l’ascesa di Teheran non si risolva in egemonia nell’area. Per essere più precisi, che nessun paese la raggiunga, Turchia inclusa.

Come detto, gli Emirati sono stati essenziali nel mutare la parabola del regime siriano, ma essi, come i sauditi, volevano una cooptazione di Damasco, non un suo crollo a beneficio d’altri. Significative sono state le dichiarazioni preoccupate e il turbine d’incontri mentre la situazione precipitava assai più di quanto voluto. Solo il Qatar, grazie alla vicinanza alla Turchia che ora regge in giochi in Siria, s’è mostrato assai più tranquillo. Per lui, l’emergere di un regime spacciato per una qualche forma d’Islam politico, come che sia ispirato alla Fratellanza, è successo. La stessa Riyadh è quantomeno inquieta per l’ombra “imperiale” proiettata da Ankara sulla Siria o su quanto ne resta.

Con l’eccezione di Israele, il cui obiettivo è semplicemente espandersi, facendo buon viso a gioco più che cattivo inaspettato, emiratini, sauditi e occidentali stanno correndo alla nuova corte di Damasco, ch’altro non aspetta che accoglierli.

L’Asse della Resistenza

Abbiamo già detto come la crisi abbia solo ufficializzato l’uscita della Siria dall’Asse della Resistenza, e di come l’Iran e i nuovi padroni di Damasco si siano reciprocamente riposizionati con pragmatismo, il primo allacciando da subito rapporti coi nuovi vertici siriani, i secondi dichiarando che non avevano nulla contro Teheran. Da come si sono svolti i fatti appare evidente che Mosca e Ankara hanno trovato un’intesa sacrificando Al-Assad che ha finito per aderire all’accordo. Quanto ciò inciderà fra le tre potenze e, di riflesso, sugli equilibri regionali si vedrà a breve.

Il 23 dicembre, il vice primo ministro russo Savelyev si è recato a Teheran per incontrarsi con i vertici iraniani; ufficialmente, al centro dei colloqui c’era il completamento del Corridoio Nord-Sud. Verificare se Teheran ribadisca l’impegno a rispettare l’accordo (come peraltro dichiarato dal presidente Pezeshkian), altro non è che tastare il terreno. La prova che la crisi è superata, e fino a che punto, potrebbe venire già a fine gennaio, quando sarebbe previsto il summit per la firma dell’intesa su rapporti securitari e difesa simile a quello con la Corea del Nord. Nei fatti, il trattato sarebbe coincidenza d’interessi fra le due potenze, la stessa che si è invece divaricata sulla Siria.

A occhio poco aduso alla realtà, può stupire questa dinamica che vede potenze convergere su taluni temi e divergere su altri, ma essa è la sostanza del multipolarismo, ancor di più del policentrismo, dove i rapporti fra i vari poli (e Mosca, Teheran e Ankara lo sono) vengono dettati da coincidenze d’interessi per uno o più scopi, mai da completa sovrapposizione che può esistere, per libera volontà o gioco forza, all’interno dello stesso polo, fra chi a esso aggrega.

Del resto, per l’Asse, farsi attirare in uno scontro sanguinoso in difesa di un regime che l’aveva già abbandonato non aveva senso. Per paradossale che possa apparire, dietro le quinte sono molti gli alti rappresentanti della Resistenza che giudicano la caduta di Al-Assad un fatto tutto sommato positivo. A domanda precisa essi rispondono che la Siria era già persa, ciò che è avvenuto ha fatto finalmente chiarezza e lascia loro le mani libere per gli sviluppi futuri che già si scorgono. Ciò che si ventila è una guerra strisciante, stavolta a parti invertite, che non logorerà le forze della Resistenza ma i suoi avversari. Con altrettanta franchezza sostengono che il processo attivato con Al-Aqsa Flood non s’arresterà, ma è destinato a svilupparsi fino allo scontro finale. E che non si tratti di mere dichiarazioni formali è testimoniato dalla determinazione mostrata. È una dinamica estranea a mente occidentale, ma del tutto connaturata al contesto.

Situazione attuale e prospettive

A fine dicembre, tre settimane dopo il collasso del regime, la Siria è tutto fuorché pacificata, meno che mai unita. Mentre già USA e UE si preparano a rimuovere le sanzioni, è stucchevole la processione di leader occidentali che volano a Damasco a incontrare un personaggio come Ahmed Sharaa. L’ipocrisia ha già fatto scordare che l’uomo si faceva chiamare Abu Mohammad al-Jolani quando era luogotenente di spicco di Abu Bakr al-Baghdadi (il fu “califfo”), in Iraq. Poiché era un siriano (al-Jolani significa “del Golan”), nel 2011 venne inviato in Siria per creare una costola di Al-Qaeda che partecipasse alla guerra allora agli inizi; il gruppo si chiamò Jahbat al-Nusra. Quando nel 2013 al-Baghdadi pensò di fondere al-Nusra con l’ISI iracheno per creare ciò che sarebbe divenuto l’ISIS, al-Jolani si rifiutò; non voleva tornare al rango di subordinato e, da quanto emerso, non intendeva invischiarsi nelle trame che s’intravedevano dietro la nascita dell’ISIS.

Pagò il rifiuto: la gran parte dei miliziani lo abbandonò, attratti dal nuovo brand e dal tanto denaro che vi girava, e perse pure molte posizioni e materiali finendo per stabilirsi principalmente nella Siria nord-occidentale, riducendosi al governatorato di Idlib, sovraffollato di profughi; un’enclave che “governò” sfruttando il contrabbando frontaliero con la Turchia e ogni tipo di crimine. Con lo smantellamento dell’ISIS, al-Nusra crebbe inglobando molti dei terroristi scampati e al-Jolani pensò di cambiarle un nome divenuto scomodo: fra il 2015 e il 2017 lo mutò tre volte giungendo all’attuale HayatTharir al-Sham; un’operazione di pura facciata che in nulla aveva mutato caratteristiche e qualità del gruppo originario, appena velate da un pulviscolo di bande inglobate.

A Idlib al-Jolani ha più volte corso il rischio d’essere eliminato o rovesciato dai servizi turchi perché pensava di giocare in proprio grazie alla forza di HTS; alla fine, in grave difficoltà, ha deciso d’uscire dall’angolo facendosi strumento di Ankara e questo gli ha spalancato le porte di Damasco. Oggi, mentre riceve leader e concede interviste, è tornato al suo vero nome, Ahmed Sharaa, per lasciarsi dietro il suo passato criminale. È vergognoso il modo in cui l’Occidente e il mainstream mediatico trattano ora dei terroristi spacciandoli da “insorti”, “oppositori” d’un governo iniquo, scordando che fino a qualche anno fa l’opinione pubblica mondiale veniva mobilitata contro quella stessa gente. E non è finita.

Per ridare verginità e ruolo a bande d’assassini, riconosciuti tali da tutti fino a ieri, il 24 dicembre è stato annunciato un accordo che scioglie le milizie e le ingloba nelle Forze Armate siriane. Che gruppi ostili, ferocemente avversi, possano integrarsi è quantomeno dubbio, come è dubbio che riconoscano un’unica autorità. Ed è altrettanto dubbio che tutti gli attori - così diversi - coinvolti in Siria riconoscano al-Jolani/al-Sharaa come proprio rappresentante; resta il fatto che la Siria oggi appare divisa fra aree d’influenza ancora tutte da determinare, lievito di nuovi scontri.

La ripresa della guerra è prospettiva più che probabile, certa: nel governatorato di Latakia si sono già registrati pesanti scontri fra forze lealiste e i “ribelli”. Il comandante della 25^ Divisione ha annunciato che i suoi uomini combatteranno contro i miliziani a prescindere dalla caduta di un regime da cui si sono sentiti traditi. Dichiarazioni simili ha rilasciato Maher Al-Assad, passato in Iraq con alcune migliaia di elementi della sua 4^ Divisione. Dal canto loro, i “ribelli” annunciano l’avvio di grandi operazioni per eliminare ogni resistenza, in particolare sulla costa. Sta già avvenendo. Come detto, si prepara la ripresa di un conflitto mai cessato. Sarà l’ennesimo buco nero sulle sponde orientali del Mediterraneo; una Libia 2.0, ma assai più pericolosa. E sarà pure tragicamente ridicolo, grottesco, vedere l’Occidente riallacciare rapporti con le stesse bande che ha raccontato d’aver combattuto in passato, magari aiutandole contro i nuovi cattivi, i “lealisti” senza Al-Assad. Ma tant’è, ci hanno abituato a tutto.  



[i]Ardizzone, Salvo; “Medio Oriente. La guerra in Siria. La Resistenza Islamica Palestinese”; Arianna Editrice, 2024.