L’asina che parlò e altre incredibili storie
di Livio Cadè - 04/04/2021
Fonte: Ereticamente
“Credimi, nessuno può vedere il regno di Dio se non nasce nuovamente”.
“Poco per sapere e molto per gioire è concesso ai mortali”. Hölderlin non dice quanto ci è dato per soffrire. Di certo, quel poco sapere che ci è concesso non basta a lenire affanni e dolori. In questa vita, credere è balsamo molto più efficace del sapere. Perciò crediamo che qualcuno ci ami, che un nostro sogno si realizzerà, che le nostre sofferenze o le nostre virtù verranno ripagate, forse in una vita futura. Non possiamo dire onestamente di saperlo, eppure ci pare di possedere alcune intime certezze. Camminiamo sul “tenebroso abisso” in precario equilibrio sul filo teso delle nostre credenze.
Ma senza il bilanciere della ragione, che ci permette una miglior stabilità, cadremmo nell’abisso. La logica pone alla fede dei limiti oltre i quali non è lecito andare. Possiamo credere qualcosa se ciò non entra in conflitto col nostro sistema complessivo di credenze. Occorre cioè che le nostre credenze obbediscano a un ordine interno, non siano in contraddizione tra loro ma formino un insieme coerente. In caso contrario il nostro equilibrio intellettuale verrebbe minacciato dal caos, da una drammatica dissociazione interiore. Ci è concessa una certa tolleranza per l’assurdo, ma solo se gli concediamo spazi molto ristretti del pensiero.
Credere all’assurdo è invece il fondamento su cui si è basata per duemila anni la fede del popolo cristiano. “Et sepultus resurrexit, certum est, quia impossibile” (e, una volta sepolto, risorse, questo è cosa certa, proprio perché è impossibile). La storia di un uomo che risorge dalla morte sarebbe compatibile col nostro ordine mentale se esprimesse un’allegoria della rinascita primaverile o una trasformazione iniziatica. Attis, Osiride e altri richiamati dalla morte, sono per noi semplici miti. In quanto tali, non disturbano la coerenza sistematica del nostro pensiero. Ma di Cristo diciamo che è risorto in senso storico ed empirico. È un fatto che non possiamo accettare senza distruggere il fondamento delle credenze naturali su cui poggia la nostra esistenza.
La religiosità dell’Oriente trabocca di racconti mirabolanti, fatti prodigiosi e incredibili. Possiamo leggerle come fiabe che hanno per l’anima valore maieutico, son levatrici di simboli e immagini. Anche l’agiografia cristiana narra spesso di prodigi ma, a differenza di Tertulliano, non deduciamo dall’incredibilità di queste storie la loro realtà. Siamo liberi di interpretarle, con credulità infantile o con gli strumenti di un’esegesi più colta. Credere che San Francesco da Paola traversò realmente lo stretto di Messina camminando sulle onde non fa di me un cristiano migliore, così come considerarla una leggenda non mi rende un apostata. La resurrezione della carne, prima quella di Cristo e infine di tutti i defunti, è invece dogma vincolante, sigillo posto sulla coscienza di ogni buon cristiano di modo che, sigillata e chiusa, divenga impenetrabile al dubbio. Bisogna credervi senza riserve, anche se ciò comporta un brutale sacrificium intellectus.
È normale che la ragione ponga la realtà storica e l’affabulazione mitologica su due piani distinti, mentre la fede spesso le intreccia e le confonde. Una mente razionale non crede che realmente l’asina di Balaam si mise a parlare; che bastò il suono di qualche tromba a far cadere le mura di Gerico; che Giona visse per tre giorni nello stomaco di un pesce o che Giosuè fermò realmente il sole e la luna. Quanti cristiani più o meno dotti credono che un serpente reale sedusse Eva con argomenti sottili, o vedono nella Genesi la cronaca di fatti reali? Il problema è capire cosa significhi reale. La moderna mentalità scientifica dà a questo termine un’accezione angusta e arbitraria. Potremmo discuterne all’infinito – e temo infruttuosamente. Ma in sostanza io non credo si possa dire che Cristo realmente risorse come diciamo che Napoleone morì a Sant’Elena. È un reale di diversa natura. Tuttavia, credere nella resurrezione storica di Cristo è per la Chiesa un dogmatico sine qua non.
Un buon cristiano deve dunque credere l’incredibile. Non si tratta semplicemente di rivedere in un’altra vita le persone care che abbiamo perso, sogno che tutti palesamente o nascostamente coltivano; dobbiamo credere che un giorno i loro cadaveri torneranno in vita. Ma a me pare un tradimento verso sé stessi forzarsi a credere ciò che non si può credere. O, con una sorta di passiva acquiescienza, astenersi dal dubitare. Preferisco un onesto scetticismo. Meglio restare perplessi, o rifiutare l’assurdo senza compromessi, che ignorare l’insostenibile contraddizione, costringendo fede e ragione in un abbraccio ingrato e soffocante. Da questo amplesso artificioso, io credo, dipende quell’impressione di ipocrisia, di affettazione, che spesso si avverte in certe catechesi.
Anche le religioni orientali sono ricche di commistioni tra mito e realtà: Gautama fu concepito dalla madre in modo verginale, dopo aver sognato un elefante bianco che entrava in lei. Appena partorito, il Buddha camminò e si mise a predicare, una pioggia di fiori cadde dal cielo, gli Dei vennero a rendergli omaggio; Lao-Tse uscì dal fianco della madre dopo ottantuno anni di gestazione, già vecchio, con la barba e i capelli bianchi ecc. Ma nessun orientale mediamente istruito crede che tali fatti siano accaduti realmente. Nondimeno, li ammette e li rispetta, in quanto espressione di una realtà simbolica, non esprimibile con concetti ordinari.
Se non troviamo nelle vicende del Buddha o di Lao-Tse riferimenti alla resurrezione è perché questo comporterebbe un non sense dottrinale. Non potrebbe infatti risorgere senza contraddirsi chi per tutta la vita ha predicato l’estinzione della brama di vivere o il fluire sempre mutevole del tutto. Del resto, per Buddha o Lao-Tse la morte non è un nemico da sconfiggere ma l’anello di una lunga catena di processi naturali. Anche gli Dei, dopo aver goduto per lungo tempo la beatitudine di una vita celeste, vedono i fiori delle loro ghirlande appassire, segno che resteranno nuovamente impigliati nella ruota delle rinascite e delle morti. L’orientale infatti trova grottesca l’idea della resurrezione, ma crede nella trasmigrazione delle anime. Il teologo occidentale pensa per converso che la reincarnazione sia un’idea assurda o un semplice mito, mentre gli pare credibile che i morti resuscitino.
Nell’ottica cristiana la morte è la tragica conseguenza del peccato originale che grava come una maledizione sull’universo intero. Risorgere evoca dunque una redenzione, è restitutio ad integrum e annuncio di una riforma escatologica che riporterà il Regno di Dio in terra. Gesù resuscita tre persone. Ma prima di lui i profeti Elia ed Eliseo avevano già operato prodigiose resurrezioni. Lo stesso faranno gli apostoli. In tutti questi casi si tratta però di una restituzione temporanea della vita con un miracolo che non impedirà ai resuscitati di morire ancora. Cristo invece ritorna dalla morte con un corpo trasfigurato, eterno e definitivamente vittorioso.
È un corpo che sfugge alle leggi fisiche comuni, che può attraversare i muri e sparire tra le nubi. Questo potrebbe far pensare a un’entità sottile, eterica, che sopravvive alla morte fisica. In realtà, anche Gesù pare avere della resurrezione un’idea smaterializzata: «… quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti … sono uguali agli angeli». Risorgere sarebbe l’uscire dalla condizione di “figli dell’uomo” per entrare in quella di “figli di Dio”. Non tutti ne saranno degni e non tutti quindi risorgeranno. E i risorti vivranno non in questo ma in un altro mondo.
Le dottrine gnostiche attribuivano alla resurrezione un valore iniziatico, di risveglio, rito di passaggio dalla vita psicofisica a quella pneumatica, dalle tenebre alla luce. Nel Vangelo di Filippo è scritto: “Coloro che affermano: «Il Signore è morto e (poi) è risuscitato», sbagliano. Egli, infatti, prima risorse e (poi) morì. Chi non ottiene prima la risurrezione, costui morirà”. A questo sembra alludere Gesù stesso quando, nel dialogo con Nicodemo, parla di una rinascita “dall’alto”, dallo Spirito e non dalla carne. La resurrezione viene così privata della dimensione fisiologica e posta su un piano metafisico. Questo presuppone da un lato che la resurrezione non implichi la morte del corpo ma quella del vecchio ‘io’, dall’altro che il corpo biologico di Cristo sia mortale, come quello di ogni altro uomo nato su questa terra. Anch’esso, tratto dalla polvere, torna alla polvere.
Ma il corpo con cui Cristo si presenta a Tommaso mostra consistenze e ferite carnali. Qui fede e ragione sono inconciliabili. La nostra intelligenza non può credere che la foglia ritorni al ramo da cui è caduta. Ciò nonostante, prescindere dalla resurrezione carnale di Cristo sembra far crollare l’intero edificio della nostra fede. «Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede.» Retorico giro di parole in cui Paolo non afferma che Cristo è risorto ma che, in caso contrario, la fede in Cristo non avrebbe fondamento. Per Paolo le azioni e le parole di Gesù perderebbero dunque il loro senso ultimo se Cristo non fosse resuscitato; non basta aderire al discorso della montagna, amare Dio e il prossimo, per dirsi cristiani. Essenziale è annunciare la Resurrezione dei morti. Perciò San Seraphim di Sarov accoglieva le persone esclamando : «Gioia mia, Cristo è risorto!»
La morte, vista come esito di una natura decaduta e corrotta, viene cancellata. Ma questo, se inteso stricto sensu, infligge una ferita profonda alla realtà, creando una lacerazione tra spirito e natura. Si distrugge l’armonia degli eterni cicli cosmici, il perpetuo nascere, crescere, decadere, morire e rifiorire delle cose. Il sole risorge dal sepolcro dell’oscurità per annunciare un giorno senza notte, una luce senz’ombre. Nella Pasqua lo spirito pare trionfare e la morte venir finalmente debellata. Ma con lei viene sconfitta la Natura che ci è madre, umiliata dalla resurrezione di Cristo. Dovrà esser sostituita con una nuova natura, nuova terra e cieli nuovi, un mondo in cui la naturale dialettica dei contrari, che sostiene l’essere e le sue epifanie, viene abolita.
Il cristianesimo manifesta un’invincibile riluttanza ad accogliere pienamente la realtà naturale, in cui vede terreno di coltura del peccato. Questo lo porta a teorizzare vie di salvezza antipatiche e antibiotiche, nemiche delle passioni umane e ostili alle pulsioni vitali, a ratificarle in una moralità innaturale da contrapporre alle insidie di quella ‘carne’ che poi, paradossalmente, vorrebbe resuscitare e perpetuare. La santità coincide spesso con un ascetismo che è mortificazione della natura. Non appare buona e necessaria l’armonia col creato ma la sua sottomissione all’etica e alla volontà. È una visione tesa al dominio delle cose, in cui la religione stessa diviene strumento di potere.
Così anche la resurrezione esibisce una palingenesi ottenuta sovvertendo l’ordine naturale. Lo spirito sembra calare in modo violento nella vita per occuparla con forza barbarica. La natura viene estromessa, la sua giurisdizione revocata. Ma spirito e natura sono aspetti di un’unica Realtà, inseparabili come l’area e la circonferenza di un cerchio; se li dividiamo, diventano mere astrazioni. L’essere si scinde in due entità incomunicabili, forse organiche e coerenti in sé stesse ma incapaci di integrarsi. Si rompe l’unità profonda della coscienza. Fede e ragione divengono strutture psicotiche refrattarie alla realtà.
Come Tommaso, che crede a ciò che tocca e vede, la mia fede non può separarsi dalla percezione di una realtà in sé unitaria e coerente, che i sensi del corpo e dell’anima condividono. La resurrezione della carne è invece un’antinomia ontologica che la mia coscienza non può accogliere senza una profonda scissione interiore. La mia difficoltà a credervi non si basa su un superficiale positivismo. Penso che nella vita si debba veleggiare verso l’ignoto, lasciandosi alle spalle il porto sicuro del conosciuto. Ampi territori della mia coscienza sono occupati dal mistero. Io non escludo a priori che un uomo possa camminare sulle acque o, come santa Teresa d’Avila e san Giovanni da Copertino, volare, o poggiare coi piedi nudi sulle braci ardenti senza scottarsi.
Posso credere vi siano gerarchie di fenomeni che ancora non comprendiamo, espansioni dello spirito che allargano gli abituali confini della natura o semplicemente trascendono le nostre conoscenze. Potrei credere in un corpo umano che vive per secoli, ritardando l’usura del tempo, che vi sia una vita oltre questa vita, abitazioni infere o celesti, o addirittura che un morto risorga. Su queste cose potrei esprimere la mia perplessità o sospendere il giudizio. Ma non posso credere che qualcosa fatto col cibo della terra non ritorni prima o poi a esser terra. Non posso concepire un uomo immortale benché sostanziato di attributi mortali. Come non mi basterebbe immaginare un Dio ‘onnipotente’ per accettare l’assurdità di un triangolo con quattro lati.
Nella resurrezione di Cristo io colgo una ricchezza inesausta di significati spirituali, ma tale abbondanza di senso si perde nel momento stesso in cui ne faccio una vicenda storica. Allora ogni elemento significativo – il sepolcro vuoto, il sudario abbandonato, gli angeli, lo scetticismo di Tommaso, la cena di Emaus, l’ascensione al cielo – precipita nella banalità dei fatti, della loro contingente concretezza. Un magma infuocato di simboli, che trascina con sé i nostri destini, si rapprende in una fredda costruzione dogmatica.
Come affrontare un simile problema? Non è un teorema geometrico, cui applicare un’analisi razionale. Se cerco di parlarne, io sento in me pulsare un sentimento ‘religioso’. È una pulsione calda e radicale, che spinge a legare e unificare le parti in un tutto. Seguendo questa intima tendenza, che è sostanza del desiderio e dell’amore, noi vediamo infine che gli opposti coincidono e che Tutto è Uno. La natura ci appare allora specchio del divino. Naturale e spirituale non sono dimensioni divergenti ma si fondono senza soluzione di continuità. Quindi, una coscienza integra comprende in sé logica e intuizione, ragione e fede, come categorie della conoscenza che non possono entrare in conflitto. Tra loro non può esservi contraddizione più di quanta ve ne sia tra diversi organi di senso, tra il sentire, il vedere o il toccare.
Per questo non credo che un’asina possa realmente parlare, neppure se lo trovo scritto nella Bibbia. Se lo facessi perderei la mia integrità interiore e la mia dignità. La stessa antitesi tra sensuale e intellettuale, tra naturale e spirituale, deve per me risolversi in un’unità senza residui. Si tratta di un intimo accordo, corde che vibrano insieme, ma anche cordis, pulsazione ritmica della vita. Perciò chiamo cuore la loro armonica fusione. Se al contrario una parte ci induce a rinnegare l’altra significa che s’è prodotta in noi una spaccatura, un infarto della coscienza. Profano, o diabolico, è per me tutto ciò che rompe questa unità e crea discordia nelle sue parti; sacro è ciò che la ricompone.
Questa unità non è però statica e chiusa in sé stessa. In lei tutto continuamente muta, eppure identità e cambiamento si conciliano misteriosamente, come in un essere che da bimbo diviene ragazzo, adulto, vecchio. V’è nella Realtà una costanza che raccoglie l’eredità del passato, una memoria vitale che lega le forme mutevoli come un filo tiene insieme le perle. Questo fa sì che ogni essere sia eterno mentre in lui tutto muta. Tutto ciò che ha inizio ha una fine, ma ogni fine porta con sé i semi di un nuovo inizio. La resurrezione contraddice invece il sensus finis che accompagna ogni nostra esperienza, è antidoto alla paura dell’annientamento personale. Ci induce a immaginare la paradossale perpetuazione di una forma legata a contingenze storiche. Vorremmo eternare questo io, la cui esistenza dipende da un ambiente mutevole e deperibile, fissandolo in un’immutabile essenza corporea, come congelandone il flusso. La resurrezione si fa così mallevadore di un contratto immaginario tra l’uomo e la vita, assicurandogli il godimento di un beneficio perpetuo.
Risorgendo, i gobbi avranno dunque la schiena dritta, i bambini acefali, morti nella culla, saranno adulti e con un cervello? Ognuno, in cambio del suo essere reale, in cui limiti e pregi sono inseparabili, riceverà un essere ideale, senza difetti. Corpi divorati dai vermi, divenuti vermi, riavranno la loro forma umana, di uomo o di donna e così resteranno per sempre. Ma com’è possibile che una psiche transeunte e un soma instabile si ritrovino alla fine dei tempi e si ricongiungano in una unità psicosomatica immutabile? San Paolo afferma che siamo seminati corruttibili e risorgiamo incorruttibili. Non dice quale sia il prezzo di questa incorruttibilità.
Un amico teologo un giorno mi confessò: “Non riesco a immaginare tormento più grande, inferno più buio, dell’eternità. Preferirei rinascere come maiale piuttosto che durare in eterno”. È comprensibile che proiettare in un’astratta eternità la sua personalità concreta precipiti l’uomo nell’angoscia, sospeso tra uno stillicidio di istanti senza fine e una statica fissità. Condannato a una continua replicazione della sua autocoscienza o imprigionato nell’eternità come una pietruzza in un blocco di cemento. La resurrezione di Cristo e l’idea di una vita senza fine estraggono dalla carne il pungiglione della morte per sostituirlo con un pungiglione assai più velenoso, l’incubo di un tedio immortale.
La vita si mantiene attraverso cicli di creazione, distruzione e ricreazione. La morte è ciò che rende possibile l’immortalità, attraverso un perenne rinnovamento. Così, anche la coscienza ha bisogno di periodiche immersioni nel Lete. Ma è difficile per l’uomo accettare l’oblio di sé come condizione necessaria per rinascere. Vorrebbe trasumanare restando umano, sciogliersi dalla propria natura mortale senza capire che tutto ciò che ama le è indissolubilmente legato. Non si può render immortale questa vita e serbarne la naturale bellezza, l’incanto meraviglioso e terribile. La vita ha bisogno della morte come il mattino ha bisogno della notte. La soddisfazione non può esistere senza bisogno, o il nostro desiderio senza una mancanza. Una continua pienezza, che non manca di nulla, coinciderebbe con un vuoto assoluto.
La resurrezione pone per altro un duplice paradosso. Sembra fare del cristianesimo una religione della carne, assimilabile a concezioni dionisiache. Ma quest’idea è contraddetta da un moralismo rigido e costellato di oscure fobie. Inoltre, l’enfasi posta sulla carne risorta finisce con l’oscurare la stessa luce dello spirito. Cristo dice a Nicodemo: «Dalla carne nasce carne, dallo Spirito nasce Spirito». Il significato del “nascere due volte” è qui spirituale. Ma la resurrezione di fatto fa rinascere la carne. La fecondità misteriosa dello spirito è surrogata da una rigenerazione fisica esteriore. Questa doppia contraddizione comporta un tradimento tanto delle ragioni dello spirito che della carne.
Infine, si può liquidare ogni assurdità dicendo che “a Dio nulla è impossibile”. Ma questa formula rassicurante, che rende credibile l’incredibile, in realtà distrugge la nostra fiducia in un cosmo ordinato, retto da un Logos che non può contraddirsi. Ci consegna a un universo caotico, persi nel guazzabuglio dei trucchi e delle illusioni di un mago volubile, che può ingannarci o persino annichilire sé stesso. Questo rende impossibile ogni discorso sensato. Non dobbiamo stupirci se il sole e la luna si fermano o se un’asina si mette a conversare con noi.
Negando l’ordine che unisce spirito e natura, si nega la libertà dell’uomo. Non la libertà di adeguarsi o di ribellarsi a qualche codice di farisaica moralità, ma la vera e radicale libertà dell’essere di autodeterminarsi, di rinnovare o trascendere liberamente le proprie forme. Rimane un uomo che è costretto a nascere, senza che ne abbia mai espresso il desiderio; costretto a patire tutti gli incerti e le pene di una vita che non ha scelto; costretto a morire e a lasciare tutto ciò cui si era legato; costretto infine da trombe squillanti a risorgere per essere giudicato e costretto a sofferenze o a piaceri eterni. Non “figlio di Dio” e Suo erede, ma un essere impotente legato ai ceppi di un arbitrio divino.
Io credo invece nella libertà dell’uomo. Vi è in lui assai più di quanto gli occhi possono vedere o la mente concepire. Per questo vi sono momenti in cui l’uomo sa di non poter morire, perché v’è qualcosa in lui che non è mai nato. In realtà, nulla lo ha creato, e su questo si fonda la sua libertà. Infatti, solo ciò che è increato è eterno, libero e indistruttibile. I miei discorsi si perdono in questo Oltre indicibile, che intuisco e in cui credo senza bisogno di prodigi straordinari. Quello che vedo ogni giorno è per me un prodigio sufficiente. Mi basta l’ordinario miracolo della vita. Amo l’umile grazia di un fiore che sboccia e appassisce. Mi insegna a dire addio. Educa al distacco, soprattutto da sé stessi. Ma nella sua caducità v’è un profumo che permane. Nel suo sfiorire traspare un’eternità nascosta dietro il velo dell’effimero, “e tanta perfezione s’aduna nella vita che l’alto sogno umano vi s’adagia”.