L’attualità della politica estera italiana in Medio Oriente (1955-1990)
di Roberto Valtolina - 17/10/2024
Fonte: Roberto Valtolina
Il 12 settembre è uscito The masquerade reloaded[1], libro che riesplora ciò che è accaduto in Italia dalla formazione delle Brigate Rosse agli strascichi del delitto Moro. La trama dell’inchiesta è innervata da Aldo Moro, Bettino Craxi e Giulio Andreotti, figure tramite le quali l’autore di queste righe prende spunto per analizzare il filone aureo della diplomazia e della politica estera italiana dispiegatosi dalla seconda metà degli anni ‘50 ai primi anni ‘90 del XX secolo. L’approfondimento che segue intende illuminare la sublime intelligenza politica dell’ex ministro delle Finanze Rino Formica, che in una lettera spedita nel 2018 al membro della Commissione Moro 2 Gero Grassi individua le radici dell’attuale male politico italiano alla sconfitta rimediata - durante il sequestro Moro - dagli esploratori italiani di un ordine multipolare alternativo a quello vigente.
Dunque, gli anni della segreteria democristiana di Aldo Moro si dispiegano dal 1959 ai primi giorni del 1964 e coincidono in buona misura con la terza legislatura repubblicana, un quinquennio di transizione per l’azione internazionale dell’Italia. L’apertura a sinistra della Dc modifica equilibri quasi decennali, rendendo più stretto l’intreccio tra politica interna ed estera e accentuando il ruolo dell’Italia come Paese di frontiera, all’incrocio tra le direttrici Est-Ovest e Nord-Sud delle relazioni internazionali. Il ruolo dell’Italia è rafforzato da novità come i primi successi della costruzione europea, l’avvio della decolonizzazione e le mutate condizioni per il rapporto con l’Urss e il blocco comunista. L’ingresso nell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1955 e la crescita impetuosa dell’economia nazionale negli anni del boom, spingono l’Italia verso la ricerca di mercati di sbocco. Per gli anglo-americani l’area mediorientale, composta da ex colonie anglo-francesi, è decisiva per limitare l’influenza sovietica: nel 1952 la Turchia entra nella Nato e nel ‘55 Turchia e Iraq firmano il Patto di Baghdad, sostenuto da Stati Uniti e Inghilterra in ottica anti-comunista. Consapevole del contesto ma conscio che il Mediterraneo non è un oceano che divide nettamente il nord dal sud e l’ovest dall’est e dunque richiede forme di collaborazione tra le sue sponde, il primo ministro Dc Amintore Fanfani sgancia una parte della politica estera italiana dall’atlantismo degasperiano e intraprende una politica mediterranea e mediorientale che cerca un modus vivendi fra Israele e i Paesi arabi. È una politica di equidistanza che segue sia l’ispirazione di Giorgio La Pira, che auspica la coabitazione fra le religioni del Libro, sia la necessità di fornire sostegno e legittimazione istituzionale alla politica energetica dell’Eni di Enrico Mattei e al suo tentativo di rompere il cartello petrolifero delle «Sette sorelle», per acquisire fonti autonome di approvvigionamento di petrolio greggio. L’Italia vuole creare una propria area di influenza: sposa la causa Terzomondista e si presenta agli Stati appena nati come un partner affidabile e rispettoso.
Il preambolo dell’asse Fanfani-Mattei è, nel ‘55, l’elezione al Quirinale di Giovanni Gronchi, molto legato a Mattei. È il Presidente della Repubblica a legittimare e a favorire la politica dell’Eni in Medio Oriente: Gronchi non si fa remore di impiegare il proprio ufficio per esternare le proprie vedute politiche e realizza con Fanfani un’alleanza programmatica in politica estera. Mattei aveva fondato il 10 febbraio 1953 l’Eni, un’azienda che riunisce come controllate tutte le partecipazioni statali che gestiscono gli idrocarburi, tra cui Agip, Snam, Anic, Stanic, Romsa ed Ente nazionale metano. Nel nome della pace e della cooperazione economica per lo sviluppo, Mattei apre al Medio Oriente, alla Russia, alla Cina e all’Iran, con i suoi accordi diretti coi Paesi fornitori, a cui offre condizioni molto più favorevoli rispetto alle Sette Sorelle. Da ministro degli Esteri, Moro si avvarrà di questi legami quando, nel maggio 1971, si recherà in Libia dal raìs Gheddafi: l’accordo da 42 miliardi di lire nato fra il governo libico e la Snam Progetti (società dell’Eni) per la costruzione di una raffineria in Libia consentirà alle aziende pubbliche e private italiane di assumere un ruolo importante nell’economia libica. Nel 1955 l’Eni attua la sua prima rilevante operazione estera in Egitto, con una quota di partecipazione nella International Egyptian Oil Company, e due anni dopo acquisisce il 51% della Compagnie Orientale des Petroles d’Egypte, operante soprattutto nel Sinai, contribuendo a realizzare l’oleodotto Suez-Cairo. In Egitto esordisce l’innovativa formula Mattei, basata sulla creazione di una società paritetica fra Paese produttore e Paese consumatore, con il secondo (in questo caso l’Italia) che anticipa le spese necessarie per la ricerca degli idrocarburi. Nel 1957 l’Eni esporta questo modello di accordo in Iran e nasce una società paritetica tra l’Agip mineraria e la National Iranian Oil Company. Dal 1957 al 1962 Mattei punta sulla distribuzione in Africa, accordandosi con i vari governi nazionali su ricerche, estrazione, raffinazione e distribuzione. L’Eni fa circolare società per la distribuzione dei carburanti in Marocco, Tunisia, Ghana. Inutile segnalare qual è il blocco di Yalta a giovarsi della morte di Mattei, avvenuta il 28 ottobre 1962, per il sabotaggio del suo aereo nel cielo di Bascapè. L’evolversi della situazione mediterranea e mediorientale si salda con la nascita del movimento dei «non allineati». Fanfani esalta il ruolo delle Nazioni Unite, che nella sua visione rappresentano un foro cruciale per assicurare la risoluzione concertata delle controversie internazionali e per superare la politica di potenza, in vista dell’uguaglianza tra i soggetti internazionali. All’ottavo Congresso nazionale della Dc, tenutosi a Napoli dal 27 al 31 gennaio 1962, Moro parla di «vincoli di amicizia e di collaborazione con altri popoli particolarmente vicini per storia, civiltà, interessi comuni all’Italia, soprattutto nell’America latina e nel bacino del Mediterraneo».
Lo sviluppo moroteo della linea Fanfani-Mattei si deve all’esito negativo, per la Dc e per il centro-sinistra, delle elezioni 1968: Moro perde il ruolo di leader Dc e vive una parentesi di emarginazione politica. Ma nell’agosto ‘69 Moro diviene ministro degli Esteri nel secondo governo Rumor, carica mantenuta fino alle elezioni del 1972. Nel quadriennio, Moro aggiorna le posizioni che esistono in seno alla struttura diplomatica italiana, all’epoca brillantemente rappresentate da Roberto Ducci e Roberto Gaja. Il favore verso la diplomazia multilaterale e la cooperazione internazionale, il sostegno al processo d’integrazione europea, lo sforzo di costruire una rete di rapporti economici e politici con l’Unione Sovietica e i regimi limitrofi e il delinearsi di un orientamento filoarabo nell’azione italiana in Medio Oriente sono indirizzi strategici che Moro assimila come linee guida della sua azione di ministro. Al centro delle preoccupazioni morotee c’è la questione mediorientale. Il politico di Maglie sostiene gli sforzi di mediazione ispirati dalle Nazioni Unite per applicare la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza: oltre alla libertà di circolazione nelle vie d’acqua internazionali e una soluzione al problema dei rifugiati, chiede a Israele di ritirarsi dai territori occupati nel 1967 e afferma la necessità che lo Stato ebraico e gli Stati della regione ottengano garanzie di rispetto della propria sovranità territoriale. Volendo tenere aperti i canali di collaborazione con gli Stati arabi moderati come il Libano e la Giordania, Moro pensa che il conflitto arabo-israeliano vada controllato limitando gli armamenti presenti nella regione. Nella primavera 1970 l’Italia presenta un progetto di embargo sulle forniture in Medio Oriente, per controllarne l’afflusso tramite l’istituzione di una Commissione di controllo Onu composta dai grandi Paesi produttori: Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia, Italia, Cecoslovacchia, Ungheria, Belgio e Svezia. La proposta italiana cade nel vuoto per lo scetticismo statunitense e delle altre potenze. Una situazione molto simile maturerà a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, quando gli Usa avverseranno Andreotti per la politica di distensione con la Russia di Gorbačëv e viene eletto George H.W. Bush, candidato delle potenze internazionali delle industrie di armamenti.
La politica mediorientale di Moro assume coloriture ancor più filoarabe: paradigmatico è il rifiuto italiano di concedere agli Stati Uniti la base di Sigonella per trasferire una fornitura di aerei F-4 Phantom ad Israele, nei primi mesi del 1971. Dopo la guerra dell’ottobre ‘73, le minacce degli Stati arabi e la crisi petrolifera, in Italia il terrorismo palestinese sparge sangue: il 17 dicembre 1973 un attentato compiuto da Settembre nero colpisce un aereo Pan Am all’aeroporto di Fiumicino: 32 i morti. Il 23 gennaio 1974, nel suo discorso alla Commissione Esteri del Senato, il ministro Moro afferma che Israele deve ritirarsi senza porre condizioni dai territori conquistati nel ’67 e auspica la tutela dei «diritti nazionali del popolo palestinese», che cerca migliori condizioni economiche e «una patria». È il salto di qualità nelle relazioni italo-palestinesi che porta al “Lodo Moro”, una politica attuata dai vertici delle Istituzioni italiane: i terroristi palestinesi transitano in Italia (anche provvisti di armi) rinunciando ad azioni terroristiche. Una prima fase informale è gestita dai nostri Servizi dal ‘69 al ‘73, su iniziativa del Ministero degli Esteri e il sostegno dei dicasteri dell’Interno e della Giustizia; la seconda fase, più formale, è sviluppata dalla Farnesina dal ‘74. Il preambolo del Lodo Moro è da ricondurre all’azione di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore che alla fine degli anni ‘60 si legò a George Habash e al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, finanziando - con il benestare sovietico - tre forniture di armi destinate alla resistenza palestinese. È da ricondurre alla complessità del suo approccio l’ostilità mostrata da Henry Kissinger e, più in generale, da Washington, nei confronti di Moro. Il rifiuto dei metodi della politica di potenza che definirono l’approccio dello statista di Maglie in ambito estero era inconciliabile con l’«arroganza della fortuna» e del potere che, secondo la definizione di Ducci, qualificò l’azione degli Usa di Nixon.
È incontrovertibile l’inconciliabilità tra le posizioni di Bettino Craxi e Giulio Andreotti in merito al sequestro Moro. Eppure, l’accordo politico intessuto dal leader Psi e dal leader Dc dopo il 9 maggio 1978 trova la sua migliore espressione nel rinnovo dei motivi profondi della politica estera morotea. I due politici vogliono fare dell’Italia l’attore geopolitico cruciale per l’avvio di un rinnovato clima di distensione tra Est e Ovest, venuto meno per lo scoppio, tra il 1977 e il 1979, della “seconda Guerra fredda”, provocata dalla volontà sovietica di installare i missili SS20 a raggio intermedio, puntati verso Ovest, al fine di ottenere una superiorità strategica in Europa. Nel ’79, la Nato replica installando gli euromissili, soprattutto sul territorio italiano, e il quadro internazionale peggiora: a dicembre l’Urss invade l’Afghanistan, gli Usa boicottano i Giochi Olimpici di Mosca del 1980, l’amministrazione Carter impone l’embargo sull’esportazione in Urss di prodotti agroalimentari e chimici; in Polonia, nel dicembre ‘81, c’è il colpo di Stato del generale Jaruzelski.
Dall’agosto 1983 all’aprile 1987 Craxi Primo ministro e Andreotti ministro degli Esteri conducono una saggia politica estera che realizza un moderato atlantismo non servile agli Stati Uniti. Per le sue relazioni con l’Urss Andreotti è il primo ministro degli Esteri occidentale a essere ricevuto dal Segretario del Pcus Konstantin Černenko dopo la morte del direttore del Kgb Jurij Andropov, il 23 aprile 1984. Nel solco di queste feconde relazioni il governo Craxi ottiene il principale risultato dell’azione diplomatica dispiegata. Nell’aprile 1985 il leader del Psi, primo premier di un Paese Nato a incontrare il futuro padre della perestrojka Michail Gorbačëv (il mese prima eletto segretario generale del Pcus), saluta con un’apertura di credito la proposta sovietica di dilazione sull’installazione degli SS20. A Mosca, Craxi e Gorbačëv discutono di prospettive europee per quasi 4 ore e pongono le basi per lo sviluppo di nuove forme di cooperazione culturale, scientifica ed economica tra Italia e Urss, il cui leader ribadisce il senso di appartenenza alla comune casa europea. Nel settembre ‘85, al diplomatico italiano Giovanni Migliuolo è conferito “l’Ordine dell’Amicizia tra i Popoli”, unico capo di una missione diplomatica occidentale in Unione Sovietica a ricevere l’onorificenza.
Quando Antonio Badini è consigliere diplomatico di Craxi, la diplomazia italiana è la punta di lancia per la ricerca di stabilità nel Mediterraneo. Sulla scia di una intraprendente proiezione mediterranea, l’Italia mantiene intensi legami sia con il mondo arabo sia con Israele. Nei primi mesi dell’85 Craxi e Andreotti lavorano a un progetto di Confederazione tra Giordania e Palestina: il sequestro della nave Achille Lauro, il 7 ottobre ‘85, è ideato e attuato da un gruppo di minoranza dell’Olp contrario alla Confederazione. Ma l’Italia spinge in quella direzione ed è solo per il passo indietro del primo ministro israeliano Simon Peres a impedire a Craxi e a Re Hussein di Giordania di coronare l’operazione con successo: Peres vuole escludere l’Olp da qualsiasi sede negoziale. Se è vero che la formula usata - «un’unione confederale di due Stati» - è ambigua perché tenta di sintetizzare due posizioni divergenti (quella giordana di creare un’unione con la prevalenza di Amman e quella di Arafat di istituire una confederazione libera tra due Stati indipendenti), l’intesa rappresenta l’avvio di una base politica congiunta. Se fosse andata in porto la federazione giordano-palestinese a cui lavorava Craxi, forse il Medio Oriente non sarebbe oggi preda di una guerra devastante e a quotidiani rischi di estensione del conflitto. Gli ultimi due dicasteri presieduti da Andreotti tra il luglio dell’‘89 e l’aprile ‘92 si confrontano con eventi internazionali come la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca, la guerra del Golfo, la disgregazione jugoslava e il trattato di Maastricht, che concorrono a dissolvere la «Prima repubblica»: è la fine di un’epoca di politica estera italiana, che promosse il dialogo con le correnti più dialoganti di Olp e Israele.
Sulle macerie di quella stagione in Italia regna oggi l’atlantismo più piatto a beneficio di una Nato che andava sciolta con la fine del Patto di Varsavia. E l’inedita modalità con la quale, il 17 settembre, Israele ha colpito il Libano causando decine di morti e migliaia di feriti è già una svolta nei conflitti del XXI secolo: centinaia di esplosioni contemporanee partite dai cercapersone usati da militanti di Hezbollah, hackerati e manomessi con le loro batterie usate come innesco. Se al posto di affrontare spese crescenti per la Difesa Tel Aviv avesse deciso di ampliare la sua influenza nella regione, creando lavoro e benessere con la modernizzazione del tessuto agricolo-industriale, avrebbe inferto colpi alla popolarità di Hamas. Ma nel mondo attuale il rispetto internazionale passa soltanto dalla possibilità di estinguere l’altro. In questo contesto, il nostro Paese ha un drammatico bisogno di rinverdire l’arte diplomatica attuata da Fanfani, Moro, Andreotti e Craxi.
[1] Uscito il 12 settembre per i tipi di Frascati & Serradifalco, l’opera intende fornire una visuale storica nuova al decennio più torbido (1970-1980) vissuto dal nostro Paese durante la Guerra fredda, collocato nello scontro tra i guardiani di Yalta, Usa e Urss. Chi ha scritto questo approfondimento per Arianna Editrice ne è l’autore insieme a Maurizio Fiorentini, esponente di Autonomia operaia romana che visse “sul campo” quella stagione.