L’esodo di Ghouta
di Gian Micalessin - 17/03/2018
Fonte: Gli occhi della guerra
(Hamoryah) È un fiume in piena. Sgorga dalle rovine, si fa largo tra le macerie, sprofonda nei crateri di missili e granate. Risale spingendo bimbi in lacrime, piegati sotto il peso di zaini stracolmi. Trascina vecchi smunti ed emaciati aggrappati alla vita e alle grucce. Sospinge donne incinte coperte di nero e fatica, ripiegate su pancioni ormai troppo pesanti. Rimorchia feriti e malati appoggiati su carriole mosse a braccia in questa gruviera di distruzione. È l’esodo. È la fuga. È la fine della loro guerra. Quanti saranno? Cinquemila? Ottomila? Quindicimila? Chi lo sa è bravo.
Tutto è finito mercoledì notte quando l’offensiva lanciata dall’esercito siriano, con l’appoggio dell’aviazione e dei militari russi ha investito il villaggio da due parti. Non è stata una battaglia da poco. Per capirlo basta guardare il deserto che ci circonda.
Nel mare di distruzione intravvedi i segni della battaglia più recente. Una battaglia che non è ancora terminata. L’artiglieria e i mortai dei governativi continuano a far fuoco da tutto attorno. E dalle linee dietro Hamoryah piove ogni tanto qualche colpo di mortaio da 80 che fa tremare il terreno e sobbalzare la marea di fuggitivi. Mentre qui ancora si combatte, loro attendono sui camion. Ad ogni esplosione le donne in nero si stringono la testa fra le mani, nascondono quella dei bimbi nel grembo. “Non ci siamo accorti di niente – racconta Ibrahim, 45 anni – mercoledì sera siamo andati a dormire in cantina come sempre, ma all’improvviso nella notte ci siamo accorti che i terroristi non c’erano più. Poi abbiamo saputo che l’esercito siriano ci aspettava allora siamo usciti, ci siamo fatti coraggio e ci siamo messi in cammino. Piano piano abbiamo raggiunto questo corridoio. Adesso attendiamo di venir portati in un centro di accoglienza. Vogliamo solo un po’ di cibo e un po’ di pace. Per sette anni abbiamo visto solo la guerra. Per sette anni siamo stati vittime dei terroristi”.
È strano ascoltare Ibrahim. È strano guardare questa distesa di donne coperte di nero dalla testa ai piedi attendere la salvezza offerta dall’esercito di Bashar Assad. Fino a ieri vivevano sotto il controllo della Legione Rahman e della coalizione alqaidista, oggi sono pronti ad acclamare l’esercito siriano.
Jallal, 32 anni, come le altre migliaia di disperati parcheggiati in questa surreale retrovia giura di essere sincero. “Cosa avresti fatto al posto nostro? Ad Hamoryah c’erano le nostre case, la nostra terra, i nostri animali. Quando i gruppi armati hanno preso il controllo della zona non sembravano così terribili. Solo dopo ci siamo accorti di chi erano e di quel che ci chiedevano”. Accanto a Jallal c’è Ibrahim, un altro contadino di Ghouta. Alza al cielo suo figlio Saleh, un fantoccino di sette mesi intabarrato in un pigiamino rosso coperto di buchi e di macchie.
“Guardate, guardate con i terroristi non avevamo neanche il latte per dargli da mangiare. Ora l’esercito ci ha liberato. Ora finalmente siamo liberi. Credetemi nessuno voleva restare ad Hamoryah. Fino ad oggi eravamo prigionieri. I militanti dei gruppi armati non ci lasciavano scappare. Siamo contenti di esser riusciti a raggiungere questo corridoio. Siamo felici di essere nelle mani dell’esercito siriano”.
“Tu sei italiano, non puoi nemmeno immaginare cosa fosse la vita ad Hamoryah. Ma ora siamo liberi. Ora possiamo anche chiamarli terroristi”. Un ufficiale dell’esercito ascolta e sorride. “Forse alcuni di questi fino a poche ore fa erano pronti a spararci addosso, ma adesso poco importa. Se erano dei capi, se hanno del sangue sulle loro mani lo scopriremo perché le loro telefonate sono state ascoltate per anni. Se invece erano dei semplici simpatizzanti o dei civili innocenti allora ci metteranno poco a capire che la vita nelle zone del governo è assai migliore”.