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L’estate della rivolta

di Marcello Veneziani - 15/07/2020

L’estate della rivolta

Fonte: Marcello Veneziani

Si può ridurre una rivolta di popolo a un’insurrezione mafiosa? Si, se è capeggiata dall’opposizione nazional-populista. L’ultimo esempio, che suona da monito anche per l’oggi, è la rivolta di Reggio Calabria l’estate di 50 anni fa, iniziata proprio a metà luglio. I giornaloni titolano oggi che fu ispirata dai “poteri mafiosi”. Il Corriere della sera, per esempio, ha poggiato la tesi mafiosa della rivolta di Reggio su un romanzetto di un giornalista de l’Espresso…
Invece noi ricordiamo ragazzi, sindacalisti, militanti e popolani che a Reggio provarono a cambiare il sistema e ridare fiducia e dignità al sud. Rischiarono sulla propria pelle in una lotta politica ideale, pur rozza e ingenua, che spiazzò partiti e sindacati, governo e poteri collusi con le mafie locali. Nei resoconti d’epoca e nelle memorie ufficiali la rivolta di Reggio era già bollata come una sommossa eversiva e facinorosa, in cui la feccia del sud si univa all’estremismo fascistoide. Mancava la ‘Ndrangheta per seppellirla nella damnatio memoriae.
I moti di Reggio Calabria furono la più lunga rivolta urbana che la storia della nostra repubblica ricordi. Durò sette mesi, da luglio a febbraio, e lasciò ferite insanabili. La sommossa di Reggio va ricordata per quattro ragioni. Fu la prima rivolta contro le Regioni, esplosa nello stesso anno in cui nascevano, di cui fu battesimo di sangue; fu l’ultima rivolta del Sud, l’ultima insorgenza popolare e populista nel Meridione contro il potere centrale; fu la prima volta che in Italia e nell’Europa libera e democratica scesero per strada contro la popolazione i carri armati, come nei paesi comunisti dell’est. E infine fu l’ultima rivolta di popolo guidata dalla destra, una destra rivoluzionaria, nazionalpopulista e sindacalista che agiva ai bordi dell’Msi, della Cisnal e lambiva in modo trasversale altre forze politiche. Non solo esponenti di vari partiti ma anche movimenti estremi di destra e pure di sinistra, se si pensa all’attenzione che Lotta Continua e Adriano Sofri riservarono a quella rivolta. Un po’ come era accaduto mezzo secolo prima a Fiume quando la sinistra rivoluzionaria del tempo, Gramsci incluso, seguì con favore la rivolta nazionalista e interventista di D’Annunzio e dei suoi legionari. Dannunziano fu lo slogan della rivolta reggina, Boia chi molla; ma diversi furono il clima e la statura dei protagonisti. E non c’era nessun d’Annunzio a capeggiarla… Il leader più popolare fu Ciccio Franco, un masaniello sindacalista poi senatore missino.
Reggio fu il ’68 dei terroni, la banlieu dei cafoni. La rivolta fu un’insurrezione localista su cui soffiarono ideologie rivoluzionarie accese dal clima eversivo degli anni; ma risuonava l’eco antica di malesseri e insorgenze meridionali. Non fu una Vandea, non ebbe tratti cattolici e reazionari, nobiliari e contadini della jacquerie contro i rivoluzionari, scoppiò in città e non in campagna; e scoccò proprio nel giorno della presa della Bastiglia, il 14 luglio. Per gli insorti di Reggio, i nemici non erano rivoluzionari, ma un ceto di notabili che rappresentavano la stagnazione, la collusione e il conformismo. E che si allargavano da sinistra a destra, passando per il centro.
La ribellione di Reggio dimostrò che il trasferimento di poteri e competenze a livello locale innescava guerre locali e conflitti per l’egemonia territoriale. Era il tempo in cui la secessione rischiava di esplodere a sud. Seguì la rivolta dell’Aquila ma diverso fu il peso, le vittime e la durata di quella sommossa, nata anch’essa dalla crisi di rigetto delle Regioni e da un conflitto di supremazie cittadine. Quella di Reggio apparve la terza rivolta, dopo quella giovanile del ’68 e l’autunno caldo sindacale del ’69; la rivolta delle periferie e della polveriera meridionale contro uno Stato svuotato di compiti e di prestigio.
Dopo Reggio il Sud smise d’insorgere a livello popolare, si defilò nel clientelismo, nella corruzione e nella malavita organizzata. Quel Boia chi molla, pur demagogico ed eversivo, fu l’ultimo grido del Sud prima di sprofondare nel coma. È curioso pensare che la repressione violenta della rivolta avvenne ad opera di un governo moderato, guidato da un democristiano morbido e doroteo come Emilio Colombo che poi non si disse pentito dei carri armati. Non pochi furono i morti lasciati per le strade, civili in prevalenza ma qualcuno anche tra le forze dell’ordine. Terribile fu la strage ferroviaria del 22 luglio rimasta tra i misteri infami del nostro Paese. Prima degli attentati ferroviari che funestarono l’Italia negli anni Ottanta tra Bologna e Firenze ci fu la strage misteriosa del Treno del Sole, nei pressi di Gioia Tauro, che costò la vita a sei persone. Lì magari ci fu davvero lo zampino della ‘Ndrangheta che cercò d’infiltrarsi nei moti; ma la rivolta non può ridursi a evento mafioso. Misterioso fu pure l’incidente stradale del 26 settembre ’70 in cui morirono cinque anarchici che si recavano a Roma a consegnare materiale di denuncia mai ritrovato. La stampa “di regime” fu ostile alla rivolta e liquidò gl’insorti come eversori fascisti, populisti ed estremisti.
A Reggio quell’estate di cinquant’anni fa si spezzò il legame già sofferto tra Sud e Stato e si acuì il degrado scontroso della Calabria, aggravato dai folli insediamenti industriali nella piana di Gioia Tauro e dai loschi errori del ceto politico. Pur nel suo velleitario estremismo, quella rivolta fu l’ultimo atto politico di un popolo che pensava ancora di poter cambiare la realtà con la mobilitazione, gli slogan e le barricate. Poi restarono le clientele, i clan e la defezione di massa. Dopo la protesta venne l’omertà, dopo la rivolta venne il letargo. Il boia mollò. Ma tutto alla fine viene sbrigato con la mafia: magari lo schemino viene utile anche ora che si profila la protesta popolare dopo tante vuote promesse. Vietatela, c’è dietro la mafia…