L’etimo fuggente
di Livio Cadè - 25/08/2020
Fonte: Ereticamente
“Perciò il saggio non viaggia…” (Laozi)
Presa nel torpore ferragostano, la mia mente dondola svogliata fra i pensieri. Nella campagna intorno il canto delle cicale sembra rimbalzare tra le pareti di un grande vuoto. “La gente è in vacanza”, mi dico. Come si sa, ‘vacanza’, ha etimo latino: vacans, essere vuoto. Si dice appunto ‘vacante’ un posto che si libera. Se la vacanza è vuoto e se, come dice Aristotele, la natura aborre il vuoto, la natura dovrebbe rifuggire la vacanza. Benché la fisica aristotelica appaia ormai superata, il vuoto della vacanza, quando non si ha più nulla da fare, provoca ancora in molti una sorta di horror vacui . Turba la presenza di quel vacuum da colmare e da cui ci difendiamo col fare le vacanze, cioè con una serie di provvedimenti tesi a riempirlo.
Se alla vacanza corrisponde il non-fare, vuotezza di intenzioni, di progetti e di desideri, il fare le vacanze è quindi il contrario, il suo antidoto. Trovarsi vacanti crea uno spazio di libertà quasi doloroso, una vuotaggine simile a una fame o a una sottile angoscia. Sappiamo che l’esser libero è una condizione insostenibile per l’uomo moderno, per il quale vivere equivale a ubbidire a degli stimoli, non importa se fisici o mentali. Essenziale per lui è che la società, la cultura, la religione gli comandino qualcosa. Non può dunque accettare di trovarsi improvvisamente in un vuoto che non gli impone di far questo o quello. Un profondo tedium vitae l’assale, e l’abisso della libertà si apre sotto di lui come la voragine del nulla. Semplici rimedi – un buon libro, un buon film, una passeggiata – possono curare gli occasionali vuoti quotidiani. Ma il grande malessere della vacanza estiva richiede terapie ben più complesse: massicce dosi di paesaggi incontaminati, balsamiche ascese montane, edificanti visite ai musei ecc. Il ‘fare le vacanze’ diviene così una profilassi del vuoto, un esorcismo per scacciare il demone della vacanza, creando nuovi impegni, nuovi doveri. Per questo è comune vedere persone che in vacanza cercano tristemente di divertirsi o con gran fatica cercano di riposarsi, cercando di esorcizzare quell’otium e quella libertà che le minacciano.
Del resto, tutta la società moderna è costruita intorno alla retorica o alla leggenda di una libertà che nessuno di fatto saprebbe riconoscere nei nostri comportamenti sociali. È un’araba fenice di cui costantemente si favoleggia. Viceversa, è comunissimo vedere ovunque forme di schiavitù. Nessuno è mai lasciato libero di essere senza desideri, senza occupazioni, senza pensieri. E forse l’aspetto più scandaloso della morte è proprio il fatto che ci renda finalmente liberi. Liberi di non dire e non far più nulla, prospettiva di per sé inconcepibile in un mondo dove tutto trama contro l’ozio e il silenzio. Chi si libera dalle comuni catene lo fa solo per potersi incatenare a qualcos’altro. Che la vacanza resti una pura vacuità, un beato far nulla, wu-wei, è quindi utopia, la ‘pura follia’ d’un Parsifal che cerchi il sacro Graal della quiete. L’uomo di oggi anela alla pace con la stessa ipocrisia con cui rimpiange la vita agreste e la sua bucolica tranquillità. In realtà non resisterebbe che pochi minuti in quella Arcadia idealizzata, senza rumore e agitazione. L’ansia del fare è il suo ossigeno e la sua droga. Non concepisce si possa laissez-aller, laissez-faire, guardare le cose con quella lieta noncuranza che riconcilia col destino. Perciò, di fronte alla vacanza, l’uomo moderno non può certo ‘mollare la presa’, ma solo aggrapparsi con forza a qualcosa per non cadere.
La vacanza dunque non è libertà ma ancora una volta rispetto delle regole. Primo dovere è quello di partire. Viaggiare è requisito, fisico e psicologico insieme, della vacanza. Del resto, non è il vuoto stesso che invita le cose al movimento, a offrirsi come una scelta infinita di vie? Si chiede sempre “dove vai in vacanza?”. In ciò è sottinteso l’obbligo di andare in luoghi sufficientemente lontani. Purtroppo il progresso ci obbliga, in tal senso, a misure sempre più eccezionali. Se al mio bisnonno poteva bastare, per nobilitare la sua luna di miele, andare da Bergamo a Como, in futuro la Luna o Marte potrebbero non sembrare più sufficientemente ‘lontano’. L’allontanarsi fisicamente esprime in realtà il bisogno di un distacco psicologico. La vacanza dovrebbe creare uno iato tra noi e i nostri interni grovigli. Ma per quanto lontano andiamo, questo problematico io ci viene appresso.
Un’altra regola della vacanza è che essa debba insegnar qualcosa. In caso contrario, cadrebbe in quella categoria dell’inutile che contraddice il sano pragmatismo moderno. In altre parole, ci deve in qualche modo arricchire. “Il mondo è un libro, e chi non viaggia ne legge una pagina sola”, diceva sant’Agostino. Questo, in sostanza, è il fondamento di ogni retorica del viaggiare, la sua lettura idealista. Ma il viaggiare, come il leggere, può tanto curare i nostri pregiudizi quanto rafforzarli. E sfogliare distrattamente le pagine del mondo raramente ci insegna qualcosa. Preferisco la definizione di Céline: “il viaggio è la ricerca di questo niente assoluto, di questa piccola vertigine per coglioni”. A questa futile ebbrezza mi par preferibile un dolce naufragare nel nulla restando a casa. Meglio legarsi all’albero del Vuoto e resistere al canto delle sirene che ci invitano a partire. Il vuoto, quando lo accettiamo senza più combatterlo, è medicina per ogni malattia. Dovremmo amarlo, invocarlo. Non è una freudiana ‘pulsione di morte’, l’oscuro desiderio di Thanatos di regredire a stati inorganici. V’è nel vuoto una sorta di meravigliosa verginità; è un grembo in cui tutto è infinita potenzialità, promessa di felicità. Prima che le cose, uscendo dal nulla, prendano quelle forme che poi ci ossessionano e fatalmente ci deludono.
Altra regola essenziale è quella per cui ogni vacanza ha un limite. Questo limite è tanto fisico quanto metafisico. Il viaggiatore non osa ammettere che, come Ulisse, vorrebbe oltrepassare i confini del Fato e dell’universo conosciuto. Ma gli Dei glielo impediscono. Così, non potendo crear nulla di realmente memorabile, il suo viaggio diventa una futile ricreazione. Perciò la vacanza ha sempre qualcosa di patetico e, in fondo, di tragico. Perché è un sogno che contiene in sé la sua frustrazione. Inoltre, su ogni vacanza incombe sempre una fine. In quell’effimero distacco dalla routine si diventa più acutamente consapevoli della caducità delle cose, delle piccole morti che ci inseguono e ci raggiungono. E, ancor più tragicamente, si capisce che quello che ci piace non ci piacerebbe più se non avesse mai fine. Per questo il viaggiare lascia un sedimento amaro. È solo un palliativo, poco più che un breve stordimento, un girare su sé stessi per tornare come prima. L’andarsene e il tornare, l’uscire da sé stessi e il rientrarvi, fanno soffrire un duplice esilio. Quel sentirsi stranieri, quando si è lontani da casa, e stranieri anche in casa propria, quando vi si fa ritorno. Come se non sapessimo più qual è il nostro posto nel mondo.
Fare le vacanze nasconde la tragicità della vacanza con blandi analgesici, trastulli, effimere trasgressioni. Finiti i tempi del grand tour, prerogativa di anime romantiche, delle avventure iniziatiche, o degli antichi pellegrinaggi, per cui ci manca la semplice fede, finita una generazione ribelle e la sua mistica ricerca on the road, di tutto ciò resta solo la caricatura. Ed essendo sempre più assuefatti a ubbidire, non deve stupire che la nostra vacanza sia oggi decisa dal mercato, da una esplicita o invisibile rete di impulsi che ci guidano. I nostri piccoli sogni borghesi vengono spinti come greggi in transumanza verso luoghi di pascolo e abbeveraggio: mostre di pittori impressionisti, estenuanti visite alle città d’arte, salubri percorsi di montagna, attività ludico-sportive rigorosamente programmate, itinerari gastronomici, turismi sessuali ecc. Non v’è bellezza al mondo che le agenzie di viaggio non denudino e non offrano ai nostri sguardi impudichi, non v’è nulla di così sacro che non si possa profanare. E al passaggio di questo variegato bestiame vedi i luoghi, prima impolluti, insudiciati da una massa di anonimi e vacui vacanzieri, vacanti ed evacuanti ogni sorta di scarti e di rifiuti sul cammino. Sono i riti di una religione del diversivo, quel funesto bisogno di distrarsi che Pascal poneva tra i fondamentali mali del mondo. L’incapacità di restare tranquilli in una stanza e accettare la vacanza, di starsene col proprio vuoto senza tentare di nasconderlo.
Infine, ultima ineludibile regola del fare-vacanza è elaborarne una metodica narrazione, registrando ogni dettaglio con scrupolo notarile. Farne un’esperienza morale ed estetica da condividere, a beneficio della coscienza collettiva. Liquidate le antiquate cartoline, saremo precettati per assistere a interminabili anamnesi, chilometriche antologie di attimi fuggenti, fissati in moderni diari digitali: i ritratti di toccante lirismo familiare, la poesia naturale dei paesaggi, l’epopea del piccino che impara a nuotare, i volti sorridenti di una sagra paesana immortalati uno per uno, i tipici piatti locali, l’insetto posato sul fiore, i più nascosti dettagli di capitelli gotici. È una rituale vessazione cui rassegnarsi pazientemente, fingendosi meravigliati e invidiosi. Malinconico epilogo della vacanza, come i bagliori di un sole che tramonta. Si narrano insignificanti avventure per dar loro un senso, pur sapendo che niente interessa meno e annoia più delle vacanze altrui.