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L’inchino di Matteo nelle mani di Trump e la sconfessione dell’Eurasia sovranista

di Gennaro Malgieri - 24/06/2019

L’inchino di Matteo nelle mani di Trump e la sconfessione dell’Eurasia sovranista

Fonte: Il Dubbio

Dopo il viaggio in Russia nell’ottobre dello scorso anno, Matteo Salvini, respingendo le critiche di chi lo voleva se non al soldo, quantomeno in stretta relazione politica con Vladimir Putin, rispose: «In Russia mi sento a casa mia, mentre in alcuni Paesi europei no». Alla stessa stregua di Marine Le Pen, Geert Wilder e sovranisti assortiti. Mosca sembrava, fino a qualche tempo fa, la Mecca dei post- padani lanciati verso la conquista di nuovi orizzonti geopolitici con il chiaro intento di mettere in difficoltà le tradizionali alleanze europee e ritagliarsi uno spazio inedito in politica estera. Non disdegnando, ricordiamo, di stabilire un rapporto, ancorché modesto, non tanto con l’amministrazione statunitense, ma con l’uomo che l’avrebbe rappresentata.
Nel 2016, poco prima delle elezioni americane, Salvini si fece fotografare con Donald Trump, dato in ascesa, ma non ancora “vincente” per molti osservatori, contro la favorita dell’establishment Hilary Clinton. La foto opportunity venne smentita dal tycoon ed il leader leghista, ancora lontano dall’empireo del potere, fu costretto ad esibire prove schiaccianti dell’incontro piuttosto fortuitamente procurato. L’effetto, comunque, fu tale che anche la stampa internazionale si occupò del leader lumbard.
Intanto la marcia salviniana verso il Cremlino proseguiva inarrestabile. Uscirono fuori storie di presunti ( e mai accertati) finanziamenti rivelate dall’Espresso, con contorno di smentite e querele. E, nel mentre la simpatia sovranista per l’autocrate russo veniva suggellata culturalmente dall’acquisita popolarità in Italia, negli ambienti leghisti e destristi di varia natura, dell’ideologo, invero originale e profondo, Aleksandr Dugin, studioso di Heidegger, Evola e Guènon, che a consideralo “putiniano” in senso stretto ce ne vuole, eppure spacciato dai salviniani per “uno di loro” dalle Valli Padane fin giù al Lilibeo nonostante l’interessato abbia più volte smentito la vicinanza a Putin del quale non risulta sia mai stato il consigliere preferito, come una certa nouvelle vague leghista vada asserendo. Peraltro, nei giorni scorsi, alcune conferenze tenute da Dugin in Italia sono state duramente contestate da centri sociali ed affini, ma il ministro dell’Interno non ha mosso un dito: allontanamento di circostanza o disinteresse quanto mai opportuno? Il neo- atlantismo di Salvini non nasce per caso, tantomeno per ribadire un certo protagonismo in politica estera adesso che il suo sovranismo europeo zoppica vistosamente a seguito delle elezioni il cui esito continentale non è stato proprio brillante. Un’altra sponda, dunque, s’impone. Perciò, nonostante tutto, contraddizioni comprese, il viaggio- lampo americano di Salvini non può considerarsi di routine, ma di vero e proprio accreditamento presso l’amministrazione degli Stati Uniti, preparato da tempo, a cominciare dall’endorsement in favore dell’autoproclamato presidente venezuelano Juan Gerardo Guaido, nemico di Nicolas Maduro sostenuto da Mosca. Guaido, come si si sa, è, insieme con Jair Bolsonaro neo- presidente brasiliano, l’uomo di Trump in America Latina, ma al momento la sua stella sembra essersi offuscata. Il partito che guida, Voluntad Popular, è accusato di aver “distratto” fondi umanitari in maniera riprovevolmente impropria, finiti, a quanto si racconta, in Colombia a beneficio di night club e prostitute. Sono in corso accertamenti.
Siamo piuttosto curiosi di sapere come prenderanno la “svolta” i leghisti- destristi, populisti- sovranisti, affascinati dal progetto di Eurasia ( addirittura: questo sì d’impronta duginiana) che guardavano a Putin come l’antagonista anti- occidentale sostenuto da Salvini che oggi si è scoperto neo- atlantista e fautore delle politiche trumpiste, definite “efficaci” e dunque esportabili in Italia e in Europa.
E ancor più ci piacerebbe sapere ( ma sarà impossibile) come hanno accolto la nuova linea coloro i quali in Russia hanno avuto rapporti con Salvini direttamente o con uomini della Lega immaginando che essa potesse essere la sponda nel Vecchio Continente dell’Impero putiniano. Non crediamo siano rimasti favorevolmente impressionati il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, gli oligarchi pigliatutto Konstantin Malofeev ( presidente del consiglio di amministrazione del gruppo mediatico Tsargrad e fondatore del fondo di investimento internazionale Marshall Capital Partners, oltre che presidente della fondazione caritativa Fondazione San Basilio il Grande), Aleksey Komov, capo dei progetti internazionali della stessa fondazione, Andrea Klimov, responsabile delle relazioni internazionali per il partito di Putin Russia Unita, ricordando, per esempio, la giusta battaglia di Salvini contro le sanzioni, volute dagli USA, al loro Paese.
Ma non era il “Comandante” che con la sua politica di appeasement filo- russa aveva legato il proprio destino continentale a quanti contestavano l’Europa filo- americana?
Un mistero. Durante i suoi incontri statunitensi, Salvini tra le altre cose ha detto che la collocazione atlantica dell’Italia non soltanto va tutelata, ma anche rafforzata «non solo per interessi economici e commerciali, ma anche per una comune visione del mondo, dei valori, del lavoro, della famiglia, dei diritti».
Ecco la chiave di tutto: visione del mondo. Significa lo standard way of life, l’esportazione della democrazia con le armi, il turbocapitalismo, il globalismo senza regole, insomma tutto ciò che è stato fino ad oggi il fondamento polemico e l’armamentario politico del sovranismo salviniano, sponsorizzato e propagandato da filosofi piuttosto eccentrici soi- disants heideggeriani - gramsciani.
Possiamo avanzare un sospetto? Che non ci sia la mano di Bannon in questa “svolta”? Il guru americano che si batte per l’autonomia dei piccoli Stati, delle piccole nazioni, delle piccole patrie, in nome di un identitarismo che gli è ignoto, non fa forse il gioco di Washington dove si punta ad avere un’Europa divisa, litigiosa, decerebrata culturalmente per poterla meglio aggiogare al carro americano nell’epoca del neo- colonialismo?
La competitività tra i grandi spazi ben vale piccoli compromessi. E quelli di Trump non fanno eccezione. Xi Jinping ha trovato le sue pedine. Perché l’inquilino della Casa Bianca non dovrebbe muovere le sue? Con buona pace di Putin e degli improvvisati sostenitori di una fantasiosa ( ma geopoliticamente fascinosa) Eurasia.