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L'intreccio

di Enrico Tomaselli - 19/04/2025

L'intreccio

Fonte: Giubbe rosse

Quando gli eventi accelerano, assai più di quanto vorrebbero i protagonisti, è segno che la situazione sfugge al loro controllo. Ed è precisamente questo che sta accadendo, in questo momento, agli Stati Uniti d'America. I segnali ci sono tutti.
La fretta di Trump di portare a casa risultati, che però non arrivano.
L'apertura di una guerra daziaria, che aveva come obiettivo il disaccoppiamento dalla Cina, che si sta infrangendo contro la fermezza di Pechino.
L'emergere di divisioni all'interno dell'inner circle trumpiano, a soli tre mesi dall'insediamento.
L'incapacità di uscire (bene) dalla sconfitta in Ucraina.
La corsa ai tagli della spesa, che in pochissimo tempo ha già prodotto centinaia di migliaia di disoccupati.
Il progressivo impantanarsi mediorientale.
L'insistenza su una narrazione conflittuale e divisiva interna, nel momento di massima crisi dell'impero.
E si potrebbe continuare, ovviamente, ancora a lungo. Ciò che emerge sempre più, quindi, è la difficoltà statunitense a gestire la propria crisi imperiale, e la caotica situazione internazionale che la propria crisi alimenta ed acutizza. Il tentativo di coprirla con una narrazione arrogante, non solo complica le cose proprio per il suo essere urticante in sé, ma si rivela una coperta troppo corta per nascondere l'impasse. Ed il rischio di passare da questo al cacciarsi in un cul-de-sac si fa di giorno in giorno più probabile.
Marco Rubio, calato in Europa per cercare di convincere i paesi europei a cedere sulla questione delle sanzioni alla Russia (passaggio fondamentale per sbloccare i negoziati con Mosca), dichiara che se le trattative sull'Ucraina non producono risultati "entro pochi giorni", gli Stati Uniti si disimpegneranno perché hanno altre priorità. Il punto è che tornare alla retorica inziale di Trump ("risolvo in 24 ore") non è d'aiuto; e certo Washington può anche cercare di mantenere in piedi il dialogo con Mosca a prescindere dalla questione ucraina, ma ci sono solo due modi per provarci. O smettere di mediare, e però smettere anche qualsiasi aiuto a Kiev, aspettando che la Russia risolva il conflitto sul campo di battaglia - il che significa perdere un altro po' di credibilità (ad est come ad ovest), incassare una sconfitta più bruciante, e comunque allungare considerevolmente i tempi per un 'appianamento' delle relazioni russo-americane. Oppure continuare a sostenere l'Ucraina, ma chiamandosi fuori dai negoziati - il che significa una maggiore perdita di credibilità agli occhi del Cremlino, ed un rinvio sine die di qualsiasi accordo con la Federazione Russa. Perché la questione fondamentale è che per gli USA l'Ucraina non conta nulla, al più è tenuta in considerazione come un potenziale debitore da spremere, ma per la Russia è un nodo nell'ambito della sua esigenza strategica di assicurarsi quegli accordi di sicurezza (europea e globale), che cerca di ottenere da almeno quindici anni. E se non c'è quella, il resto non ha molto interesse.
La capacità - o meno - di esercitare il proprio potere egemonico, sull'Europa e sull'Ucraina, è in ultima analisi il metro con cui Mosca valuta la serietà statunitense.
Ed è sempre Rubio che, sull'altro fronte problematico, quello mediorientale, assume il ruolo di maggior falco all'interno dell'amministrazione. Nonostante Trump sia dipinto come assolutamente appiattito sulle posizioni israeliane, la realtà dei fatti dice qualcosa di diverso; non perché sia un pacifista, o non sia abbastanza amico di Israele, ma semplicemente perché ha chiaro quale sia l'interesse strategico degli USA nella regione (che va oltre lo stato ebraico), così come ha chiari i rischi del seguire passivamente l'avventurismo di Netanyahu. La scommessa di Trump è chiaramente un rospo assai difficile da ingoiare, per l'estrema destra israeliana, perché si fonda sulla ricerca di un accordo con l'Iran. Accordo non facile da raggiungere, ma che viene visto come l'unica via percorribile, essendo l'alternativa una guerra durissima, prolungata, e potenzialmente sconvolgente per l'intero sistema geopolitico globale, nella quale gli Stati Uniti si ritroverebbero quasi certamente da soli, e quasi sicuramente contro non solo l'Iran ed i suoi alleati regionali, ma anche Russia e Cina. Probabilmente non schierate in prima linea con le proprie forze armate, ma di sicuro pienamente impegnate ad impedire la caduta della Repubblica Islamica; in poche parole, l'intera strategia americana (guadagnare tempo, dividere le forze nemiche) andrebbe gambe all'aria.
Anche in Medio Oriente, comunque, ad essere foriera di sbandate pericolose è l'assenza di una vera strategia USA, che tenga conto dei reali rapporti di forza e delle posizioni dei vari attori coinvolti. Aggravata proprio dall'influenza nefasta che Israele non cessa di esercitare sulla politica statunitense, e che oggi significa il condizionamento da parte di un governo a sua volta alle prese con una crisi di portata storica, alla quale risponde con una strategia massimalista del tutto priva di qualsiasi senso della realtà.
La strategia mediorientale di lungo periodo, per gli Stati Uniti, resta quella di una normalizzazione più o meno egemonica della regione. Portare cioè i paesi arabi ad instaurare rapporti stabili e pacifici con Israele. Per conseguire questo obiettivo, cercano intanto (ed in vario modo) di smantellare il network degli alleati di Teheran [1]; ridurre l'influenza iraniana significa essenzialmente rassicurare sia Israele che i paesi arabi. Ma quanto questo obiettivo sia praticabile è tutta un'altra faccenda. E di certo Israele non è d'aiuto, con le sue continue mire espansionistiche - per quanto folli ed insensate [2], comunque reiterate di continuo, e perseguite manu militari.
La grande contraddizione americana è che si trova oggi in questa situazione perché il mondo è cambiato (sono cambiati gli equilibri di potenza, e su vari livelli), ma ha difficoltà ad affrontare il cambiamento; non solo perché, ovviamente, non lo vuole accettare, ma anche perché stenta anche solo a prenderne atto. È come un vecchio leone che non ha più la forza di un tempo, per tenere a bada i giovani che ambiscono a prenderne il posto nel branco, ma che continua a ruggire e menare zampate come se l'avesse ancora, esponendosi al rischio di una fine precoce.
Ma se per quanto riguarda il conflitto in Ucraina c'è sempre, alle brutte, la possibilità di un chiamarsene fuori (magari poco edificante, ma comunque possibile), scaricando oneri e colpe su altri - Biden, Zelensky, gli europei… - questa possibilità non c'è nel conflitto mediorientale. Il vincolo mortale con Israele non lo rende possibile.
La partita con l'Iran, quindi, diventa un passaggio cruciale, non soltanto per il Medio Oriente, per l'intera amministrazione Trump. Gli Stati Uniti devono portare a casa un risultato di una qualche stabilità e spendibilità, ed essere capaci di tenere a bada l'irragionevole alleato. Già il primo passaggio è tutt'altro che facile, perché Teheran è consapevole delle proprie forze (e delle proprie debolezze), ma è anche estremamente determinata, e sta dimostrando una notevole capacità tattica e strategica nella gestione della crisi. I ripetuti incontri trilaterali Iran-Russia-Cina, incentrati sul tema, il viaggio a Mosca di Araghchi (con una missiva di Khamanei per Putin), la visita del ministro della difesa saudita a Teheran (e l'annuncio di un viaggio in Iran del principe Mohammed Bin Salman), sono tutti segni della rete che l'Iran sta intrecciando, per rafforzare la sua posizione negoziale.
La divisione che si sta manifestando all'interno dell'amministrazione USA - con Trump, l'inviato Witkoff, e in parte il capo del Pentagono Hegseth, che insistono sulla via negoziale, ed il segretario di stato Rubio che propende per l'opzione militare - testimonia non solo la difficoltà della strategia statunitense, ma anche, appunto, come questa si rifletta criticamente sul governo stesso. L'impossibilità di tenere insieme capre e cavoli si rivela ancora una volta un limite insormontabile. Per certi versi, siamo dinanzi all'ennesima similitudine tra Zelensky e Netanyahu (ma ovviamente la questione non è 'personale'). Quando l'intreccio delle relazioni tra una grande potenza ed un piccolo alleato (o proxy) si fa troppo duraturo e profondo, ciò finisce per mutare la natura del rapporto, e l'equilibrio tra i due si sposta, mette in mano al piccolo delle leve che il grande non pensava si sarebbero manifestate. Ed è questo che oggi rende il passaggio estremamente complesso - ma anche cruciale. Gli USA non possono 'mollare' Israele, né possono forzarlo ad accettare qualunque soluzione appaia praticabile per Washington. Al tempo stesso, trovare una mediazione possibile con l'Iran significa fare delle concessioni, che appariranno comunque inaccettabili a Tel Aviv. Tenere insieme il diavolo e l'acqua santa non è possibile.
Se, almeno per il momento, è probabile che una grande guerra sia stata scongiurata in Europa - al prezzo di una sconfitta strategica dell'occidente - il rischio aumenta di molto nel Levante. Perché l'America non può permettersi un'altra sconfitta strategica, ma non sembra capace di trovare un'altra via d'uscita.

1 - In questa fase, Washington sta esercitando una tattica diversificata. Per quanto riguarda lo Yemen, mantiene una sanguinosa pressione militare, anche se è consapevole che i risultati - in termini di riduzione della capacità operativa yemenita - sono scarsissimi. E infatti esercitano una certa pressione, in particolare sugli Emirati Arabi Uniti, perché rimettano in piedi una forza in grado di agire sul terreno (si parla di 80mila uomini già pronti, e ci sono già stati scontri lungo la linea di contatto). L'esperienza della lunga guerra sponsorizzata proprio dall'EAU e dall'Arabia Saudita (con gli USA alle spalle), e finita con la vittoria di Ansarullah, non promette però nulla di buono. In Iraq, si moltiplicano le pressioni per arrivare allo scioglimento delle milizie filo-iraniane, cosa resa molto complicata sia dal fatto che la maggioranza sciita al governo mantiene buoni rapporti con Teheran, sia dal permanere della presenza militare statunitense nel paese e, non da ultimo, dal fatto che la maggior parte di queste sono inquadrate nelle Forze di Mobilitazione Popolare (a loro volta inquadrate nell'esercito). Ugualmente, in Libano sono fortissime le pressioni sul governo affinché arrivi al disarmo di Hezbollah. Ma anche qui, a rendere assai complessa la questione c'è per un verso l'occupazione israeliana (in violazione degli accordi) ed i continui attacchi sul territorio libanese, e per un altro il rischio di innescare una nuova guerra civile, con la Resistenza (ed i suoi alleati) che gode di ampio consenso nel paese, è certamente la forza militare più forte, più esperta e meglio organizzata, e che potrebbe quanto meno arrivare ad una situazione di tipo yemenita, con una secessione di parte del paese.
2 - Per Israele è già un problema mantenere un predominio della popolazione ebraica all'interno del piccolo stato (il delirio genocidario e, più semplicemente, quello di espellere le popolazioni palestinesi dalla propria terra, anche da questo nascono), figuriamoci in un ipotetico Grande Israele, esteso dal Sinai alla Siria, dalla Giordania al mar Mediterraneo, passando per il Libano, l'Iraq e pezzi di Arabia Saudita...