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L’inversione antropologica

di Flores Tovo - 18/05/2023

L’inversione antropologica

Fonte: Flores Tovo

La domanda che ci poniamo è come sia stato possibile che nel nostro mondo europeo ed occidentale, ma anche ovunque, pur in modo più attenuato,  si sia giunti ad un simile degrado esistenziale, che, se lo si osserva bene, non è solo intellettivo o socio-politico, ma che è, e forse lo è  soprattutto, antropologico in senso filosofico. Con questo ultimo termine  si vuole intendere che l’uomo attuale sta perdendo la sua specificità in rapporto con l’ambiente naturale. Uno dei fondatori dell’antropologia moderna del Novecento H. Plessner ( assieme a M. Scheler e A. Gehlen) riteneva che la peculiarità dell’uomo storico fosse la sua posizione “eccentrica” rispetto alla natura. In altre parole, l’uomo, che Heidegger definiva come  un esser-ci (un ente consapevole di esistere), è sempre stato capace nella sua dimensione storica e spirituale di aprirsi al mondo (in der welt sein) e agli altri  (mit sein), acquisendo con tale apertura  facoltà logiche (in primis il principio di causa) e linguistiche (il linguaggio come casa dell’essere). “L’eccentrismo” consiste in questo. Ora l’apertura si sta chiudendo  e ripiegando su se stessa.

Nel presente storico stiamo osservando quella che E. Cioran chiamava profeticamente  la caduta fuori dal tempo, che poi è il titolo di un suo libro. Con questa affermazione egli intendeva dire che l’uomo contemporaneo sta distogliendosi dalla dimensione temporale data dal futuro-passato-presente (il futuro è la prima dimensione temporale da cui discendono dinamicamente le altre due) (1) per precipitare ontologicamente nella dimensione “centrica”. Plessner concepiva che questa dimensione fosse propria dell’animale, il quale è sì consapevole del proprio corpo, ma è incapace di proiettarsi fuori-di-sé, rendendolo perciò impossibilitato  a riflettere sulla sua stessa posizione centrica. Insomma l’animale non è un esser-ci, poiché, pur cosciente, non possiede l’autocoscienza, cioè la riflessione, che è l’essenza del pensare (2). Stiamo di fatto assistendo ad una generale “reductio ad animalem”, e quindi alla costruzione di una gigantesca gabbia, d’acciaio o di latta che sia, per “scimmie”.

 E’ ormai del tutto inutile descrivere la vita degli attuali umani scaduti a livello di plebe infima. Si può chiamarli come si vuole: ignavi, atomi insignificanti, analfabeti semi-colti, viventi senza senso, e così via. Del resto a loro non importa nulla. Scriveva Nietzsche: “La vita è una sorgente di gioia; ma dove beve anche la plebaglia, tutti i pozzi sono avvelenati” (3). In effetti ormai si vive in un mondo completamente plebeizzato: non esiste più la classe operaia, ma al suo posto c’è la plebe operaia, non c’è più il ceto medio, ma il ceto medio plebeizzato, e così pure anche le classi dirigenti e dominanti non sfuggono di certo alla volgarità, all’ineleganza e sboccataggine dei nostri tempi. V’è solo il dominio finanziario di pochissimi. E’ presente ormai un’unica, sola classe, ossia la plebe, che si è concentrata soprattutto nelle grandi metropoli che sono il suo habitat naturale. La plebe non ha spirito: in essa non alberga né il ritegno, né la pudicizia, né la temporalità che non sia il presente ordinario. In questi tempi il vero senso umano, che è essenzialmente composto dal sentimento comunitario ed dall’empatia, si salva in parte, ma solo in parte, nelle piccole città di provincia. Nel resto del pianeta l’“american way of life” si è espanso come una metastasi cancerosa. A questo punto ci restano alcune domande a cui tentare di rispondere: come è potuto accadere tutto questo? Quali sono state e sono le cause profonde di tale scellerata perversione?  Il  filosofo Costanzo  Preve riteneva  che per comprendere lo stato spirituale della propria epoca, bisogna partire dalla categoria logico-ontologica di alienazione che si ricava nell’approfondire il modello socio-economico in cui, in un determinato periodo storico, gli umani vivono: cioè, nel nostro presente, nell’esaminare la formazione produttiva capitalistica. Marx nei suoi “Manoscritti economico-filosofici del ‘44” aveva definito l’alienazione come una autoestraniazione del proprio sé non solo coscienziale, ma reale, che scaturiva dalle condizioni del lavoratore salariato. Egli aveva individuati quattro aspetti fondamentali strettamente connessi fra loro. Elenchiamoli soltanto, poiché sono ormai famosissimi: 1) alienazione del proprio lavoro che gli viene sottratto; 2) alienazione della propria attività; 3) alienazione della propria essenza; 4) alienazione verso il prossimo. In questa direzione analitica Preve si rifece al capolavoro, ormai ignoto ai più, di G. Lukàcs “Storia e coscienza di classe”, in particolare al capitolo centrale della sua opera “La reificazione e la coscienza del proletariato” (4). Persino Heidegger, che certamente non era un marxista, scrisse che “… Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in senso essenziale e significativo, come l’alienazione dell’uomo, affonda la sue radici nella spaesatezza…” (5). Non a caso Heidegger fu il più profondo investigatore, assieme dal suo ex-discepolo G.Anders, del degrado spirituale dell’uomo contemporaneo, rivelandone la sua passività in particolare nelle situazioni emotive della chiacchiera, curiosità ed equivoco, e  spiegando inoltre il suo soccombere rispetto alla macchinazione tecnica moderna.

Questi riferimenti culturali tuttavia non risolvono la questione posta al’inizio dello scritto, riguardante il mutamento antropologico negativo dell’uomo attuale. A queste cause ora illustrate, che pensiamo siano tra quelle principali, si possono connettere anche con quelle religiose (la morte di Dio e del sacro), etiche, estetiche, e così via, ma esse non danno una risposta completamente esauriente. Bisogna infatti aggiungere degli elementi chiarificatori  per poter accertare con più esattezza il degrado antropologico in atto. Essi sono i dati psicometrici forniti da studi psicologici avanzati, che vengono considerati come insostituibili nell’indicare il disastroso regresso delle capacità intellettive. Dal 1938 al 1985 in tutto il mondo industrializzato il quoziente intellettivo  aumentò. Questo fatto fu osservato per primo dal psicologo J. R. Flynn, emerito professore neozelandese, ed il fenomeno prese il nome di effetto Flynn. A partire però dai primi anni Duemila si è cominciato a constatare una tendenza inversa, poiché il Q.I. col passare degli anni, nonostante l’incremento demografico, tese a diminuire. Per cui oggi si parla di “effetto Flynn inverso”. La diminuzione del Q.I. è stata in questo ventennio del 7%. E non si tratta solo di un declino dovuto solo a fattori culturali o causati da una peggiore alimentazione, ma anche di un declino dell’intelligenza genotipica e fenotipica. Molti studiosi, tra cui B. Bratsberg e O. Roberger, ritengono che questo avvenimento sia stato causato dall’uso eccessivo dei videogiochi, da Internet e da meno letture. (Fonte: “State of Mind”, 2011-2023, giornale delle scienze psicologiche). In realtà la regressione del pensiero pensante, senza dover ricorrere ai discutibili, pur se attendibili, test psicologici, fu già ampiamente annunciata da R. Guènon in suoi vari libri, tra cui l’imprenscindibile “Il regno della quantità e il segno dei tempi”, e da quasi tutti i libri di Heidegger e da Jünger, a cui si sono aggiunti molti altri filosofi, sociologici e psicologi.  Tuttavia, ad onor del vero, il primo filosofo che intuì profondamente il futuro trionfo degli individui meno dotati, inferiori alla media, fu ancora una volta Nietzsche. Egli, nei frammenti 683-685 della “Volontà di potenza”, che vanno sotto il nome di frammenti Anti-Darwin, osservò che il livello della specie non si eleva, e che anzi, alla fine avrebbero vinto i pessimi. Essi avrebbero dominato grazie alla quantità e alla prudenza, intesa come astuzia opportunistica. Sicuramente, e questo Nietzsche non lo afferma, ma lo fa intendere, il sistema liberal-democratico alla lunga avrebbe consegnato il potere agli ultimi uomini. E così è stato. Che poi l’imbecillità abbia preso il potere lo si evince quotidianamente dalle misure proposte dai rappresentanti corrispettivi dei pessimi, come la “cancel culture”, l’insensata lotta al cambiamento climatico, le super-inquinanti auto elettriche, i cibi sintetici, l’odio verso l’agricoltura e la politica cosiddetta “green”, la gestione criminale della pandemia e così via. Il tutto accompagnato da una distruzione dell’etica e della famiglia tradizionale. Sperare comunque in una guerra totale che ci liberi da questo fardello insopportabile è assai rischioso. Le guerre moderne comportano la morte dei migliori, mentre i peggiori si imboscano. Il vero rischio è perciò che sia proprio il governo degli idioti, dei falsi, degli imbonitori e dei deviati a condurci alla perdizione, come di solito  è avvenuto quand’erano al potere.

Forse l’unica via di salvezza  sarebbe di attuare il sogno comunitarista del filosofo scozzese A. MacIntyre, che è quello di tornare a vivere in campagna in modo autarchico. L’uomo è in definitiva un ente tribale agricolo e cacciatore, poiché è stato così per decine di migliaia di anni. Le città non dovrebbero superare i 200 mila abitanti. Solo così egli potrebbe recuperare la sua salute mentale e la sua propensione alla creatività. Ma sempre di una utopia si tratta. Dopo la catastrofe, che vedo probabile, se non necessaria, i sopravvissuti potrebbero ritornare all’armonia con la natura e con gli altri. Sempre nell’ipotesi che qualcuno rimanga vivo.

Note:

1)      Si veda F. TOVO, Riflessioni sul principio di causa, Comedonchisciotte, gennaio 2018.

2)     G.W.F. HEGEL, La scienza della logica, libro II, “L’essenza”, Ed. Laterza, Bari 1988.

3)     F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Della plebe, p.84, Ed. Newton, Roma 1999.

4)     In verità il primo filosofo a parlare di alienazione socio-economica fu G. SIMMEL, nel suo capolavoro “La filosofia del denaro” scritto nel 1900. “I manoscritti” di Marx erano ancora sconosciuti, poiché furono pubblicati solo nel 1932. L’opera di Simmel è ora pubblicata da Ledizioni Milano 2019.

5)     M. HEIDEGGER, Segnavia, Lettera sul’umanesimo, p. 292 , Adelphi ed. Milano 1987.