L’Italia deve spezzare le catene del debito pubblico
di Francesco Lamendola - 16/10/2019
Fonte: Accademia nuova Italia
Se ci si trova seduti a un tavolo da gioco e ci si accorge che l’altro sta barando, si deve seguitare la partita o interromperla, denunciando l’imbroglio? Scegliere la prima alternativa vuol dire esser consapevoli che non ci si alzerà da quel tavolo prima di aver lasciato anche la camicia nelle mani dell’avversario; scegliere la seconda significa andare incontro a dei grossi imprevisti, perché, ovviamente, a nessuno piace sentirsi dare del baro, anche e soprattutto se è vero. In entrambi i casi c’è qualcosa da perdere, ma solo nel primo caso vi è la certezza di perdere tutto, e inoltre di passare per dei perfetti gonzi o per dei vili, perdendo la stima di tutti, amici e nemici; nel secondo, c’è la possibilità di salvare quel che ancora si possiede e, forse, perfino di recuperare ciò che si è perduto. Tale, fuori di metafora, è la situazione nella quale si è venuta a trovare l’Italia dopo il suo ingresso nell’eurozona. La posta in gioco è la sua economia, il suo sistema industriale, il suo risparmio pubblico e, in prospettiva, anche quello privato, che, se cadesse in mani altrui, consegnerebbe veramente il nostro Paese nelle mani di un potere estraneo e ne farebbe per sempre una colonia. I bari che siedono al nostro tavolo, e che ci stanno rapinando con perfetta nonchalance, sono la Francia e la Germania. Naturalmente, parliamo in termini di Stati per rendere più chiaro il discorso, ma la verità è che gli Stati, da tempo, hanno abdicato a un potere molto più forte del loro, quello della grande finanza internazionale; per cui, quando diciamo “Francia” o “Germania”, non ci riferiamo tanto agli Stati e ai loro rispettivi governi, ma in primo luogo al sistema delle banche, degli istituti assicurativi e al complesso della speculazione finanziaria, che solo in parte sono francesi o tedeschi. Questo discorso vale anche per l’Italia, naturalmente, ma con la non lieve differenza che, a parità di subordinazione degli Stati alle banche private, in Francia e in Germania ci sono dei governi i quali, per lo meno, provano, e sia pure con molti limiti e con mediocre successo, a difendere anche l’interesse vitale delle rispettive nazioni; mentre da noi vi è una classe dirigente che da molto tempo ha smesso di preoccuparsi degli interessi vitali della nazione e si è fatta volonterosa esecutrice degl’interessi altrui. Tanto, essa non ci perde nulla, tranne la dignità e l’onore, cose delle quali non sa che farsene: per il resto, conserva le sue rendite, i suoi privilegi e le sue posizioni di potere, e sia pure di un potere infeudato a un potere esterno superiore; ma ciò, sul piano interno, fa poca o nula differenza. Naturalmente la BCE non è la sola protagonista della speculazione finanziaria; a livello complessivo, essa è solo uno dei soggetti che dominano l’economia mondiale e la sfruttano, emettendo denaro inesistente ma esigendo il pagamento dei debiti, pubblici e privati, in denaro reale; nondimeno, essa è quella che ci riguarda più da vicino, e con la quale dobbiamo innanzitutto fare i conti.
Più passa il tempo, e più la gente, compreso chi non sa quasi nulla di economia, però possiede un po’ di spirito d’osservazione e di buon senso, si rende conto di cosa sia stato realmente, per l’Italia, l’ingresso nell’eurozona: la trappola predisposta da Francia e Germania per catturare, imbrigliare, bloccare e parassitare la nostra economia, che rappresentava, per esse, un concorrente pericolosissimo (la Francia era stata addirittura superata in termini di Pil e di esportazioni). Come? Facendoci entrare a far parte di un sistema monetario calibrato sul marco tedesco e sul sistema finanziario tedesco e francese, ma del tutto inadatto per noi. Del resto, è intuitivo che una moneta presuppone uno Stato, cioè un’autorità centrale capace di unificare i sistemi fiscali, di finanziare il debito pubblico, di emettere moneta ed eventualmente di svalutarla, a determinate condizioni, per rilanciare la produzione e specialmente le esportazioni. Ma nel caso dell’euro non esiste alcuno Stato, quindi non esiste alcuna autorità finanziaria che possa unificare i sistemi fiscali e garantire il debito sovrano: la moneta è unica, ma per tutto il resto ogni governo si arrangia da sé; e quanto all’emissione del denaro, essa è delegata alla BCE, che è una banca centrale, ma al tempo stesso è una banca, o meglio una cordata di banche, private. È pertanto evidente che una tale superbanca privata non ha affatto a cuore la salute delle finanze dei singoli Stati membri, e tanto meno l’interesse e il benessere dei loro popoli: essa mira solamente agli utili, com’è nella sua natura e nella logica delle cose, anche speculando sulle difficoltà finanziarie degli Stati e giocando sui fattori, materiali e psicologici, che rendono la borsa un luogo di brigantaggio internazionale. La cosiddetta “fiducia” dei mercati su questa o quella economia, e quindi su questi o quei titoli di Stato che finanziano il debito pubblico, è, per l’appunto, un fattore immateriale e psicologico: la si può alimentare a piacere, orientandola in un senso o in un altro, cioè trasformandola in sfiducia. Tanto più grande è la sfiducia, tanto più alta sarà la percentuale d’interessi che quel tale Stato dovrà pagare per vendere i suoi titoli e finanziare così il proprio debito. E questo è appunto il caso dell’Italia, che si trova a pagare un interesse del 5 o del 6% per la vendita dei propri titoli di Stato coi quali garantire il pagamento del debito (si prenda nota: quei titoli servono a pagare non il debito, bensì gli interessi sul debito!), mangiandosi così qualcosa come il 5% del suo Pil e oltre, mentre Francia e Germania pagano appena il 2 o al massimo il 3%.
Questa differenza, che da sola spiega tutto del nostro crescente svantaggio rispetto ai nostri concorrenti d’Oltralpe, si origina da fattori psicologici, provocati dallo spread e dal giudizio delle agenzie di rating è un aspetto, come si è visto molto bene nel 2011, quando lo spread, cioè il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, assunti come unità di misura, venne fatto salire da Bruxelles fin quasi al 600% per ragioni politiche, ossia per far cadere il governo in carica e sostituirlo con uno totalmente prono ai voleri della BCE. Tuttavia, i fattori psicologici sono determinati anche dalle precise modalità con le quali la Banca d’Italia, altro organismo privato che suggerisce, nel nome, una proprietà pubblica che invece non esiste, mette all’asta i titoli di Stato italiani: modalità che favoriscono al massimo gli interessi di chi li compra, ossia gli speculatori finanziari, e penalizzano lo Stato italiano, cioè il cittadino che quel debito, in un modo o nell’altro, lo deve finanziare. Se i titoli venissero messi in vendita secondo l’interesse di chi detiene il debito e non di chi lo acquista, speculandoci sopra, il prezzo base all’asta verrebbe fissato secondo criteri che tengano conto della convenienza per Stato italiano, e non, come ora avviene, lasciandolo all’iniziativa degli acquirenti: i quali, come si può facilmente immaginare, hanno tutto la convenienza a stabilire una quota d’interessi che sia la più bassa possibile. In questo modo, noi vendiamo i nostri titoli di Stato in perdita: paradossalmente, proprio il pagamento degli interessi sul debito è la catena che ci tiene legati a un meccanismo infernale, dal quale non esiste speranza di uscire, se non spezzando la catena stessa. Infatti, il grosso pubblico ignora che l’economia italiana è fondamentalmente sana e che, in particolare, da ben mezzo secolo, cioè da molto prima che il nostro Paese entrasse nell’eurozona, e perfino da prima che la Banca d’Italia venisse scorporata dal Tesoro e divenisse, così, una banca d’affari privata, il nostro bilancio è virtuoso, nel senso che produce un forte avanzo primario. In altre parole, l’Italia spende meno di ciò che il fisco le consente d’incamerare. La nostra spesa pubblica è soggetta a tagli incessanti fin dal lontano 1970, e ciò dovrebbe sfatare una volta per tutte la favola che il nostro debito è dovuto al fatto che gli italiani hanno fatto come la sventata cicala, spendendo allegramente più di quel che potevano permettersi e vivendo al di sopra delle loro possibilità, mentre tedeschi e francesi, virtuose formichine, spendevano poco e così tenevano in ordine le loro finanze. È vero esattamente il contrario: infatti, e questa è la seconda sorpresa per molte persone che non si interesano di economia politica, l’Italia è un Paese che detiene uno dei più grandi risparmi privati al mondo. Non solo.
L’Italia possiede anche una delle più consistenti riserve auree a livello mondiale: e ciò a rendere chiaro che lo spauracchio del default, che viene usato a intermittenza sia per mantenere l’Italia in condizioni di svantaggio finanziario e politico rispetto ai suoi concorrenti d’Oltralpe, sia per fornire all’opinione pubblica italiana una “spiegazione” del debito che non ne mostri le vere cause, ossia l’asservimento vergognoso della classe politica agli interessi della grande finanza internazionale e della BCE, è, appunto, soltanto uno spauracchio. La verità è che l’Italia, con un risparmio privato così consistente e con una riserva aurea così cospicua, non può fallire: se davvero la sua economia precipitasse in una crisi di ampie dimensioni (la sua economia, non la sua finanza, che è costretta a giocare con le carte truccate), essa avrebbe i mezzi per tamponare le falle e potrebbe onorare, come del resto ha sempre fatto, tutti i suoi debiti. La famosa “sfiducia” dei mercati, di cui parlavamo poc’anzi, è una leggenda creata dai nemici dell’Italia (i quali, sia detto per inciso, non si trovano solo all’esterno del Paese) per suggerire che l’Italia, se fosse alle strette, potrebbe anche diventare un debitore insolvente; ma questa è un’eventualità che non esiste, e i governi stranieri lo sanno, così come lo sanno gli azionisti e gli speculatori stranieri. Se così non fosse, come mai continuerebbero, da anni, ad acquistare i nostri titoli di Stato, accollandosi quote del nostro debito? Quei signori sono tutt’altro che dei filantropi o degli sprovveduti: se lo fanno, è perché sanno benissimo che non rischiano nulla, che anzi ci guadagnano e ci hanno sempre guadagnato, arricchendosi sulla pelle del cittadino italiano, grande lavoratore e grande risparmiatore, mentre all’estero si fa circolare l’immagine dell’italiano pigro e inaffidabile, col quale è meglio non mettersi in affari, perché sicuramente ci si rimetterebbe. Chi non ricorda i perfidi sorrisetti d’intesa e di complicità che Merkel e Sarkozy si scambiarono in pubblico, davanti alle televisioni di tutto il mondo, quando vennero a parlare dell’economia italiana, mentre già stavano tramando la caduta del governo Berlusconi mediante l’arma proibita dello spread? Eppure, parecchi anni dopo quell’episodio vergognoso, un altro premier italiano, Conte, intrattiene sorridendo la signora Merkel e le spiega come si è fatto beffa del suo ministro degli Interni (parliamo del primo governo Conte) che aveva decretato la chiusura dei porti all’immigrazione clandestina: Se lui non fa entrare le navi, io vado a prendere i clandestini con l’aereo, si vantava di aver detto a quell’epoca: e intanto ridacchiava, seduto a un tavolo con lei, come fossero due vecchi amici che si fanno le confidenze. Questo è il livello di dignità personale e di rispetto del Paese che rappresentano i nostri uomini politici: non c’è da stupirsi che, affidata a simili mani, la nostra economia diventi facile preda degli speculatori finanziari internazionali.
Osservava l’economista francese Thomas Piketty, a caldo, in un articolo apparso sul quotidiano di sinistra Libération il 26 febbraio 2013 e intitolato: Elezioni italiane: la responsabilità dell’Europa, relativo alle elezioni politiche italiane del 24-25 febbraio, che avevano prodotto un risultato inedito di assoluta ingovernabilità, con i due maggiori schieramento “classici”, di centro-destra e centro-sinistra, quasi in parità, attorno al 30%, e un exploit sensazionale del Movimento 5 Stelle, che si piazzava subito dietro ad essi, col 25% circa dei voti e che, all’epoca, si era presentato agli italiani come fortemente euroscettico (da: T. Picketty, Si può salvare l’Europa? Cronache 2004-2015; titolo originale: Peut-on sauver l’Europe?, Les Liens qui Libèrent, 2012, 2015; traduzione dal francese Sergio Arecco, Milano, Bompiani, 2015, pp. 306-307):
Se le elezioni italiane ci chiamano in causa è soprattutto perché la crescente di diffidenza degli italiani nei confronti dell’Europa, laddove gli stessi italiani sono stati fino a tempi recenti i più filoeuropei di tutti, è dovuta in parte al nostro egoismo e alla nostra indifferenza. L’UE - e in particolare i leader delle due maggiori potenze economiche e politiche, Germania e Francia – porta una responsabilità enorme per quanto riguarda la catastrofica situazione nella quale oggi si trova l’eurozona, una responsabilità che pesa ogni giorno di più sul clima politico nei Paesi del Sud dell’Europa. Il fuoco può appiccarsi in qualsiasi momento tanto in Grecia quanto in Spagna, e nel 2014 in Catalogna avrà luogo una votazione ad alto rischio per l’indipendenza.
Si sente dire spesso che la BCE, unica istituzione federale forte, sia riuscita a convincere i mercati finanziari del fatto di essere sempre pronta a intervenire in soccorso dell’euro, e che un tale intervento consentirebbe comunque di uscire dalla crisi dell’euro stesso. In verità, la banca centrale non può garantire da sola la perpetuazione di un’unione monetaria. La migliore prova è che Italia e Spagna continuano a pagare tassi d’interesse molto più elevati rispetto a Germania e Francia.
Nel 2012 l’Italia ha notevolmente ridotto le spese e aumentato le imposte, istituendo in particolare una nuova imposta sul patrimonio immobiliare (come sugli attivi finanziari, ma a un tasso otto volte minore, in mancanza di un’adeguata collaborazione europea), al punto che il paese si trova in una situazione di avanzo primario di bilancio: le imposte superano le spese del 2,5% del PIL. Il problema è che una tale politica ha fatto precipitare il paese nella recessione, senza peraltro farlo uscire dalla spirale del debito: gli interessi pagati per il debito pubblico superano il 5% del PIL, per cui la sfida secondaria – l’unica che conta per il corso del debito – è superiore al 2,5% del PIL. E gli sforzi accettati dalla popolazione sembrano perciò vanificati.
Monti è adulato dal resto d’Europa, ma per gli italiani lo scenario è quello di un dramma dell’assurdo. E non dobbiamo meravigliarci che da un lato Berlusconi proponga il rimborso della nuova imposta e dall’altro Grillo auspichi l’uscita dall’euro.
A dire il vero, si tratta di una situazione tipica dell’Italia, la quale si trova regolarmente a registrare forti avanzi primari per far fronte al cumulo degli interessi creati dei deficit precedenti. Nel corso del quarantennio che va dal 1970 al 2010, l’Italia è l’unico Pese del G8 a godere, per così dire, di una situazione di quasi equilibrio primario (in media le spese non hanno quasi mai superato le entrate). Ma è anche l’unico paese in cui il debito pubblico è cresciuto a dismisura, perché gli interessi da pagare sul debito hanno superato in media il 6% del PIL (contro il 2-3% di tutti gli altri paesi).
La novità è che fino al 2002 l’Italia poteva svalutare la sua moneta per uscire dai passaggi più difficili e far ripartire la macchina dell’economia. Mentre con l’euro i paesi hanno rinunciato alla loro sovranità monetaria. E la contropartita dovrebbe essere un debito pubblico comune, che permetta a ciascun paese di beneficiare di tassi d’interesse bassi e prevedibili. Il che richiederebbe un voto in comune sul deficit, espresso in modo trasparente e democratico, frutto della convergenza dei membri delle commissioni finanziarie e dei Parlamenti nazionali, allo scopo di creare un vero parlamento di bilancio dell’eurozona. Se Germania e Francia non rinunciano una buona volta al loro egoismo per proporre una soluzione di questo tipo, permane il rischio – gravissimo – di nuove scosse politiche, ancora più gravi di quella determinata dal voto italiano.
E il 20 aprile 2015, in un articolo ancor più esplicito, significativamente intitolato I debiti vanno sempre pagati? (op. cit., p. 386):
Per il loro miope egoismo, Germania e Francia maltrattano il Sud Europa, e, contestualmente, maltrattano se stesse. Con un debito pubblico prossimo al 100% del PIL, un’inflazione nulla e una crescita debole, anche loro impiegheranno decenni per ritrovare libertà d’azione e d’investimento nel futuro. La cosa più assurda è che il debito europeo del 2015 è costituito perlopiù dal debito interno, come quello del 1945. Il fenomeno dell’incrocio di capitali, per cui ciascun paese detiene una quota di debito dell’altro paese, ha sicuramente raggiunto proporzioni inedite: i risparmiatori delle banche francesi detengono una parte del debito tedesco e italiano, gli istituti finanziari tedeschi e italiani possiedono una buona parte del debito francese, e così via. Considerando l’eurozona nel suo insieme, possiamo dire che ci possediamo a vicenda. Di più: gli attivi finanziari che deteniamo al di fuori dell’eurozona sono più elevati di quelli che il resto del mondo detiene nell’eurozona.
Anziché rimborsare per decenni a noi stessi il debito reciproco, non dovremmo organizzarci in modo diverso? È questo, però, un compito cui solo noi possiamo assolvere.
È degno di nota il fatto che Piketty sia un economista di estrazione socialista e che la sua prospettiva sia quella di un uomo di sinistra, non di un sovranista o di un populista di destra. Però è un osservatore onesto e non esita a denunciare l’egoismo e la stupidità dei dirigenti francesi e tedeschi, i quali, oltretutto, mentre mettono in ginocchio l’economia dei Paesi dell’Europa meridionale, creano le premesse per il tracollo delle loro stesse economie. Del resto, la sinistra cui si ispira idealmente un economista come Piketty è quella, ormai estinta, di decenni lontani: quella che badava all’interesse dei popoli e non degli speculatori finanziari. La sinistra di oggi, sia italiana che francese, ed europea in generale, è di tutt’altra pasta: è la forza politica europeista che si è stesa ai voleri della BCE e che si accolla il tristo lavoro di far digerire ai popoli, ai lavoratori, ai pensionati, ai risparmiatori, la spirale dell’impoverimento progressivo che li sta inesorabilmente depauperando e dissanguando, a esclusivo vantaggio delle grandi banche d’affari. Se la BCE non fosse quel che è, ma una vera banca centrale dei popoli europei, potrebbe intervenire per garantire il debito dei singoli Stati, così come potrebbe emettere moneta nei casi opportuni, in pratica creando un debito pubblico europeo, da gestire come un problema interno; ma si guarda bene dal farlo. Non sarebbe nel suo interesse. È perfettamente nella sua convenienza mantenere le cose come stanno e lasciare che vadano come devono andare: altrimenti, per lei sarebbe finito il tempo delle vacche grasse, senza alcun rischio e senza alcuna fatica. Eppure, sarebbe così semplice e anche così logico: se la maggior parte del debito pubblico degli Stati europei è detenuto da creditori europei, che senso ha, per l’Europa, continuare a far salire gli interessi di quel debito, e poi dover fronteggiare le nefaste conseguenze economiche sociali, come si è visto nel caso greco? In effetti, il senso c’è, ma è unicamente l’interesse della BCE: spogliare i popoli del loro risparmio privato, mettere la mani sulle loro industrie, sulle loro banche, sui loro commerci, il tutto in condizioni, per essa beninteso, di assoluta sicurezza.
Pertanto, per l’Italia, non vi sono che due possibile vie d’uscita: o rinegoziare il proprio debito, eventualmente anche minacciando di cancellarlo, e ciò facendo notare ai partner europei che essa lo ha già pagato, sotto forma di salatissimi interessi sui titoli di Stato; oppure uscire dall’eurozona. Tertium non datur. Per intraprendere una di queste due strade, però, ci vuol altro che una classe politica formata da persone come Monti, Renzi, Gentiloni, Conte o Di Maio…