L’Occidentale e la rottura tra democrazia e liberalismo
di Alain de Benoist - 02/04/2023
Fonte: GRECE Italia
La politica quotidiana non è di grande interesse, ma i maggiori sviluppi politici che si verificano nel lungo termine sono significativi. Negli ultimi decenni, il paesaggio politico si è trasformato e, per certi aspetti, è diventato più chiaro. Sono intervenute tre dissociazioni essenziali, tre grandi rotture: tra l’opinione pubblica e la classe politica di tutte le tendenze, tra la sinistra e il popolo, cioè tra la sinistra e il socialismo, e tra la democrazia e il liberalismo.
Un ruolo suppletivo a favore delle classi dominanti
La prima rottura è ormai di un’evidenza banale. Il divario che si è aperto tra il popolo e la classe dirigente, ormai percepita come una casta sradicata, non è mai stato così profondo come oggi. Prende la forma di una diffidenza generalizzata. La gente non crede più ai politici, non crede più ai media, non si fida più degli esperti. È stata troppo ingannata, le si è mentito troppo.
La seconda rottura è più rilevante. Nel 1968, in Le Monde, Mitterrand aveva posto chiaramente la domanda: «La sinistra dovrà optare per l’Europa contro il socialismo, o per il socialismo contro l’Europa?».
La risposta si è imposta dopo la sua elezione alla testa dello Stato, quando ha scelto sia l’Europa che la sottomissione alle regole del mercato. Molto presto, la sinistra ha rotto con la classe operaia per rivolgersi alle minoranze sessuali e alle minoranze etniche. Un tempo ostile a tutto ciò che veniva d’oltreoceano, si nutre adesso delle problematiche societarie americane. Insomma, ha smesso di difendere e rappresentare i lavoratori. Ha smesso di criticare lo sfruttamento capitalista e ha riservato la sua ira contro la «dominazione» delle vittime di un razzismo sistemico, ignorando allo stesso tempo i rapporti di classe. Il societario ha rimpiazzato il sociale, i people hanno preso il posto del popolo, e i radical chic quello dei proletari.
Nato dal movimento sindacale e operaio, il socialismo aveva per ragione d’essere quella di contrastare l’ingiustizia sociale innescata dall’ascesa dell’individualismo e dalla presa del potere da parte della borghesia, ma senza cadere nella reazione nazionalista. La sinistra non è più socialista, ma progressista. Per questo non c’è più un «popolo di sinistra»: alle classi popolari non interessa il «progressismo». Quando la sinistra non è più socialista, si rivolgono altrove.
Gli unici tentativi coerenti di rinnovamento ideologico a sinistra – Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali, Teoria critica del valore, populismo di sinistra (Christopher Lasch, George Orwell), per non parlare del pensiero comunitarista – non hanno avuto alcuna eco. Largamente disintellettualizzata, condannata a ripetere slogan sempre più slegati dalla realtà dopo aver abbandonato le fonti di un vero pensiero critico, la sinistra non ha altra scelta che accettare i suoi rinnegamenti a vantaggio di una vulgata fondata sul libero scambio, i diritti umani e la «lotta-contro-tutte-le-discriminazioni», il che la porta ineluttabilmente a svolgere un ruolo suppletivo a favore delle classi dominanti. È in via di decomposizione avanzata, se non di evaporazione.
La sinistra si trova infatti rinchiusa in una contraddizione molto ben descritta da Marcel Gauchet: «Per lei, la dimensione collettiva non può che essere al servizio di più diritti individuali. Ma questa fioritura di diritti individuali crea una società popolata da attori sempre più indifferenti, se non ostili, all’idea stessa di fare società».
Terza dissociazione: mentre i sostenitori della democrazia liberale continuano a presentarla come una forma politica universale insuperabile, le democrazie liberali sono in declino dappertutto nel mondo, questo riflusso rivela la loro natura profonda di oligarchie finanziarie. Sempre più numerosi sono coloro i quali si rendono conto che, al di là degli incontri di circostanza, la democrazia e il liberalismo sono non soltanto nozioni distinte ma sistemi opposti, nella misura in cui il secondo si limita a difendere i diritti individuali senza preoccuparsi delle libertà collettive, mentre la prima si fonda innanzitutto sulla sovranità del popolo. Si riscopre ciò che diceva de Gaulle: «Un potere è legittimo solo quando corrisponde al sentimento profondo del popolo». Lo aveva visto bene Carl Schmitt. Da qui, si può scegliere il liberalismo o si può scegliere la democrazia. Sono vie diverse.
Ascesa dei populismi nel bene e nel male
Bernanos diceva: «Non si rifarà la Francia tramite le élite, la si rifarà tramite la base». Il crollo dei vecchi partiti di governo continua. Il clivage orizzontale destra-sinistra, che un Eric Zemmour ha tentato senza successo di riattivare in tempi recenti, scompare sempre più di fronte al clivage verticale che oppone il popolo alle élite, o se si preferisce il blocco popolare al blocco elitario della classe manageriale dominante.
L’ascesa dei populismi continua, nel bene e nel male. In Brasile, dopo aver perso il potere nonostante il sostegno dell’agrobusiness e degli evangelici, Bolsonaro si è esiliato in Florida. In Italia, Giorgia Meloni si è rivelata una semplice conservatrice liberale il cui “sovranismo” non ha impedito di giurare fedeltà agli Stati Uniti. La situazione in Ungheria è diversa, mentre in Francia gli operai, gli impiegati e le classi medie in via di declassamento convergono verso il voto a favore del Rassemblement national. Le circostanze e gli elettorati ci sono, gli uomini talvolta anche, ma ciò che manca più spesso è il timone. Molti populismi ignorano anche ciò che significa populismo, ovvero prima di tutto sovranità del popolo. Sono ancora meno quelli che si rendono conto che una critica conseguente delle élite passa dalla capacità di un movimento popolare di farne apparire di nuove. Resta anche da vedere se si può ancora essere eletti senza dare garanzie alla logica del Capitale. Se così non è, a che serve l’azione politica?
(Éléments N. 200, febbraio-marzo 2023)
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