L'urgenza di politica anti-egemonica e proattiva
di Enrico Tomaselli - 27/12/2024
Fonte: Giubbe rosse
Il 2024 sembra chiudersi in una condizione generalmente sfavorevole alle forze ad ai paesi che si oppongono all’egemonismo occidentale, che a sua volta sembra preludere ad un 2025 all’insegna di una rinnovata offensiva globale dell’egemone. Il tracollo della Siria, l’ostentata sicumera di Trump e di Netanyahu, la difficile situazione in Iran, il moltiplicarsi di situazioni in cui l’esercizio della democrazia viene sempre più ridotto a mero aut-aut (Georgia, Romania, Moldavia)… tutto insomma sembra indurre al pessimismo, almeno per chi auspica un passaggio verso un nuovo ordine mondiale basato sul multipolarismo.
Ma anche se molti elementi sono effettivamente negativi, si tratta però sostanzialmente di una distorsione percettiva, in larga misura indotta dalla propaganda occidentale – in cui del resto siamo pienamente immersi. Volendo quindi tracciare una sorta di bilancio, e soprattutto puntare lo sguardo sull’anno che verrà, è bene farlo a partire dai dati di fatto, piuttosto che dalle sensazioni.
Il 2025 vedrà con ogni probabilità la fine del conflitto cinetico in Ucraina – e questo, già di per sé, è un fatto positivo – e ciò rappresenterà un passaggio cardine, destinato a pesare pesantemente sugli anni successivi, perché quale che sia il modo in cui si concluderà non potrà mutare la sostanza di tale evento, ovvero la sconfitta politico-militare della NATO, e quindi dell’egemonismo occidentale. La portata di tale sconfitta, che è inevitabile, ancora non appare pienamente – e di sicuro saranno fatti sforzi enormi per occultarla – ma non solo una volta avvenuta risulterà evidente, i suoi effetti si propagheranno come onde sismiche, scuotendo l’intera architettura politica occidentale.
Nonostante quanto si possa pensare, difficilmente il conflitto si potrà chiudere in virtù dell’azione messa in campo dalla nuova amministrazione americana, e ciò per due fondamentali ragioni: innanzitutto, l’assoluta incapacità (e mancanza di volontà), da parte statunitense, di riconoscere e comprendere le ragioni e gli interessi della Russia, e poi (cosa forse ancor più significativa) perché a muovere il blocco di potere coagulato intorno alla figura di Trump è una rinnovata fiducia nell’egemonia degli Stati Uniti e nel loro diritto-dovere di esercitarla globalmente. Un approccio, questo, che mina alla base qualsiasi possibilità di una negoziazione tra pari, ed ancor più che rende impossibile – per gli USA – accettare qualunque esito che possa essere percepito come una sconfitta. Tutto ciò rende pertanto pressoché impossibile il raggiungimento di un accordo reciprocamente accettabile; e se non esistono spazi di mediazione possibile, ad entrambe le parti non resta che imporre con la forza la propria soluzione al conflitto. È certo che Trump proverà ad esercitare la massima pressione possibile su Mosca, nel tentativo di costringerla ad accettare un negoziato in cui rinunci (quantomeno in parte) alle sue legittime aspettative; come dice Lavrov, “la diplomazia occidentale si riduce tutta a minacce, sanzioni, punizioni e ricatti”.
Un tale approccio da parte di Washington a sua volta non lascerà alla Russia altra alternativa che risolvere il conflitto sul campo di battaglia. Per il Cremlino, infatti, vi sono almeno due punti irrinunciabili, che lo stesso Lavrov ha delineato: rifiuto di una tregua (una strada che non porta da nessuna parte) ma ricerca di una soluzione globale e duratura, così come la necessità che gli eventuali accordi per risolvere il conflitto debbano includere un meccanismo che garantisca l’impossibilità di violarli. Soprattutto questa seconda parte, stante l’assoluta inaffidabilità occidentale (che Mosca ben conosce), è estremamente delicata e, al tempo stesso, assai difficile da garantire effettivamente, ragion per cui molto probabilmente la Russia alla fine preferirà assicurarsela manu militari. Detto altrimenti, solo la distruzione delle forze armate, e della capacità dell’industria bellica di Kiev, potrà dare un’affidabile certezza sulla non adesione alla NATO e sul non riarmo ucraino.
Un altro aspetto significativo è che, sotto l’impulso di spinte diverse, l’Unione Europea – in quanto gabbia politica per i valvassini del vecchio continente – è destinata, se non ad implodere nel breve termine, certamente a risultare sempre più divisa, sempre meno autorevole, sempre più conflittuale al suo interno – opponendo la cupola di Bruxelles a vari stati nazionali.
Fondamentalmente, per i paesi europei il nuovo anno porterà innanzitutto un accentuarsi della guerra commerciale con l’altra sponda dell’Atlantico, con la manifesta volontà dell’amministrazione Trump di procedere attraverso brutali ricatti (aumento dei dazi, pretesa di maggiori acquisti di GNL, aumento del contributo NATO al 5% del PIL…). Assai difficilmente ci sarà una qualche opposizione da parte dei vertici dell’UE, ormai interamente composti da mediocri lacchè completamente al servizio degli interessi americani. Al tempo stesso, si moltiplicheranno i tentativi – da parte dei pochi governi ancora capaci di difendere gli interessi nazionali – di smarcarsi dalle politiche dell’Unione Europea, e di trovare autonomamente un modo per ridurre il danno provocato dalle politiche eurosuddite.
E tutto ciò si manifesterà in un quadro di grande instabilità interna dei paesi, membri o no dell’Unione Europea. Basti pensare al quadro politico che si sta delineando nei due più importanti, Germania e Francia, che lascia presagire un accentuarsi dello squilibrio interno all’UE, così come all’inasprirsi delle crisi interne in altri paesi – Romania, Moldavia, la stessa Gran Bretagna.
A ciò si andrà inevitabilmente ad aggiungere la crisi della NATO stessa, da un lato stressata dalle pressioni dell’amministrazione americana, dall’altro messa a dura prova nel mantenere un crescente impegno economico mentre la crisi susseguente alla rottura con la Russia morde sempre più; e, ovviamente, mentre già emerge la consapevolezza che gli europei da soli, nonostante il bellicismo sbandierato dalle élite, non sono assolutamente in grado di fronteggiare la Russia [1], la vittoria di questa in Ucraina – comunque conseguita – infliggerà una potente mazzata alla credibilità dell’Alleanza Atlantica, ne minerà la coesione interna e, non da ultimo, scuoterà dalle fondamenta le leadership europee che, invece, hanno puntato totalmente sulla sconfitta della Russia.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, sgomberato il campo dalla cortina fumogena della propaganda, non è poi così difficile ricollocare correttamente gli avvenimenti. Basti prendere le affermazioni di Netanyahu susseguenti alla caduta di Assad e verificarle una per una, per rendere evidente come la realtà sia profondamente diversa da come ci viene rappresentata dai media. Il premier israeliano ha infatti sostenuto che, sotto la sua guida, Israele ha sconfitto Hamas (la Resistenza palestinese), ha sconfitto Hezbollah, ha abbattuto il regime siriano e distrutto il suo apparato militare, ha minato seriamente la capacità di difesa aerea e di produzione missilistica iraniana, e che i suoi prossimi passi saranno il definitivo annichilimento del movimento Ansarullah in Yemen e dello stesso regime iraniano.
Vediamo dunque che, nonostante le affermazioni autoincensatorie di Netanyahu, la realtà effettiva è che la Resistenza palestinese a Gaza non è affatto sconfitta. Nonostante l’indiscutibile sproporzione di forze, e nonostante la terribile politica genocida perseguita dal criminale governo israeliano, questa non solo continua a combattere strenuamente sul proprio territorio (costringendo Israele alla guerra più lunga della sua storia: già 15 mesi) ma, anche grazie alle contraddizioni interne che è riuscita ad aprire in seno al nemico, sta comunque costringendo Tel Aviv ad addivenire ad un accordo per lo scambio di prigionieri, all’interno del quale trovano spazio sia un urgente intervento in favore della popolazione civile della Striscia, sia un (sia pur parziale) ritiro delle forze armate israeliane dal territorio palestinese. E per quanto, come è ovvio, le varie formazioni combattenti abbiano subito perdite consistenti [2], le stesse fonti d’intelligence dell’IDF riconoscono che le stesse sono state in grado di reclutare almeno 4.000 nuovi combattenti.
Parallelamente, sull’altro fronte palestinese, quello della Cisgiordania, la situazione diventa sempre più incandescente, segnalata non solo dalla crescita delle formazioni combattenti, e dalla durezza della resistenza che incontra l’IDF nelle sue quotidiane incursioni, ma dal fatto che il governo israeliano si è visto costretto a spingere il governo coloniale dell’ANP ad assumere una posizione sempre più esposta, non semplicemente di fiancheggiamento all’operato dell’esercito israeliano, ma di guerra aperta alla Resistenza. Per ridurre i rischi per i propri militari, infatti, Israele ha spinto le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese ad impegnarsi in scontri diretti, sino al punto di fornire a queste armi sinora proibite.
Per quanto riguarda Hezbollah, è fin troppo evidente che l’IDF ha incontrato grandissime difficoltà anche solo a penetrare per centinaia di metri in territorio libanese, ha pagato un prezzo pesante in uomini e mezzi, ed ha visto un costante espandersi ed intensificarsi degli attacchi di missili e droni sul territorio israeliano. Di fatto, Israele non è riuscito ad ottenere nessuno degli obiettivi che si poneva al momento dell’invasione di terra: non ha respinto Hezbollah al di là del fiume Litani, non ha potuto far rientrare le decine di migliaia di coloni costretti ad evacuare dal nord della Palestina occupata. Anche qui, in un certo senso, si è ripetuto lo schema già visto a Gaza: la assoluta superiorità aerea israeliana si è tradotta nel massiccio bombardamento della popolazione civile, utilizzata come forma di pressione laddove il confronto tra forze militari si è rivelato incapace di ottenere i risultati voluti. L’esito finale del conflitto (sinora) è stato quello largamente prevedibile – e su queste pagine chiaramente previsto – di un fallimento dell’offensiva militare israeliana, a cui ha fatto seguito una mediazione internazionale volta ad offrire una via d’uscita dall’impasse.
La situazione attuale vede Israele violare i termini dell’accordo di cessate il fuoco (già più di cento volte in pochi giorni), forte della protezione occidentale che ne copre ogni malefatta, ma senza che dal conflitto sia conseguito alcun esito strategicamente favorevole. Per quanto certamente a sua volta provato dallo scontro, Hezbollah esce a testa alta dal confronto, e può dedicarsi sia alla ricostituzione del suo apparato militare, sia al sostegno alle popolazioni civili colpite dalle bombe israeliane.
Sulla questione dei presunti colpi inferti alle difese, ed alle capacità di produzione missilistica, iraniane, a parte le millanterie di Netanyahu e soci abbiamo davvero pochissimi dati oggettivi. Quello che si può dire con certezza è che è stato colpito parzialmente un impianto di produzione missilistico. Uno, ed in parte. Quanto alle difese antiaeree, il fatto che l’aviazione israeliana si sia tenuta lontana dal territorio iraniano, nel portare i suoi attacchi, porta a pensare che queste siano invece ancora ben efficienti. Del resto, è noto che tali difese sono costituite anche da moderni sistemi S-400 russi, e da sofisticate apparecchiature di disturbo elettronico, anch’esse fornite da Mosca. A sua volta, l’Iran ha dimostrato di poter colpire in profondità sul territorio israeliano, arrivando anche ad obiettivi sensibili.
Nella migliore delle ipotesi, tra Israele ed Iran si è al momento stabilito un equilibrio di forza, con una reciproca deterrenza. Tanto è vero che Tel Aviv cerca disperatamente di trascinare gli Stati Uniti in un conflitto con Teheran, consapevole che – fintanto il conflitto resta agli attuali livelli – non ha alcuna possibilità di prevalere, e se mai dovesse invece raggiungere livelli più alti il vantaggio strategico iraniano prevarrebbe. In tutto ciò, tenendo presente che è ancora pendente l’operazione True Promise 3, che la Repubblica Islamica ha promesso, ma che prima di essere portata a termine richiede una accorta preparazione, specie in vista di un probabile coinvolgimento statunitense. Tra pochi giorni, oltretutto, verrà firmato l’accordo di partenariato strategico Russia-Iran [3], che già di per sé implica un rinnovato e rafforzato interesse russo nella difesa del paese, ma che – qualora l’accordo contenga una clausola di difesa reciproca, come quello simile tra Mosca e Pyongyang – potrebbe significare un vero e proprio ombrello russo a protezione dell’Iran, più che sufficiente a dissuadere Washington e Tel Aviv dal portare attacchi realmente pericolosi.
Venendo infine allo scenario siriano post-Assad, si può ben dire che questo appare assai meno favorevole e glorioso, per l’occidente in generale e per Israele in particolare. Innanzitutto, seppure la caduta di Assad rappresenta un indiscutibile successo, che gli occidentali hanno perseguito per almeno 15 anni, non si può non sottolineare come questa si sia determinata del tutto indipendentemente dall’azione israeliana – che semmai ha approfittato della situazione per portare a compimento passi che non aveva osato fare in circostanze diverse. In ogni caso, non solo la situazione è ben lungi dallo stabilizzarsi (i media occidentali non lo dicono, ma molte delle fazioni che compongono l’Hayat Tahrir al-Sham si stanno attivamente dedicando alla repressione delle minoranze religiose, provocando dure proteste popolari, mentre formazioni dell’ex-esercito sirianio si stanno impegnando in azioni di guerriglia), ma è foriera di sviluppi non necessariamente favorevoli per l’occidente. Indipendentemente da quanto e come abbiano concretamente agito nel determinare la subitanea caduta del regime siriano, i diversi soggetti in campo si trovano oggi schierati in modo assai diverso, e per molti aspetti conflittuale.
La Turchia, con alle spalle i petrodollari del Qatar, sta assumendo sempre più il ruolo di main sponsor della nuova Siria, mentre per un verso gli Stati Uniti sembrano preferire arroccarsi in difesa dei curdi, nell’est del paese. Pesano probabilmente la diffidenza verso Erdogan, la volontà di mantenere un controllo diretto sulle risorse petrolifere ed agricole siriane, ed il desiderio di impedire la rinascita di una Siria unitaria, anche se più o meno ottomana. Per un altro verso, Israele ha colto la palla al balzo per muoversi – come sempre – al di fuori e contro ogni diritto internazionale (come del resto si addice al maggior stato canaglia della storia moderna), occupando una porzione di territorio siriano, comprese alcune aree di rilevante importanza strategica, con la manifesta intenzione di appropriarsene, e procedendo alla sistematica distruzione dell’intero apparato militare siriano. Due operazioni rese possibili soltanto dalla totale assenza di qualsiasi capacità di opporvisi militarmente.
La posizione di Israele, peraltro, assai più di quella americana, è assolutamente inconciliabile con quella turca, soprattutto per quanto riguarda l’integrità territoriale della Siria. E quindi, anche se tra i due governi corre tutto sommato buon sangue (anzi, buon petrolio, che Ankara fa arrivare in Israele dall’Azerbaijan), in prospettiva le tensioni sono destinate a crescere. Erdogan, oltretutto, ha fatto largo uso di una retorica anti-israeliana ed islamica, nell’ambito della sua strategia di soft-power, ma la contraddizione con la concreta posizione turca è destinata prima o poi ad esplodere. E la questione siriana è un facile terreno su cui tale esplosione può innescarsi.
Anche se, certamente, la caduta del regime siriano ha rappresentato un colpo per l’Asse della Resistenza, questo viene di molto sopravvalutato. Innanzi tutto, perché mantenere in piedi il regime aveva un costo considerevole per l’Iran (ma anche per l’Iraq e per la Russia), che fornivano petrolio in grandi quantità, grano, medicinali ed altre forniture che Damasco non poteva altrimenti procurarsi. Tutte risorse che ora possono essere diversamente utilizzate. Ma anche perché il ruolo siriano come passaggio tra Iran e Libano era molto meno significativo di quanto si pensi; da molto tempo, infatti, Hezbollah si è attrezzato per essere capace di provvedere da sé alle proprie necessità militari. Né più né meno come lo Yemen, che pur non avendo alcun corridoio terrestre che lo colleghi all’Iran è stato ed è capace di difendersi e di attaccare.
Va infine rilevato che la ricostruzione dello stato siriano, sia pure sotto l’egida turca, non potrà fare a meno di ricorrere in larga misura ai quadri civili e militari del vecchio regime. Già si parla di ricostituire un esercito nazionale di 300.000 uomini, di cui 40.000 saranno combattenti di HTS, e 50.000 dell’SNA (di strettissima osservanza turca). Ne consegue che oltre 200.000 dovranno essere reclutati altrove; se non dovesse andare in porto una mediazione complessiva tra turchi e curdo-americani (cosa niente affatto facile), che porti all’integrazione delle forze combattenti curde, inevitabilmente il grosso del nuovo esercito siriano sarà costituito da ex-militari ed ex-ufficiali del Syrian Arab Army.
Infine, pur tenendo conto della ambiguità (se non della doppiezza) di Erdogan, che per molti versi è persino più inaffidabile degli americani, resta il fatto che l’unico ambito in cui si discute concretamente del futuro della Siria – e lo si fa avendo come principio base il mantenimento dell’integrità territoriale – resta il cosiddetto formato di Astana, che vede insieme Turchia, Russia ed Iran.
Dal punto di vista israeliano, quindi, seppure è senz’altro vero che la fine di Assad può essere comunque considerato un vantaggio, rimane che le ultime mosse di Tel Aviv hanno, ed avranno sempre più, implicazioni non necessariamente positive. Al di là del fatto che, come si è appena detto, l’evoluzione della situazione potrebbe portare ad una crisi nelle relazioni turco-israeliane, è indubitabile che le pretese annessionistiche sul sud siriano aumenteranno le tensioni con la comunità internazionale e l’isolamento di Tel Aviv, e soprattutto che l’estesa occupazione del territorio siriano implica una ulteriore estensione spazio-temporale dell’impegno militare, già messo a dura prova dagli innumerevoli conflitti aperti e/o congelati.
Se quindi questo è il quadro reale della situazione globale, quantomeno sommariamente tratteggiata e limitatamente ai due fronti più caldi, ne consegue la situazione dello scontro tra le forze egemoniche occidentali e quelle anti-egemoniche e multipolari, è effettivamente assai meno sfavorevole di quanto possa apparire, e di quanto interessatamente venga rappresentato.
Ciò però non toglie che, pur nelle sue oggettive difficoltà, l’occidente stia mettendo in campo una molteplicità di iniziative descrivibili come offensive, nell’ambito della più ampia guerra ibrida che sta conducendo. E che questo ponga una serie di sfide, in particolare ai paesi che si trovano in prima linea, cioè appunto Russia ed Iran.
Per i quali si pone, come sempre verrebbe da dire, il dilemma di come gestire il conflitto.
Appare abbastanza evidente che, sinora, la Federazione Russa ha assunto una posizione che si potrebbe definire come reattiva, caratterizzata cioè da un approccio che vede Mosca reagire alle iniziative occidentali, preoccupata più di evitare una escalation del conflitto che di mantenere una sua propria iniziativa. In particolare, si direbbe che risulti carente proprio sul piano della guerra ibrida, laddove appare sotto questo profilo assolutamente sulla difensiva. Ad esempio, rispetto ad una serie di situazioni geopolitiche (Georgia, Transinistria, Armenia, Serbia…) l’azione russa sembra quanto meno timida, e non va molto oltre le dichiarazioni di principio. Mentre magari altrove – si pensi al Sahel ed al nord Africa, o all’area caraibica – si vede lo sviluppo di un disegno geopolitico efficace (magari non velocissimo, ma comunque capace di portare a casa risultati), nel Caucaso sembrerebbe ancora insufficiente.
Più in generale, si potrebbe dire che Mosca faccia più affidamento sugli avvertimenti, più volte lanciati all’occidente ma con scarsi risultati, e molto meno sui gesti concreti, dimenticando che le élite occidentali capiscono soltanto il linguaggio della forza, e ragionano secondo uno schema strettamente utilitaristico, raffrontando pro e contro. Il che renderebbe assai più efficace alzare concretamente il prezzo dei contro, piuttosto che minacciarlo.
Da questo punto di vista, pur con una capacità assolutamente inferiore, sotto ogni punto di vista, va riconosciuto che invece l’Iran si è mostrato assai più proattivo e, per certi versi, strategicamente lungimirante. La costruzione dell’Asse della Resistenza, ad esempio, è assai più che una mera alleanza anti-israeliana, ma rappresenta un disegno strategico che punta a far saltare le classiche linee di frattura coloniali, etniche e religiose (persiani vs arabi, sunniti vs sciiti), in vista di una guerra di liberazione dall’egemonia imperialistica occidentale, capace di attraversare l’intero Medio Oriente, e che vede nella sconfitta dell’entità sionista solo il primo step.
Così come la volontà e la capacità di portare l’attacco al nemico, e non semplicemente di reagire alle sue mosse, si è rivelata strategicamente fondamentale. Per quanto il prezzo pagato e da pagare sia alto – e non potrebbe essere altrimenti – è indiscutibile che la strategia iraniana ha inchiodato israele ad un conflitto di lunga durata, che sta stressando fortemente le fondamenta stesse del progetto sionista.
Senza mai avere la pretesa di insegnare strategia dal proprio divano alle leadership di paesi che hanno una storia millenaria alle spalle, e che indiscutibilmente se ne dimostrano consapevoli ed all’altezza, ci piacerebbe pur tuttavia assistere, nell’anno che si appresta, ad un rinnovato protagonismo russo, iraniano e cinese. Ad una maggiore capacità di iniziativa a 360°, anche con più spregiudicatezza. Ad una maggior risolutezza.
Tempo addietro, Putin ebbe a dire che, se sei convinto che la rissa è inevitabile, meglio colpire per primo. Forse sarebbe il caso di estendere leggermente il concetto. Tante volte, un pugno dato al momento giusto consente proprio di evitare la rissa. Mentre l’esitazione spesso la rende più probabile.
1 – Dopo che per mesi e mesi i governi delle piccole repubbliche baltiche sono stati gli alfieri del riarmo europeo ed i maggiori sostenitori di un approccio bellicoso verso Mosca, ecco che arriva inopinatamente il contrordine: le massime autorità di Finlandia, Lettonia ed Estonia hanno riconosciuto che i Paesi europei della NATO non possono affrontare efficacemente la Russia senza il sostegno degli Stati Uniti. In un’intervista all’Independent (Cfr. “Nato cannot defend Europe from Russia without the US, warn alliance’s frontline leaders”, Tom Watling, Millie Cooke, Independent) alla quale hanno partecipato il Presidente lettone Edgars Rinkevich, il Presidente finlandese Alexander Stubb e il Primo Ministro estone Kristen Michal, i tre leader hanno espresso il parere che la NATO “non è pronta” a combattere la Russia senza gli Stati Uniti e hanno invitato gli alleati ad aumentare significativamente le spese per la difesa. In particolare, il Presidente della Finlandia ha osservato di non poter immaginare la NATO senza gli USA.
2 – Ovviamente non disponiamo di dati ufficiali sul numero dei combattenti palestinesi caduti, ma è possibile fare una stima (molto approssimativa) a partire dai dati conosciuti. Per valutazione unanime, le forze della Resistenza potevano contare – al 7 ottobre 2023 – su circa 50/60.000 uomini, ovvero circa il 2,5% della popolazione totale (2.300.000). Il numero dei morti registrato in questi mesi di guerra è di poco superiore ai 45.000, ma sicuramente non conteggia le migliaia di morti ancora seppelliti sotto le macerie, e quelli semplicemente dati per dispersi. Tenendo presente che alcune delle cifre diffuse da alcuni osservatori, che fanno ascendere il numero a quasi 200.000, ma che in ciò fanno anche una proiezione stimata delle morti che conseguiranno (per fame, malnutrizione, malattia, mancate cure mediche, etc), si può ragionevolmente presumere – con un buon margine di abbondanza – che il numero attuale di morti sia stimabile in 100.000. Applicando strettamente la medesima proporzione di prima (2,5%), ne conseguirebbe che i combattenti caduti sono 2.500; nonostante sia presumibile che la maggior parte delle vittime siano civili, uccisi nel corso dei bombardamenti continui, vogliamo comunque sovrastimare le perdite tra le fila dei combattenti, e ritenere che siano stati il doppio, ovvero 5.000. Saremmo comunque nell’ordine di un 10% massimo della forza combattente, una perdita significativa ma ben lungi dall’inficiare la capacità di combattimento. E peraltro, come visto, già abbondantemente ripianata dall’arrivo di nuovi combattenti. Giusto per fare un esempio, in ordine alla capacità di combattimento con un simile tasso di perdite, si consideri che l’esercito ucraino ha probabilmente avuto circa 500.000 caduti, ma a fronte di un numero complessivo di mobilitati di circa 2.500.000, forse 3.000.000, ovvero circa il 20%.
3 – L’accordo sul partenariato strategico globale tra Russia e Iran sarà firmato il 17 gennaio a Mosca, durante la visita del presidente della Repubblica islamica Pezeshkian.