La bellezza e la fame
di Livio Cadè - 30/04/2023
Fonte: EreticaMente
La bellezza, come l’amore o il sogno, è secondo alcuni un’illusione. Uno di quei beni superflui, senza finalità pratiche, certo non indispensabili per vivere, a differenza dell’acqua e del cibo, e forse nemmeno necessari, come una lavatrice o una bicicletta. Quindi, fondamentalmente inutili. Salvo poi rendersi conto che non possiamo farne a meno. Non potrebbe infatti esserci vita più insensata e opprimente di quella vissuta senza amore e bellezza, o totalmente priva di sogni.
Che la bellezza non sia un fantasma ma una sostanza concreta si arguisce dal fatto che ne abbiamo fame. Questo significa che ci nutre. La fame indica infatti un bisogno del nostro organismo. Si dirà che è una fame metaforica, di cibi simbolici. D’accordo, ma la nostra coscienza se ne alimenta. E qual è il fondamento d’ogni realtà se non il nostro apparato sensorio e mentale? Dunque, se siamo fatti di coscienza, il cibo che ne crea e plasma i tessuti non può certo essere irreale.
Reale è infatti ciò di cui siamo composti e di cui abbiamo fame, quello che, assimilando, rendiamo parte di noi. Il nostro essere è come una cavità, un vuoto che partecipa alla vita attraverso processi trofici e digestivi che gli danno forma e ne regolano le funzioni. «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni» dice Prospero. Ma potremmo dire: della sostanza dell’amore o della bellezza. Perché di queste cose ci nutriamo.
Ciò che unisce l’arte, l’amare e il sognare è quindi la capacità di creare fenomeni di coscienza e alimentarli. L’essere si rivela tanto nella dualità di soggetto pensante e oggetto pensato quanto nello scambio di energia del mangiare e dell’essere mangiato. “Mangio dunque sono”. Tutto è cibo. Quando qualche sostanza è carente in me, avverto lo stimolo della fame. A volte leggero, a volte imperioso e cruciale. Devo allora ingerire certi elementi atti a ristabilire nelle cellule una stabile energia. È un’arte dell’equilibrio vitale, giusto mezzo tra eccessi e difetti, rinuncia e appagamento, intemperanze occasionali e salutari astensioni.
Noi si tratta solo di fornire il giusto apporto di grassi, zuccheri ecc., ma anche di assimilare sensazioni, pensieri, sentimenti. Il provar fame e il saziarsi riguarda fenomeni di impoverimento e rigenerazione tanto del corpo quanto dell’anima. Un bel libro, un bel viaggio, una bella canzone, un bel volto, servono a soddisfare una fame di bellezza. Se ne sentiamo la necessità è perché la fisiologia dello spirito richiede alcune specifiche sostanze per rivitalizzare le sue cellule, i suoi organi denutriti e sofferenti. Ogni cibo ha un tipico profumo, un gusto particolare, ma oltre a ciò contiene in sé invisibili valori nutritivi. Così ogni bellezza ha non solo un’apparenza piacevole ma una ricchezza di significato.
Il Bello è superfluo solo nel senso che supera, eccede la dimensione dell’utile. Non potremmo dire se no che “la bellezza salverà il mondo”. Affidarsi a una salvezza estetica è sicuramente irrazionale se pensiamo che il mondo dipenda dall’economia del denaro e non da quella dello spirito. Ma diventa possibile se crediamo che “l’uomo non vive di solo pane”.
È questa una verità che è inutile spiegare. Del resto, la fame non dipende dal cervello, e nemmeno dallo stomaco, ma dall’essere nella sua totalità. Un bambino non sa nulla del latte e tuttavia cerca il seno della madre. Così, non serve dimostrare la bellezza a parole. Alcuni liquidano il problema equiparando il bello al piacevole. Ma è una concezione superficiale. Ci sono infatti bellezze che feriscono, creano malinconici turbamenti, vertigini. Non esiste nulla al mondo che sia libero dal dolore, e una bellezza che ne fosse priva sarebbe senza vita.
Forse non esiste nulla che possa placare i nostri più profondi bisogni. Perciò immaginiamo un aldilà, dove la nostra fame è finalmente soddisfatta. “Tutto è dolore in questo mondo: essere separati da ciò che si ama, essere uniti a ciò che non si ama”. Tipico leit motiv buddhista, da cui si desume non vi sia salvezza tranne lo sfuggire a una ruota frustrante di creazioni e distruzioni. Lo dice anche Cristo: «chi beve di questa acqua avrà ancora sete». Non si tratta di salvare il mondo, dunque, ma di superarlo.
Tuttavia è impossibile cancellare nell’uomo l’amore per la bellezza, anche se effimera e incostante. Una rosa non è meno bella perché sfiorisce. La caducità del bello non ci salva radicalmente dal dolore, ma ci concede un momentaneo riposo. Rappresenta una salvezza relativa su cui poggiamo per tendere verso una Bellezza assoluta, in cui la fame definitivamente si estingue. Ma come può la bellezza curare la nostra sofferenza?
Parlare del dolore è sempre un’operazione astratta. Perché filosofare è porre una distanza tra noi e l’esperienza. Collocare il dolore in uno spazio teoretico, sublimarlo, farne oggetto di riflessione ecc. è possibile solo in sua assenza. Il capire rimanda infatti al guardare, ovvero alla relazione tra lo sguardo e un oggetto. Quando teorizziamo noi osserviamo da lontano, e più siamo teorici più ci separiamo dalla realtà. La radice théa, che indica il guardare, è la stessa da cui nasce ‘teatro’, è qualcosa che ci fa spettatori.
Ma più il dolore aumenta più si riduce la distanza necessaria all’occhio per vedere, fino ad azzerarsi, a chiudere lo sguardo su sé stesso. Resta allora solo l’atto del soffrire, senza alcuna rappresentazione. Il dolore fa tutt’uno con noi, comprime in un solo coagulo anima e corpo. Quando questo accade, la bellezza si ritira. Perché essa chiede distinzione, ordine e linguaggio, mentre il dolore ci immerge nell’informe, nel suono inarticolato. Il potere del Bello di consolarci resta sommerso, ammutolito, finché l’alta marea del dolore non si abbassa.
Ciò che la bellezza può lenire è quindi solo il ricordo del male sofferto. Può ammorbidire la crosta di memorie dolorose sedimentate sul fondo di noi stessi. Per questo il tempo ha un effetto catartico. Creando una lontananza tra noi e la nostra pena ci permette di guardarla con distacco. Potremmo allora trovarla persino sublime, come una tragedia greca, o il Laocoonte che si contorce nelle spire del serpente. Perché “Dio risplende anche nel dolore”.
Ma come spiegare il piacere provato di fronte a un’opera d’arte, o l’intimo diletto che ci dà un fiore, un canto d’usignolo? Si è detto che la bellezza risponde a un’esigenza interiore, a un trofismo dello spirito. Questa necessità consiste nell’uscire, anche per poco, dalla dimensione claustrofobica della nostra autocoscienza. Il Bello ci aiuta a dimenticare i nostri limiti e difetti, a ricordare una perfezione che è già dentro di noi. Ci sottrae momentaneamente alla morsa dell’io empirico, alle sue paure e dai suoi bisogni, alla sua ricerca dell’utile.
L’esperienza estetica coincide con un meravigliarsi e un aprirsi del cuore. Dissolve la dura membrana dell’ego, quasi vi stimolasse un afflusso di succhi gastrici. Lo sguardo si abbandona allo stupore senza preoccupazioni o interessi personali. Cade il velo di opacità che copre gli oggetti, si sciolgono i nodi di una mente contratta e irrigidita nelle sue operazioni mondane. E a misura che una chimica spirituale provoca tale ‘lisi’, si produce in noi una liberazione e una beatitudine. Siamo trasportati in una trascendenza, eccedenza superflua rispetto ai nostri calcoli morali e razionali, rischiarante la vita di un inutile splendore.
La bellezza è ciò che ci affranca dal dolore del limite, una sorta di finestra sull’infinito. Ci ristabilisce nell’ordine e nell’armonia del creato, ovvero riflette quest’armonia dentro di noi. L’incanto di un cielo stellato ne è l’espressione più emblematica. Ma può essere un lavoro ben fatto, un sorriso di bimbo. È qualcosa che esclude il senso del ‘mio’, perché il contemplare non è possedere ma partecipare. Per questo desideriamo trasmetterne ad altri l’esperienza. Uno dei caratteri essenziali dell’amico è che vede il bello dove lo vediamo noi. La condivisione del piacere eccita una dilatazione dell’essere, un’amplificazione della coscienza. E viceversa, chi non aderisce alla nostra visione estetica, provoca in noi un penoso disagio.
Considerazioni inattuali, si potrebbe dire. Da un lato per il discredito di cui soffrono oggi i temi metafisici, dall’altro per una diffusa inettitudine ad apprezzare l’inutile. Tutto per noi deve avere uno scopo. Diceva Nietzsche: «abbiamo l’arte per non morire di verità» ma io direi piuttosto per non soccombere all’utilità. La bellezza è fine a sé stessa, quindi è libera. Questo la rende invisa alla politica e all’economia. Non ha causa, e questo la rende incomprensibile alla scienza. Dobbiamo perciò adeguarla ai nuovi bisogni. Dopo la morte degli Dei e il declino di ogni filocalia spirituale, è la tecnologia a prometterci la salvezza. La questione si sposta così dall’estetica alla tecnica, l’artista cede il posto all’ingegnere.
Avocando a sé ogni potere incantatorio e salvifico, il progresso ha prodotto nell’arte una profonda crisi di identità, portandola a vergognarsi dei suoi tratti metafisici, inadatti a competere con la forza di numeri, dati, bilanci. Se la scienza incarna ‘la verità’ e la tecnologia ‘l’utilità’, l’arte non può sentirsi che falsa e inservibile. Oppure tentare di farsi anch’essa razionale, dimostrativa, funzionale. Questa crisi è riconoscibile nel rapido disgregarsi dei suoi linguaggi, nel teorizzare un’arte concettuale, i cui contenuti pedagogici, didascalici, sociologici, dovrebbero giustificare la sgradevolezza delle sue forme. Si separa così la bellezza dalle sue inconsce radici, dal suo elemento dionisiaco e irrazionale, a favore di un moralismo estetico, ostile a ogni godimento che non sia puramente cerebrale. È un’arte di cose nate morte, in cui non si sente battere il cuore dell’artista. Del resto, «più il mondo è terrificante più l’arte diventa astratta» diceva Klee.
Nel suo lavoro “Al di là del principio del piacere” Freud descrive un bambino di 18 mesi che, quando la mamma è assente si trastulla lanciando lontano un rocchetto di cui tiene in mano il filo, facendolo scomparire per poi ritirarlo a sé. Ci si chiederà cosa c’entri questo con la bellezza. Ora, secondo Freud, questo gioco rappresenterebbe il tentativo di superare la frustrazione dell’abbandono. Il rocchetto diviene simbolicamente la madre che, tirando il filo, ritorna e calma la solitudine del bimbo. Tuttavia, questo espediente sarebbe inefficace se il bimbo non sapesse illudersi. Questa illusione è anche l’essenza dell’arte, del suo potere di consolarci con presenze simboliche. È un gioco di prestigio che implica una scissura nella coscienza, tra l’io-mago, che conosce il trucco, e l’io-spettatore che si lascia ingannare.
È stupefacente, ad esempio, come la musica possa offrirci una mimesi dell’animo umano, rappresentarne tutti gli stati – gioia, riso, dolore, paura, ira, eroismo ecc. Rappresentandoli in forma simbolicamente evocativa, pone una rassicurante distanza tra noi e i movimenti tellurici o gli sperdimenti dell’anima. Possiamo calarci in estasi erotiche, in impeti guerrieri, restando immobili, come quando sogniamo. Anche le scene più terribili possono essere esteticamente godute, come quando ammiriamo da lontano la bellezza di una tromba marina o di un’eruzione vulcanica.
La musica, in fondo, è un’evoluzione incredibilmente raffinata di quel gioco fatto di distacchi-ritorni della madre, alternanza di appagamento e frustrazione, fame e sazietà. Il movimento del rocchetto si trasforma nel rapporto armonico tra toni tensivi e distensivi, accordi dissonanti e consonanti. Ci mostra come la bellezza dipenda dall’interazione e dall’equilibrio di forze contrapposte. La vita con le sue contraddizioni è calata in un ordine ideale di simmetrie e geometrie, in un procedere di tesi e antitesi volto a sempre nuove riconciliazioni dell’essere. Talvolta la distensione armonica viene differita con esasperante ritardo, passando da dissonanze a nuove dissonanze, senza trovare soluzione. Accade nella Morte di Isotta: la fame erotica, eccitazione inappagabile, si consuma solo nella statica consonanza degli ultimi accordi. Estinzione del desiderio, Nirvana, unica sazietà possibile.
Se questa contrazione si fa costante e insolubile, diviene elemento unico e radicale del discorso, si produce infine un rifiuto della dialettica armonica. Così, nella dodecafonia non è più possibile alcun risolversi psicologico. La dissonanza non prepara un appagamento. Tutto è dissonanza, tensione senza rilascio, frammentazione della linea melodica, algida combinazione seriale. L’ascoltatore perde i suoi riferimenti sintattici perché gli vien tolto il familiare linguaggio della tonalità e delle sue funzioni naturali. È lo stesso disorientamento che ci coglie di fronte alla sovversione di un ordine sessuale e affettivo, alla soppressione di una ritualità sociale. E paradossalmente, il procedere intellettualistico del discorso sembra farci cadere nel caos, la sua preordinata razionalità induce un pessimismo senza sbocchi.
Perciò, istintivamente, rifiutiamo a quest’arte l’epiteto di ‘bella’. Perché è puramente problematica, non ci nutre, delude una nostra aspettativa fisiologica. È repulsiva per coerenza con sé stessa, perché nel suo ipertrofico illuminismo rifiuta d’essere cibo, consolazione. È specchio di un mondo stretto negli spasimi del suo “spirito di geometria”, che non riconosce più le ragioni del cuore. Le sue irriducibili dissonanze ci chiudono in un labirinto senza uscita, in cui possiamo solo girare su noi stessi. È proprio quest’arte senza trascendenza – e quindi senza speranza – a mostrarci la disperazione della nostra società, l’impotenza della razionalità e della tecnica a salvare l’uomo.
Perciò assistiamo a un rapido disfacimento del bello. Il Brutto cola ovunque come una scoria melmosa, sulle nostre città, sulla cultura, la politica, la medicina, l’informazione. La bellezza si è ridotta a messaggio commerciale, utile a promuovere un prodotto, o si è fatta distrazione superficiale, rumore di sottofondo che cerca non di confortare ma di coprire il dolore. Le drammaturgie dei media ci offrono insignificanti catarsi, nei diversivi della Rete troviamo le nuove illusorie sublimazioni del dolore. La crisi della bellezza è anche crisi del dialogo tra noi e gli altri, o con noi stessi. Perché il senso della Bello ha bisogno di lente e laboriose masticazioni, e forse niente gli nuoce quanto l’accelerazione e la bulimia dei nostri processi di comunicazione, questo inghiottire compulsivo e frettoloso. Che invece d’esser nutrimento provoca un vomito inarrestabile di immagini e messaggi, faccine ammiccanti, automatici “mi piace”, finti stupori e meraviglianti banalità.
Inganniamo la nostra fame con simulazioni di realtà, con gli artifici di una società sterile, che non crea più nulla perché si crede capace di creare tutto, anche l’uomo. Piani, progetti, non sappiamo far altro! Ma la bellezza non può essere oggetto di un disegno razionale e di una modulistica. Né può uscire da una tecnica, come Venere dalle acque. Non è il frutto dei nostri programmi ma un dono che matura nell’attesa. È un mistero, e viene a noi liberamente, cibo benedetto che rigenera le cellule, riordina i tessuti, alimenta la vita.
Dunque, la bellezza salverà il mondo? Ma come lo può salvare? Il presente non sa creare bellezza. A sfamarci resta solo la bellezza di un mondo sempre più lontano, cornucopia riempita dal genio dei secoli passati. Resta quella natura che ancora sfugge all’azione soffocante del progresso. La grazia di ciò che ancora spontaneamente nasce e cresce, nutrito da oscure virtù. E se infine nel mondo non rimarrà una briciola di bellezza, ci salverà l’autotrofismo. Per cibarci dovremo attingere a una bellezza interna, fare di noi stessi un’opera d’arte.