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La catastrofe dello sviluppo occidentale

di Luca Leonello Rimbotti - 13/07/2020

La catastrofe dello sviluppo occidentale

Fonte: Italicum

 La malattia dell’Occidente è il predominio dei liberali. Il cancro che si forma nei meandri del produttivismo utilitarista – che costituisce la base della liberaldemocrazia e la ragione stessa del suo esistere - sta conducendo quella che una volta era la parte più ricca di benessere del pianeta, la più civile e creativa, verso una crisi montante che rischia di produrre guasti irreversibili. In mani liberali, la tecnica, che doveva liberare l’uomo dalla schiavitù della fatica, sta rivelandosi uno strumento di assoggettamento dell’uomo alle logiche rigide del profitto e dell’accaparramento. Non si tratta solo di capitalismo e di accumulazione, nel senso sociale ed economico. Si tratta anche, e soprattutto, di mentalità serva dell’utile, che non concepisce esistenza che non sia tutta dedicata al ricavo. L’ossessione per l’utile è cosa inglese, liberale, liberista. Bentham non è che l’apice di una mentalità acquisitiva che è da plebei, da rozzi incolti travestiti da arricchiti e da potenti per caso. L’ossessione per il profitto è in fondo cosa per violenti. La brutalità democratica. La democrazia dei ricchi mercanti. È la mentalità liberale. C’è chi ha studiato l’utile liberale proprio come una matrice del sopruso, una “archeologia della violenza” che ha prodotto disastri antropologici, economici ed ecologici, ovunque sulla Terra l’uomo liberale abbia inteso applicare la sua malata mentalità acquisitiva. È stato scritto:

 La più formidabile macchina per produrre è per ciò stesso la più spaventosa macchina per distruggere. Razze, società, individui, spazio, natura, foresta, sottosuolo: tutto dev’essere utile, tutto dev’essere utilizzato, tutto dev’essere produttivo in una produzione spinta al massimo dell’intensità.[1]

 L’occidentalizzazione del mondo sotto guida liberaldemocratica e anglosassone ha significato per l’Europa – e per i popoli del Terzo Mondo – la più grande catastrofe. In simili mani, l’imperialismo europeo, erede di quello greco-romano, fatto di insediamento, sviluppo sociale, organicismo, con città nuove, strade, acquedotti, promozione civile, spesso integrazione ed emancipazione, etc., è diventato, puramente e semplicemente, imperialismo di rapina, prelievo selvaggio delle risorse locali, dominio oligarchico e sudditanza garantita dalla frusta. L’Europa molte volte ha cercato di spezzare il predominio mercatista inglese, un giogo di maledizione che sta per annientare definitivamente il nostro continente. Non c’è stato nulla da fare. Il liberismo ha sempre trovato assurdi alleati, dai marxisti ai preti. L’Europa è stata tramortita da secolari congiure di questa natura.

Insieme a pochi altri, Serge Latouche, ormai da parecchi decenni, ci ha insegnato la fondamentale distinzione concettuale: «L’Occidente non è più l’Europa». In base a questa capacità di distinguere l’originario dal degradato, l’autentico dalla copia falsa, noi possiamo riconoscere il nemico dell’Europa, guardandolo diritto negli occhi. La dittatura economica del profitto e della speculazione è diventata una “macchina impersonale” «senza anima e ormai senza padrone, che ha messo l’umanità al proprio servizio»:

 

Emancipata da qualsiasi forza umana che volesse arrestarla, la macchina impazzita prosegue la sua opera di sradicamento planetario. Strappando gli uomini dalla loro terra, fin nelle regioni più remote del globo, la macchina li scaraventa nel deserto delle zone urbanizzate senza tuttavia integrarli nell’industrializzazione, nella burocratizzazione e nella tecnicizzazione senza limiti da lei promosse.[2]

 

   Ma questo risultato spersonalizzante e prevaricatore, innestato su procedimenti di violenza globale, non è un deplorevole eccesso all’interno di un meccanismo di per sé sano e benefico. Affatto. La malattia non è un eccesso di liberismo liberale. La malattia è precisamente il liberismo liberale. Il quale ha nel suo gene l’idea tumorale della crescita a dismisura e senza freno. Un esempio sintomatico: una delle maggiori riviste italiane economiche per manager, ideata per servire come mensile di business fatto per operatori del business, si chiama per l’appunto “Espansione”, e sin dal titolo svela il tratto patologico della mentalità liberale: come il cancro, la logica mercatista dell’affarismo professionale si espande in tutte le direzioni, senza posa, senza confini, letteralmente divorando i tessuti sui quali fruttifica: sociali, personali, mentali, fisici. E tutto riduce a frattaglia, massacrando coscienze, psicologie, tradizioni, culture, intere popolazioni.

Il problema della tecnica, che è stato il problema/chiave nel corso del secolo XX (basta pensare a come Heidegger ne fece un punto focale del suo discorso anti-moderno), abbandonato alle ossessioni dei liberisti, si riduce a un mero fatto di sopravvivenza. Privo di organi di controllo e limitazione, il mondo dell’innovazione tecnologica accresce i suoi ritrovati e le sue attenzioni per i destinatari del mercato, costituendo un momento centrale della dinamica sociale, ben oltre il costume, ben addentro alla psicologia degli individui e dei gruppi. L’accrescimento tecnologico verso la dismisura, in questo senso, non è un progresso, bensì un regresso in uno stato di incivile barbarie che rende l’espansionismo, in specie digitale, un continuo ricatto all’uomo, molto oltre le stesse logiche economiche. E finisce col coinvolgere la sanità mentale, pregiudicata dall’assalto consumista, che notte e giorno insidia il cervello umano come una diabolica struttura dell’alienazione.

Il consumismo, ormai, è una figura antropologico-culturale e una struttura socio-disumanitaria, situandosi oltre l’economia. Si tratta ormai di un modo d’esistere, una piena degenerazione psico-sociale. In questo, Latouche, uno dei rari studiosi (forse con Lasch, Chomsky, Preve e pochi altri) a contestare il modello iper-produttivista dello sviluppo occidentale, ha visto giusto sin dal principio, indicando a chiare lettere la natura distruttiva della “megamacchina” socioeconomica guidata dagli oligopolisti tecnoscientifici, e avvisando molto per tempo circa gli effetti letali del dilagare planetario del totalitarismo tecno-produttivo sui residui retaggi culturali e antropologici.

La rete tecnologico-digitale che è stata gettata addosso agli Stati è la scorza esteriore di un potere cosmopolita che incarna alla perfezione l’incubo massonico della società mondiale a guida anonima. L’egualitarismo in cui sono affogate le masse mondiali è il collante che tiene insieme i popoli e le burocrazie, e l’individuo autonomo e maturo, schiacciato e dominato dai diktat psicologici, è diventato una monade solitaria priva di rilievo sociale. La natura illusoria e ingannevole del progresso liberale è davanti a chiunque voglia vedere.

Se già Sorel aveva segnalato da par suo il pericolo di sbrigliare la tecnica senza che vi fosse alcuno strumento di controllo, indicando il fine sociale nell’ideologia del lavoro, anziché nella produzione commerciale e nell’interesse privato, oggi, a oltre cent’anni di distanza e davanti ad un fenomeno cresciuto i modo abnorme, noi riconosciamo il male non nell’occasionale disfunzione economica o finanziaria, ma proprio nel sistema liberale in sé, che costruisce dogmi e obblighi, divieti e tabù aggressivi, tutto racchiudendo nella minaccia di declassamento, pauperizzazione, emarginazione[3]. Oggi la tecnica mangia se stessa, divora l’uomo e il suo habitat, devasta la vita dei singoli come quella dei popoli. Latouche ha scritto che «la tecnica emancipata dalla tutela sociale dispiega la sua logica pervasiva. Questa si manifesta con una tendenza all’autoaccrescimento e con il trionfo esclusivo della efficienza». Un tale dominio della mentalità razionalista e acquisitiva, mai nella storia così intimamente identificatasi col potere, genera un movimento che non sembra più controllabile dalle normali forze a disposizione della sfera umana. Per cui:

 L’autoaccrescimento della tecnica significa che la tecnica progredisce a causa della propria dinamica, della propria natura. La ragione profonda di questa dinamica consiste nel fatto che la tecnica crea problemi che essa sola è in grado di risolvere. La tecnica richiede sempre più tecnica. Lo si vede nel campo dell’occupazione, dell’inquinamento e in tutti gli altri.[4]

 In questo quadro, ciò che risulta più difficile è proprio il sottrarsi a questo abbraccio mortale con il progresso liberal, dato che mancano riferimenti di cultura, mancano motivazioni ideologiche, oltre che ideali, e manca la corrispondente volontà di soppiantare un modello fallimentare con qualcosa di alternativo. La liberaldemocrazia non è l’unico destino. Jacques Ellul, il sociologo/teologo che considerò il cristianesimo alla stessa stregua dell’anarchismo (entrambi estranei al potere costituito che vige in società consensuali), ha sottolineato che «l’uomo della nostra società non ha alcun punto di riferimento intellettuale, morale, spirituale a partire dal quale potrebbe giudicare e criticare la tecnica»[5]. Ammissione importante, che nasconde la radicale conseguenza logica che una critica alla presente società consumistico-tecnocratica non potrebbe che partire da una posizione non solo diversa e antitetica, ma proprio alternativa e antagonistica. Da un’altra cultura, insomma, un’altra Weltanschauung, di totale rifiuto della civiltà cosmopolita del mercato e dell’usura.

Il gigantismo finanziario, che trae origine dal produttivismo delle origini, generato dalla coppia fordismo/toyotismo, ha eliminato l’ideologia del lavoro faticosamente formatasi in Europa attraverso secolari e durissime lotte, insediando in suo luogo la malconcepita mitologia dello sviluppo, la quale, sommovendo tutte le energie psicofisiche al fine di reggere la tensione produttivista-competitiva, ha causato il fallimento della società consensuale, sostituita dal conglomerato hobbesiano del “tutti contro tutti”, frontiera tipicamente liberale in cui ogni umanesimo affoga nella generale mercificazione. Intellettuali come Latouche hanno tentato di mettere in guardia e di proporre formule di contrapposizione. Noi non possiamo che ripartire da questo terreno.

L’industrialismo apolide e transnazionale è ciò che liquida l’organicismo sociale: «Il non economico, la reciprocità, la redistribuzione, il non mercantile in un contesto di “mercatizzazione totale” del mondo rimangono totalmente sottomessi all’immaginario mercantile»[6]. Come sfuggire a questo terribile destino di annientamento dei valori umani, in un futuro che si annuncia come un distruttivo “medioevo postmoderno” di barbarica resa dei conti fra classi, fra razze, fra individui?

L’uniformizzazione planetaria e lo spaventoso conformismo (venuti bene a galla anche in occasione degli attuali esperimenti di medicalizzazione totalitaria della società e di forzata introduzione di stati d’eccezione permanenti all’interno di intere macro-aree economiche) possono essere prima arrestati, in seguito battuti e distrutti, soltanto se si sappia fare ricorso all’unica arma che agisce nei momenti di generalizzato allarme biologico: la difesa fanatica della vita. Il mondo bianco, responsabile primo della macchinizzazione del mondo e della sua espansione globalizzata, a causa del prevalere al suo interno di cospicue minoranze fatte di tradimento e masochismo patologici, deve ritrovare gli anticorpi necessari ad espellere il rovinoso batterio ugualitario e massonico-illuminista, quello che sta conducendo a morte la società europea basata sulla tradizione, la famiglia, la parentalità ideale e biostorica. Deve finire la dominazione del capitalismo snazionalizzato e apolide, deve finire la concomitante e complice dominazione intellettuale del progressismo giacobino: nel momento del suo apogeo planetario, questo sistema per uccidere i popoli deve conoscere la propria rovina. E può conoscerla unicamente per mano degli stessi popoli, con un gesto di insurrezione che provenga dal basso, dalle viscere antropologiche delle nazioni. Non esiste alcuna élite alternativa a quella globalista. Non si vedono in giro figure anche minori di capi, di annunciatori, di agitatori di coscienze che invochino il risveglio. Solo la profondità dei popoli può trovare l’energia per rovesciare questo trono in cui siede il mercato universale.

L’appello alla “ragionevolezza”, che preziosi intellettuali come Latouche hanno lanciato già da gran tempo, in opposizione alla dittatura del pensiero razionale-acquisitivo che guida la società capitalista, tuttavia, non può bastare. Qui c’è bisogno non di un raddrizzamento, ma di un rovesciamento. Non riforme, ma rivoluzioni. Non proteste, ma insurrezioni. E neppure sofisticate metafisiche o ingegnosi progetti di ingegneria ideologica, dei quali non mancano neppure oggi interessanti esemplari, del tipo del fusionismo fra Marx e Gentile in chiave di superamento del mercatismo usurario. Tutto molto stimolante, ma rendiamoci conto che non è più il tempo degli affreschi intellettuali o dei seducenti bizantinismi dialettici. Che sia scoccata l’ora dell’azione lo sentono forte e chiaro anche i sordi. Il tempo stringe. Tempo nietzscheano, la filosofia del martello, l’attimo della decisione. Non è l’ora della mente contemplante, ma della mano decisionista che si posa sullo strumento della vendetta e della redenzione. La mano heideggeriana, senza la quale l’uomo è monco d’idee e di fatti. È giunto il momento dell’equivalenza – per l’appunto heideggeriana – fra umanismo e nazionalismo: un nuovo umanismo avvinto alla rivendicazione della storia, dell’autoctonìa, della terra dei padri sulla quale siamo nati e intendiamo vivere e rimanere, ciò che deve lanciare a mille la “filosofia della differenza”, opponendo armi identitarie alle armi di distruzione di massa del globalismo, della mentalità apolide, transgender, mostruosamente egualitaria e livellatrice verso il basso. Quella che Heidegger chiamò la «degradazione della parola attraverso la macchina» è oggigiorno diventata, grazie alla digitalizzazione universale, un’ulteriore sparizione identitaria. «La mano conserva», diceva Heidegger, «la mano traccia dei segni, mostra, probabilmente perché l’uomo è un segno»[7]. Questo universo di segni e di simboli, nei quali è incisa l’identità dell’uomo, è oggi prossimo al crollo a causa della mondializzazione che avanza al ritmo di una sventura apocalittica.

Il fallimento del modello progressista fondato sullo sviluppo liberale crea delle conseguenze. Una di queste, e anzi la principale, è la volontà di vita che risorge nei popoli, se pure ancora timidamente. E Latouche, che certo non è un capo rivoluzionario, ma un “intellettuale dissidente”, ha detto a chiare lettere che l’Europa deve scrollarsi di dosso il fardello progressista, affrettandosi a trovare nuove tavole dei valori per le quali passare all’azione. La scienza e la tecnica sono armi troppo pericolose per essere lasciate nella disponibilità del capitale privato. Ciò che deve essere prodotto è l’inversione degli invertitori, restaurando ciò che è superiore. Una nuova aristocrazia di popolo, dopo che è avvenuto il «rovesciamento utilitarista dell’etica aristocratica»[8]. E infine: «Finché il martello economico rimarrà nelle nostre teste questi tentativi di riforma saranno un vano, sterile e spesso pericoloso, agitarsi», dice Latouche. Difatti, quello che occorre è ben altro:

 Quel che è richiesto è una nuova creazione immaginaria di un’importanza che non ha pari nel passato, una creazione che ponga al centro della vita umana significati diversi dall’espansione e dal consumo e che proponga obiettivi diversi […] anche e soprattutto per liberarci dalla miseria psichica e morale propria degli uomini contemporanei.[9]

 

                                                                                                                               



[1] Cfr. Serge Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria [1989], Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 34.

[2] Ivi, p. 12.

[3] Cfr. Georges Sorel, Le illusioni del progresso [1908], Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 8: «Soprattutto in tempi di democrazia si può dire che l’umanità sia governata dal potere magico di grandi parole più che dalle idee, da formule piuttosto che da ragioni, da dogmi di cui nessuno si sogna di cercare l’origine, piuttosto che da dottrine fondate sull’osservazione».

[4] Serge Latouche, La megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso [1995], Bollati Boringhieri, Torico 2000, p. 55.

[5] Ibid., p. 70.

[6] Serge Latouche, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea [1999], Bollati Boringhieri 2000, p. 167.

[7] In Jacques Derrida, La mano di Heidegger [1987], a cura di Maurizio Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 57 e 41.

[8] Cfr. Serge Latouche, L’invenzione dell’economia, Arianna Editrice, Casalecchio (Bologna) 2001, pp. 79 e seguenti.

[9] Cornélius Castoriadis, in Latouche, La sfida di Minerva, cit., pp. 168-169.