La commedia degli equivoci
di Enrico Tomaselli - 19/02/2025
Fonte: Giubbe rosse
Sarà anche che l’irruzione dell’uragano Trump sulla scena internazionale ha sconcertato molti, o che le aspettative fossero esageratamente alte, ma si direbbe che ciò sta scatenando una serie di misunderstanding davvero considerevole.
Tanto per cominciare, la nuova America non è affatto orientata al multipolarismo, nemmeno nei termini di una semplice accettazione della realtà. Al contrario – e lo dimostrano molte cose – sta semplicemente operando una conversione tattica, che prende atto sì dell’emergere di un mondo multipolare, ma soltanto per combatterlo meglio, e riaffermare il predominio statunitense. Ciò non consegue soltanto dalle reiterate affermazioni (ed azioni) che continuano ad indicare la Cina come una minaccia, e la necessità di contenerla (anche militarmente), ma anche dal mutato atteggiamento verso la Russia.
Il rovesciamento di 180°, rispetto alle posizioni sostenute dalla precedente amministrazione USA sino a pochi mesi fa, è infatti dovuto a due elementi: da un lato, la constatazione dell’errore strategico commesso innescando il conflitto in Ucraina, che ha spinto Mosca a saldare un’alleanza strategica di fatto con Pechino, e dall’altro la rivalutazione del nemico russo come ostico ma comunque di livello inferiore. Da ciò la nuova politica americana che punta a separare Russia e Cina (e più in generale a rompere il blocco di alleanze quadrilaterale con Iran e Corea del Nord), aprendo una fase di dialogo e collaborazione con Mosca, che punta a coinvolgerla in un meccanismo di riduzione della conflittualità. Fondamentalmente, questo schema si basa sull’idea che depotenziando il conflitto con la Russia, e contemporaneamente accentuando quello con la Cina, ciò finisca con l’insinuare un cuneo tra i due paesi. Ovviamente, il presupposto è che le profferte statunitensi siano abbastanza allettanti per Mosca da convincerla a tenersi fuori da un eventuale acuirsi delle tensioni sino-americane. Vedremo più avanti come questa operazione sia in realtà molto più complicata, a partire dal fatto che Washington non ha effettivamente molto da offrire.
Tra l’altro, anche per gli Stati Uniti – seppure in misura minore rispetto agli europei – operare un cambio di rotta così netto non è proprio semplicissimo, a partire dal fatto che anche in ambienti legati al mondo politico che sostiene Trump sono non pochi i feroci russofobi. E del resto, seppure il volto che l’amministrazione USA sta presentando a Mosca è assai amichevole, non ha ancora rinunciato affatto alla modalità carota e bastone, non mancando di far balenare qui e là minacce di vario genere, qualora la risposta russa non fosse sufficientemente collaborativa.
In termini più generali, è necessario comprendere che la politica di potenza statunitense si è sempre uniformata a criteri geopolitici, non ideologici. Anche se, durante tutto l’arco di tempo che va dalla prima guerra mondiale alla caduta dell’URSS, l’anticomunismo è stato un potente strumento, così come dalla fine della guerra fredda in avanti lo è divenuto il progressismo democratico, questi sono sempre stati sovrastruttura. Il fondamento della politica egemonica degli Stati Uniti è sempre stato di natura geopolitica, scevro quindi da spinte ideologiche e/o ideali. E, come è ovvio per una una grande potenza imperiale, le sue strategie sono sempre state una questione di medio-lungo periodo, non soggette a mutamenti radicali ad ogni cambio di amministrazione.
Come è naturale che sia, queste strategie sono quindi elaborate solo parzialmente delle varie amministrazioni federali; la continuità strategica imperiale viene assicurata da un vasto corpus di poteri (economici, burocratici, culturali) che costituiscono il terreno in cui affondano le proprie radici le differenti compagini governative, e da cui queste sorgono e – al tempo stesso – traggono il proprio personale politico. Questo insieme di poteri è sostanzialmente permanente (nel senso che le sue capacità di influenza permangono, indipendentemente dai cambi alla Casa Bianca), e non va comunque inteso come un blocco monolitico, ma piuttosto come un vasto network informale, in cui interessi anche differenti coagiscono e trovano via via una sintesi strategica, e ovviamente una sintesi politica che la esprima e ne garantisca l’attuazione. È esattamente ciò che siamo abituati a definire come deep state. Importante è comprendere come questo stato profondo non sia definibile in termini di schieramenti politici (democratici o repubblicani), che ne rappresentano semplicemente l’epifenomeno; per sua natura, esso determina la selezione delle classi dirigenti, ma non coincide con l’una o l’altra. Questo vale assolutamente anche per Trump.
Anche se l’attuale presidente non è un politico di carriera, è sempre stato un membro preminente dell’oligarchia statunitense, e quindi assolutamente organico a questa. Dunque, non è Trump che si impone sul deep state, ma è questo (una parte di questo) che lo seleziona, per svolgere una operazione ritenuta necessaria – ovvero un brusco cambio di rotta – perché il declino americano ha raggiunto un punto di crisi che lo rende ineludibile. Quello che Trump sta operando negli states, quindi, non è una operazione di distruzione dello stato profondo, ma la sua epurazione. Gli elementi più superficiali, i più coinvolti nella cattiva gestione strategica, i più corrotti o ideologicamente influenzati, vengono rimossi per restituire efficienza: nel momento in cui gli Stati Uniti si apprestano ad affrontare la più grande sfida al loro predominio globale, è necessario che la macchina di guerra sia perfettamente all’altezza, e assolutamente coesa. Verranno smantellati gli apparati ritenuti ormai inadeguati, come l’USAID, ma nessuno metterà in discussione la Lockheed Martin o Blackrock.
Un altro grande equivoco – anzi due – riguarda il conflitto ucraino. Nella loro straordinaria ottusità, le leadership europee ritengono che Trump stia, a tale riguardo, operando un’inversione di rotta strategica (e che ciò costituisca un tradimento degli ideali comuni). Innanzi tutto, per gli USA, anche durante l’amministrazione Biden, questa guerra non è mai stata una questione di ideali (democrazia vs autocrazia); quella era la propaganda per i gonzi – e infatti i leader europei se la sono bevuta. Per Washington il conflitto in Ucraina ha sempre rappresentato una mossa strategica che riguarda le relazioni di potenza con Mosca; l’amministrazione Trump esprime sì un diverso orientamento strategico, ma sempre nell’ambito delle relazioni geopolitiche tra Stati Uniti e Russia. Gli ideali di cui concionano gli europei, ed ancor meno gli europei stessi (ucraini compresi), non hanno mai contato nulla. Ciò che sta mettendo in campo Trump, quindi, è semplicemente un proseguire nella linea precedente, basata sulla difesa degli interessi statunitensi, sfrondandola di quei fronzoli che erano serviti ad imbelletterla per le opinioni pubbliche occidentali. La ripresa delle relazioni dialogiche tra le due potenze, dunque, non è relativa al conflitto ed alla sua risoluzione, se non in misura del tutto marginale, l’obiettivo essendo di tutt’altra natura e dimensione.
L’esigenza primaria degli Stati Uniti in questa fase, ed in vista del confronto decisivo con la Cina, richiede per un verso la ricostruzione industriale (e quindi l’ottimizzazione dell’impiego delle risorse, ed il tempo necessario per impiegarle), e per un altro – come già detto – la divisione del fronte avversario. La nuova posizione americana nei confronti della Russia, quindi, è funzionale al conseguimento di questi due obiettivi, guadagnare tempo e staccarla dalla Cina. Sono interessi strategici americani ad essere in ballo, quindi il coinvolgimento di attori terzi (come gli stati europei) ha senso soltanto se e quando ciò torna utile a tali interessi; nel modo più assoluto non riguarda la difesa di interessi comuni.
Non soltanto, quindi, l’Europa è tenuta ai margini proprio in quanto è marginale, ma la sua percezione di quanto sta accadendo risente della distorsione percettiva delle proprie leadership.
Nonostante l’enorme evidenza che il conflitto danneggiava in misura spropositata proprio i paesi europei – mentre gli USA ne hanno tratto vantaggio – queste leadership si sono lanciate nella crociata anti russa con la duplice convinzione che questa fosse necessaria alla difesa di un patrimonio comune tra le due sponde dell’Atlantico, e che questo patrimonio (valoriale ma anche materiale) stabilisse di per sé una superiorità a 360° dell’occidente sull’orso russo.
In buona sostanza, la guerra in Ucraina è stata per gli Stati Uniti una mossa strategica immaginata e voluta nel quadro di un conflitto tra potenze, e quindi esclusivamente una questione di interessi (anche anti-europei, quanto a questo), mentre per l’Europa è divenuta uno scontro di civiltà. E quindi Washington l’ha sempre considerata come un episodio, una singola mossa sulla vasta scacchiera geopolitica, mentre per le cancellerie europee è divenuta una sorta di ordalia, il centro di tutto.
Ragion per cui, mentre gli USA fanno una mossa che (solo apparentemente) sembra cambiare radicalmente gioco, i leader europei continuano a pensare che la faccenda sia tutt’altra.
Da questo ennesimo errore percettivo, consegue un’altra valutazione errata. L’idea cioè che la fine del conflitto – e quindi della battaglia esistenziale che l’Europa crede di combattere – sia imminente, perché le due potenze stanno per accordarsi in tal senso, e sulle proprie teste. In realtà, nulla di tutto questo è reale. La guerra è ben lungi dall’avvicinarsi all’epilogo.
Anche in questo caso, le ragioni sono duplici. Innanzi tutto, proprio il fatto che il conflitto sia – per entrambe le potenze – una parte della questione, significa che anche la risoluzione di questo non potrà che avvenire nell’ambito di un più ampio quadro, che ridisegni l’intera architettura di sicurezza (reciproca). Va da sé, quindi, che la complessità e vastità dei problemi da risolvere è tale da comportare tempi lunghi, anche solo per identificarli e sistematizzarli. Ma anche volendo eventualmente porre in primo piano il conflitto cinetico in corso (cosa che probabilmente Trump cercherà comunque di fare, anche per ragioni di immagine), ciò non significa che la soluzione sia a portata di mano. L’esperienza storica di risoluzione dei conflitti (post seconda guerra mondiale), ci dice che possono essere necessari anche anni. In ogni caso, è ragionevole supporre che nella migliore delle ipotesi ci vorrà non meno di un anno per porre fine al conflitto in Ucraina. E durante questi dodici mesi, la guerra continuerà. L’ipotesi di un congelamento delle operazioni, o anche solo di un cessate il fuoco, è infatti da escludere. Non solo perché ciò sarebbe assolutamente contrario agli interessi strategici russi, ma anche perché – vedi Medio Oriente – quando uno dei soggetti coinvolti non è pienamente convinto, l’instabilità della situazione permane comunque.
Un ulteriore equivoco sembra fiorire nel vecchio continente. Se i tre anni di guerra NATO vs Russia sul terreno ucraino hanno logorato l’Europa, al punto da cominciare ad aprire crepe significative nella sua (presunta) unità ed univocità d’intenti, il cambiamento tattico dell’amministrazione USA sta inducendo le leadership europee a coltivare l’illusione che sostituendo il nemico Putin con il nemico Trump – o meglio ancora aggiungendo al primo il secondo – possa essere ricostituito un blocco di paesi che, sentendosi minacciati dal fare la fine del vaso di coccio, ritrovino il perduto afflato unitario. Le mosse (alquanto scomposte e contraddittorie, quanto a questo) di alcuni leader, stanno però facendo emergere vieppiù le differenze e le distanze tra i vari paesi, sempre più chiaramente destinati a marciare divisi.
Oltretutto, ciascuna delle ipotesi messe in campo è destinata scontrarsi con la dura realtà dei fatti; sia la moltiplicazione degli aiuti a Kiev (che peraltro stride con la pretesa di sedere al tavolo delle trattative di pace), sia l’implementazione di una economia di guerra, e persino – più banalmente – l’intenzione di accelerare l’adesione ucraina alla UE, sono impossibili, sia per incapacità oggettiva, sia per il rifiuto di alcuni soggetti.
L’irrilevanza certificata dell’Europa, come soggetto geopolitico d’un qualche peso, è un dato di fatto, e decisamente antecedente al cambio di amministrazione a Washington. La sola differenza è che ora non viene più dissimulata, da parte americana, né da parte russa. Del resto, basterebbe osservare come i paesi europei vengono tranquillamente scalzati via dalle loro ex-colonie africane, mentre cresce a vista d’occhio l’influenza di altri attori, anche di medio livello, come Turchia o EAU. E sempre per restare in Europa, è assolutamente fallace l’idea che un possibile ricambio delle classi dirigenti (di cui sembra essersi incaricato il multimiliardario Musk), rappresenti una possibilità di resipiscenza del continente. L’era dei sovranisti l’abbiamo già vista all’opera, e molto più che una chance di recuperare una vagheggiata sovranità, finirà ineluttabilmente per tradursi in un mero riallineamento con le nuove autorità di Washington, senza minimamente mettere in discussione il ruolo vassallo sinora ricoperto.
Dulcis in fundo, e molto a margine, vale la pena di menzionare l’ultimo degli equivoci creatisi intorno all’ascesa di Trump. Stavolta proprio all’interno della Russia. Sta infatti emergendo una scuola di pensiero, che fa capo al filosofo politico Aleksandr Dugin, che vede nella figura del presidente statunitense un campione del pensiero tradizionalista-conservatore, ed in ciò identifica una possibile comunanza d’intenti e di percorsi con la Federazione Russa.
Dugin, che in passato i media occidentali avevano addirittura dipinto come una sorta di consigliere di Putin, è in realtà il punto di riferimento (non solo in Russia) di una parte assolutamente minoritaria del mondo politico, che vede nel ritorno ai valori tradizionali (dio-patria-famiglia, semplificando) la strada per la rinascita dell’identità nazionale russa. Costoro scambiano le politiche anti-woke di Trump per una manifestazione di un simile spirito tradizionalista, laddove si tratta invece di mero conservatorismo, ma totalmente interno ad uno spirito identitario americano che non ha nulla a che vedere con quello immaginato da Dugin.
Indiscutibilmente, l’avvento dell’era Trump apporta dei cambiamenti considerevoli al quadro geopolitico globale, anche se appaiono assai più radicali di quanto non siano. E introduce un elemento di accelerazione. Ma non siamo assolutamente in presenza di un fenomeno di inversione, né strategica né tantomeno storica. In un certo senso, si può dire che Trump è la reazione di un pezzo significativo delle oligarchie statunitensi al declino del potere egemonico degli Stati Uniti; declino che non è né cominciato con né colpa delle amministrazioni democratiche (alle quali semmai si può imputare di avervi risposto malamente), e si muove nel solco della tradizione geopolitica USA, che è quella di affermare e difendere, ad ogni costo, il predominio americano. Predominio cui l’America avrebbe peraltro diritto, in virtù della sua eccezionalità.
Non siamo insomma in presenza di una rivoluzione copernicana degli equilibri mondiali, e nemmeno del suo inizio. Molto semplicemente, il deep state ha sostituito il comandante in capo, perché la guerra stava andando male.