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La crisi irreversibile dell’euro

di Paolo Becchi - 26/02/2017

Fonte: Paolo Becchi

Intervento tenuto da Paolo Becchi il 20 febbraio discutendo la relazione di Giovanni B. Pittaluga sull'euro alla conferenza organizzata dalla Progetto Santa Margherita a Villa Durazzo (Santa Margherita Ligure).
L’euro, secondo Pittaluga, fu istituito sulla base di due presupposti economici: la stabilità dei prezzi assieme all’equilibrio di bilancio favoriscono la crescita economica e l’adozione di una moneta unica contribuisce alla convergenza della crescita e del reddito pro-capite all’interno dell’area che adotta la stessa moneta. Non vi è dubbio che questi erano i criteri “liberisti”, per dare loro la caratteristica ideologica che li contraddistingue, posti a fondamento del Trattato di Maastricht, ma sono criteri validi?
Innanzitutto occorre sottolineare che non c’è necessariamente una correlazione positiva tra equilibrio di bilancio e crescita economica. I presupposti di Maastricht partono da un principio che non trova riscontro nella letteratura scientifica economica, ovvero che ridotti livelli di deficit sul PIL aiutino la crescita economia. Basti pensare a come è nato il criterio del limite del 3% sul PIL, deciso “in meno di un’ora e senza nessuna base teorica”, come racconta il suo inventore, il francese Guy Abeille. Quel parametro del 3% è stato del resto contestato da molti economisti. In secondo luogo va osservato che il reddito pro capite dal 1968 al 1998, con la lira, era cresciuto del 104%. Dal 1999 (anno in cui viene fissato il cambio irreversibile con l’euro di 1936,27 lire) al 2016 è calato dello 0,75%.
Non è su questo che intendo insistere dal momento che Pittaluga stesso ammette che nessuno di questi due presupposti si è realizzato. Ma allora è lecito chiedersi: perché quei principi dovevano essere giusti se in pratica sono stati così clamorosamente smentiti dai fatti? L’ idea che si avanza è che i principi fossero buoni e i cattivi siamo stati noi italiani, che non siamo stati bravi ad applicarli. Ora, se con il cambio fisso un Paese rinuncia all’opzione della svalutazione ci deve essere una contropartita in termini di redistribuzione fiscale. Se questa viene a mancare allora non c’è nulla che possa impedirgli di subire un processo di irrimediabile tracollo che porterà, alla fine, all'emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. Sono cose nella letteratura ampiamente ribadite da validi economisti che mettevano in discussione il modo in cui si intendeva procedere alla introduzione della moneta unica. E invece abbiamo condiviso la moneta ma non il debito, e questo ci è costato circa 35 miliardi di euro all'anno.
Pittaluga non accenna neppure a questo problema. Se noi ci troviamo oggi con la povertà crescente questo non sarebbe dovuto alla costruzione dell’euro, ma perché noi non siamo stati in grado di accettare le nuove sfide poste dalla globalizzazione. Paroloni. Permettetemi di volare un po’ più basso e di replicare a Pittaluga mettendo banalmente a confronto la produzione industriale dell’ Italia e quella Germania. Prima dell’introduzione della moneta unica, l’Italia aveva una produzione industriale superiore a quella tedesca e che cresce in particolare tra gli anni 1992-1995 proprio grazie alla svalutazione della lira. Dopo l’euro, dal 2002 in poi, inizia il sorpasso della Germania nei confronti dell’Italia, e il meccanismo è dovuto ai differenziali di inflazione più bassi della Germania con i quali ha acquisito competitività rispetto alle nostre merci. L’Italia nei primi anni dell’euro aveva un’inflazione più alta della Germania, e impossibilitata ad operare una svalutazione del cambio che le avrebbe consentito di recuperare il terreno perduto nei confronti della produzione industriale tedesca ha cominciato il suo declino industriale. Prima dell’euro eravamo superiori alla Germania, dopo l’euro, e fissato il cambio, ha prevalso invece la Germania che ha sfruttato una moneta fortemente sottovalutata. Mi pare dunque evidente che sia proprio la fissità del cambio ad aver prodotto i problemi che noi oggi abbiamo. Ritornando alla lira potremmo svalutare la nostra moneta, e dunque tornare ad essere competitivi, ma ecco che Pittaluga ci mette in guardia: svalutazione = inflazione. Lo spettro dell’inflazione. E qui si resta basiti. La svalutazione è un deprezzamento del tasso di cambio nominale verso un'altra valuta; l'inflazione è l'aumento annuale di un determinato paniere di beni scelto dall'Istat come riferimento. È una fake non più tanto news sostenere che il deprezzamento dell'uno (il cambio) porti all'incremento dell'altra (l'inflazione). Non c'è nessuna evidenza che dimostri che una svalutazione del cambio produrrebbe un aumento dell’inflazione. A questo proposito basta citare la svalutazione della lira verso il marco del 1992, quando era legata ancora allo SME, l’accordo di cambi fissi dell’epoca. Prima del 1992 il cambio fisso era di 750 lire per marco; dal 1992 al 1995 la lira svaluta del 50% verso il marco, ma l’inflazione addirittura scende dal 5,2% del 1992 al 4,1% del 1994, per poi ritornare al 5,2% del 1995. Come si vede la svalutazione di per sé non ha prodotto nessun incremento dei prezzi. Lo stesso può dirsi anche per la svalutazione giapponese del 2012 o quella precedente della Gran Bretagna e della Scozia 2008.
Come che sia per Pittaluga il problema non è l’euro, ma la produttività del lavoro che è troppo bassa. E ciò sarebbe legato a “nostri valori culturali distorti”. Non so bene che cosa voglia dire, se non che i tedeschi lavorano mentre noi siamo dei pelandroni. È proprio così? La produttività del lavoro si evidenzia principalmente dal 1996 in poi quando l’Italia torna al cambio fisso con lo SME, pregiudicandosi la possibilità di far fluttuare liberamente il proprio tasso di cambio. C’è una legge in economia, definita legge di Kaldor-Verdoorn, che mette in evidenza la stretta relazione tra la produttività e la capacità di produrre dell’economia. La capacità di produrre è strettamente legata alla capacità di aumentare le proprie esportazioni, ma questa possibilità è venuta meno con il tasso di cambio fisso dello SME prima e dell’euro poi. La spiegazione di una mancanza di produttività a causa di “valori culturali e profondamente distorti” è priva di riscontri oggettivi e si basa su una visione moralistica dell’economia, quando in realtà ci sono delle precise dinamiche in economia che spiegano questa relazione.
Quali sarebbero, di grazia, questi distorti valori culturali? Pittaluga sembra affetto dal virus dell’autorazzismo e riconduce la sua spiegazione semplicistica alla visione di un’Italia affetta da una sorta di peccato originale. I tedeschi lavorano, noi siamo dei fannulloni. È la spiegazione falsa che ci offrono i tedeschi che hanno scritto delle regole europee che loro hanno violato, ma di cui chiedono il rispetto agli altri. Senza che nessuno dica niente. E continuano a farlo. La Germania ha un surplus delle partite correnti che sta superando ogni limite, l’8,4% nel 2015, quando l’Unione Europea prevede un limita massimo del 6%. Questa è l’Europa oggi, bellezza!
Il vero peccato originale sta nel fatto che l’euro è nato in preciso contesto storico: un accordo tra Mitterrand e Kohl che scambiava l’unificazione politica della Germania, con il tentativo di bloccare l’egemonia tedesca inglobandola nell'euro. Un tentativo fallito e a farne le spese siamo stati soprattutto noi con la deindustrializzazione del paese. La Francia, una volta constatato quello che stava succedendo, avrebbe dovuto allearsi con i Paesi mediterranei invece di attaccarsi alle sottane del cancelliere tedesco. Ma ora le cose stanno cambiando ed una vittoria di Marine Le Pen avrà esiti dirompenti su quella alleanza franco-tedesca su cui si è costruita l’Europa dopo Maastricht.