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La diplomazia delle sparate, acceleratore della caduta del prestigio internazionale statunitense

di Filippo Bovo - 28/04/2025

La diplomazia delle sparate, acceleratore della caduta del prestigio internazionale statunitense

Fonte: Le nuove vie del mondo

A distanza di pochi mesi dall'insediamento, il nuovo Presidente americano non sembra né vincere né convincere sul piano internazionale. La sua diplomazia suscita eclatanti fuochi d'artificio nell'immediato, destinati però a sgonfiarsi ben presto nella delusione degli estimatori e nell'ilarità dei detrattori. Lo testimoniano i vari risultati diplomatici, come le trattative con l'Iran per il nucleare e quelle con la Russia per la guerra in Ucraina, o ancora le mosse per chiudere col conflitto in Palestina e Medio Oriente, a tacer poi della guerra commerciale scatenata a suon di dazi non soltanto con la Cina ma di fatto con gran parte del mondo intero. Non è dunque con una diplomazia delle “sparate”, del “con noi o contro di noi”, che gli Stati Uniti possono riaffermare il loro prestigio e la loro centralità nel mondo; peraltro proprio quest'ultima, in un ordine internazionale ormai sempre più multipolare, è a dir poco utopico poterla davvero a restaurare. Non a caso i risultati diplomatici ed economici sin qui sortiti, visti in un'ottica di medio e lungo periodo, sembrano impietosamente indicare un'accelerazione del già graduale processo ”relativizzazione" e riduzione del peso specifico internazionale di Washington e così pure del suo residuale, ma pur sempre forte, potere politico ed economico. 

 E' un'accelerazione impressa, come risultato, proprio da questa politica dagli approcci iniziali tanto “muscolari”, che dapprima suscita inevitabili reazioni frontali da parte dei vari paesi che ne sono destinatari; ma che poi, venendo frettolosamente rivista o revocata, finisce per trasmettere in costoro e così pure in tutta la platea mondiale la convinzione che l'odierna leadership americana sia confusa e senza le idee chiare, soprattutto politicamente imprevedibile ed inaffidabile. Quando quella che è sempre stata la prima superpotenza al mondo smette di presentarsi al mondo con una linea politica ed economica caratterizzata dalla continuità, e con un'immagine quantomeno diplomaticamente presentabile, tutti gli altri suoi interlocutori iniziano a guardarla con crescente diffidenza, puntando sempre più “a far da sé”, a velocizzare i tempi ed abbandonare gli indugi per immaginarsi un nuovo ordine internazionale capace di sorreggersi anche senza il ruolo preminente degli Stati Uniti. In definitiva, alzando la voce Washington si sta chiudendo fuori dalla “casa comune” dopo aver pensato che in tal modo potesse ribadirvi le proprie regole come uniche e valide per tutti: un bilancio davvero imbarazzante. 

 Ne abbiamo, come già detto, più prove: con la Cina, in pochi giorni, gli Stati Uniti sono passati dai dazi al 145% fino addirittura al 245%, ai quali la controparte ha risposto con contromisure sui prodotti americani al 125% e più, oltre a forti aggravi all'export verso il mercato americano di varie materie prime di primaria importanza, dall'energia alle materie prime critiche fino ai prodotti semilavorati. L'inserimento nella lista nera da parte di Pechino di 18 società strategiche americane, con forti implicazioni sulla loro capacità di poter operare nel sempre più vitale mercato cinese, e il rilascio di massicce e crescenti quote di titoli di Stato americani nel mercato finanziario internazionale, inducendo anche altri paesi creditori di Washington a fare altrettanto, hanno poi ulteriormente scosso molte storiche e consolidate certezze dell'economia d'Oltreoceano, ricordandole quanto si possa aver da perdere in una guerra dove non si fanno prigionieri. Ne pagano già oggi il prezzo settori economici americani come quello immobiliare, con una già avvertibile flessione nelle vendite di abitazioni e nell'indice di fiducia dei consumatori, volto a ripercuotersi pure nelle prospettive di crescita interne per le imprese e gli operatori del commercio; o dell'aerospaziale, coi clamorosi ritiri da parte di Boeing di velivoli altrimenti destinati alla consegna. 

 Persino grandi nomi ben legati all'odierna Amministrazione come Tesla, il cui fondatore e patron Elon Musk siede in un DOGE da cui non a caso mira a distanziarsi sempre più frettolosamente, accusano oggi pesanti indebolimenti nei guadagni e nel venduto. Sullo sfondo il WTO richiama alla ragionevolezza, ricordando quanto la guerra commerciale e la difficoltà ad individuare un consenso bilaterale possano danneggiare la crescita economica mondiale ed azzoppare destabilizzandola la catena internazionale degli approvigionamenti. Ora, dinanzi ai nuovi danni, e ai primi morsi di un'inflazione che negli Stati Uniti potrebbe in futuro evolversi anche in deflazione, la Casa Bianca intende clamorosamente rivedere molti dei suoi approcci iniziali con tanti paesi dapprima affrontati in maniera troppo imprudente, continuando però a portare avanti per motivi ideologici una condotta più sorda con Pechino. Ma ciò, paradossalmente, più che rettificare il già acquisito danno d'immagine finisce addirittura per accentuarlo. Ne risente non soltanto la credibilità della politica internazionale di Washington, ma anche quella dei suoi prodotti, in Cina e non solo.

 Il dialogo con l'Iran, che negli auspici di Washington sarebbe volto a denuclearizzare Teheran dando così nuove garanzie di sicurezza all'inquieto e primario alleato israeliano, ugualmente non pare aver ormai preso tutt'altra direzione. Dopo l'ottimismo iniziale dato dall'insperata possibilità di un incontro tra le due parti in Oman, la richiesta americana di rinunciare tout court al nucleare ben prevedibilmente s'è confermata irricevibile per la parte iraniana, con gli emissari di Teheran che a quel punto le hanno contrapposto un'offerta tanto moralmente inattaccabile quanto politicamente incompatibile con le aspettative americane ed israeliane: un Medio Oriente totalmente denuclearizzato, dove alla rinuncia all'atomo da parte dell'Iran ne corrisponda una analoga anche da parte di Israele. Non è ovviamente ciò a cui mira Teheran mira, come del resto men che meno vi mirano Washington e Tel Aviv: ma una tale provocazione diplomatica è quantomeno servita a scoprire le carte, secondo il principio per cui “il re è nudo”. Nonostante un tanto imbarazzante “uovo di Colombo”, le trattative sono comunque andate avanti, con nuovi appuntamenti tenutisi anche a Roma e che hanno testimoniato un importante contributo pure della nostra diplomazia; a quanto si vede, l'Iran non rinuncerà al nucleare, ipotesi del resto già improbabile fin dal principio, ma semplicemente lo limiterà nell'uso in sostanziale conformità proprio con quanto già in precedenza concordato con l'AIEA ed ulteriormente garantito pure dai suoi principali partner internazionali, Mosca e Pechino. 

 Nel mentre, Stati Uniti ed Unione Europea dovranno iniziare a rivedere le loro sanzioni a Teheran, preparandosi a rimuoverle dopo averle applicate all'indomani dell'abbandono unilaterale del primo accordo sul nucleare proprio da parte della prima Amministrazione Trump. Francia, Germania ed Inghilterra, che furono tra le cofirmatarie dell'accordo JCPOA del 2015, rinnegato da Trump nel 2018, mirano oggi a presentarsi nuovamente come partner in un nuovo accordo congiunto, con tutti i relativi impegni del caso, mentre Israele dinanzi all'evoluzione di un dialogo tra Washington e Teheran in cui è soprattutto la seconda a trarre vantaggi manifesta sempre più nervosismo ed insoddisfazione. Ritrovarsi tagliato fuori dalla regia di un accordo che pensava di poter controllare “dalla stanza accanto” e che non si sta evolvendo secondo i suoi interessi, e frenato proprio dal suo principale alleato americano nella possibilità di attuare nel frattempo un confronto più aggressivo e bellicoso con Teheran, non era indubbiamente quanto auspicato da Netanyahu. Ma oggi, seppur con un graduale scivolamento, vediamo Teheran sempre più rafforzata nelle sue posizioni e nella sua sicurezza regionale ed internazionale, con un crescente supporto da Mosca e Pechino, e vicina a superare le vecchie sanzioni, mentre Israele parallelamente si ritrova vieppiù isolata e confinata nell'esercizio delle sue volontà strategiche dal fondamentale alleato americano e così pure dalla diplomazia europea.

 E che dire delle trattative per la pace in Ucraina? Tra improvvisi slanci ed altrettanto improvvisi arresti, dire che siano ancora in fase di stallo è probabilmente un eufemismo. Trump mirava a concludere rapidamente il conflitto, limitando il più possibile le concessioni alla Russia e al contempo massimizzando il più possibile i profitti della pace; chiaramente, in entrambi i casi sempre a spese soprattutto degli ucraini e in seconda battuta degli alleati europei. Non ha funzionato, un po' perché gli europei sentendosi tagliati fuori dal dialogo diretto tra Washington e Mosca si sono messi di traverso interferendo con proprie pressioni su Kiev, e un po' per lo stesso ostruzionismo di quest'ultima, il cui potere decisionale in sede di trattativa pare ormai sempre più una pia illusione. L'episodio di Brenno, che ponendo la propria spada sulla stadera costrinse i romani sconfitti a pagar più oro di quanto lamentosamente già dovevano pagare, probabilmente non è stato sufficientemente studiato né a Kiev né a Bruxelles: ma quel Vae victis!, "Guai ai vinti!", suona tuttora più attuale che mai. In questa situazione, oltre alla caduta di prestigio internazionale per la diplomazia e la potenza americana, vi è anche quella dei suoi alleati od ex alleati ucraini ed europei, come espresso pure dalla loro condotta tentennante: un giorno Zelensky è disposto a grandi concessioni pur di chiudere il prima possibile il conflitto, il giorno dopo invece si rimangia la parola e respinge ogni ipotesi di cessioni territoriali, non soltanto delle regioni orientali ma anche della Crimea.  Dal canto suo, Mosca sembra ben propensa a giocare al gatto e al topo coi suoi interlocutori, manifestando quando maggiori, quando minori per non dir scarse disponibilità al dialogo; mentre i colloqui tra delegazioni russa ed americana in sede neutra vanno avanti, le FFAA russe portano avanti le loro operazioni assestando di volta in volta significativi colpi all'avversario. 

 Insomma, non c'è fretta a Mosca per concludere un conflitto che soprattutto a Washington sembrerebbero voler chiudere il prima possibile, per sacrificare quanti meno interessi possibili: i russi sanno di avere il tempo dalla loro parte, e sono ben intenzionati a farne uso. Ecco così che gli Stati Uniti si trovano sempre più indotti a cedere su molte posizioni precedentemente viste come irrinunciabili o difficilmente sacrificabili: non soltanto il riconoscimento de iure della sovranità russa sulla Crimea, e la rinuncia di un ingresso di Kiev nella NATO, due aspetti di fatto ormai già ben acquisiti. Washington dovrà, intuibilmente inducendo anche gli inquieti alleati europei a far altrettanto, rimuovere ogni sanzione alla Russia, a cominciare da quelle applicate sin dal 2014 e poi abbondantemente rafforzate dal 2022 e sovrintendere al trasferimento della centrale nucleare di Zaporizhzhia; inoltre dovrà, sempre da piano di pace proposto, favorire il libero passaggio lungo il Dnipro e provvedere alla ricostruzione, sebbene sui fondi e la loro origine ancora il discorso appaia piuttosto in alto mare. Oltre a ciò, a contentino anche degli ucraini, Washington dovrà garantire il parziale ritorno di una piccola parte dell'oblast di Kharkiv sotto controllo russo e garantire un nuovo riarmo delle truppe ucraine per poter così vigilare sugli intuibilmente delicati equilibri del dopoguerra. Appare già da ora un piano piuttosto incompleto, quantomeno monco, e sicuramente soggetto ad ulteriori “ristrutturazioni”: come abbiamo già detto, da parte russa le esigenze e le aspettative sono comprensibilmente ben più onerose non soltanto per la diplomazia di Washington, ma anche dei suoi compagni di ventura ucraini ed europei. Non meravigliano in tutto ciò le resistenze di quest'ultimi, che paradossalmente finiscono per fare il gioco di Mosca, e così pure degli stessi russi: anche in questo caso, come vediamo, non è con una diplomazia delle “sparate” che Washington può sperare di uscir fuori dall'incubo del suo “pantano”.