Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La Dottrina Vedica del Silenzio

La Dottrina Vedica del Silenzio

di A. K. Coomaraswamy - 18/09/2016

La Dottrina Vedica del Silenzio

Fonte: Ereticamente

«Soltanto allora lo vedrai, quando non puoi parlarne;

perché la sua conoscenza è profondo silenzio e soppressione dei sensi»[1]

Il significato generale di “silenzio” in connessione con riti, miti e misteri è stato mira­bilmente discusso da René Guénon in Études traditionnelles[2]. Qui ci proponiamo di citare altri, più specifici dettagli dalla tradizione vedica. Va premesso che l’Identità Suprema (tad ekam) non è meramente in se stessa “senza dualità” (advaita), ma quando è considerata da un altro ed esteriore punto di vista è un’identità di molte cose differenti. Con questo non intendiamo soltanto che un primo principio unitario trascende le coppie di opposti (dvandvau) reciproca­mente connesse che possono essere distinte in qualsiasi livello di riferimento come contrari o conosciute come contraddittorie; ma piuttosto che l’Identità Suprema, indeterminata persino come prima assunzione di unità, include nella sua infinità la totalità di ciò che può essere implicato o rappresentato dalle nozioni di infinito e di finito, di cui la prima comprende la seconda, senza reciprocità[3]. D’altra parte, il finito non può essere escluso o isolato da o negato all’infinito, giacché un finito indipendente sarebbe di per sé una limitazione dell’infinito per ipotesi. L’Identità Suprema è, perciò, rappresentata inevitabilmente nel nostro pensiero sotto due aspetti, che sono entrambi essenziali alla formazione di ogni concetto di totalità secundum rem. Così troviamo detto di Mitrāvaruṇau (apara e para Brahman, Dio e Divinità) che da uno stesso seggio essi contemplano «il finito e l’infinito» (aditi ditiṃ ca, RV 1.62.8); dove, natu­ralmente, si deve tener presente che in divinis “vedere” equivale a “conoscere” e a “essere”. O similmente, ma sostituendo la nozione di espirazione con quella di manifestazione, si può dire che «Quell’Uno è ugualmente espirazione e inspirazione» (tad ekam ānīd avātam, RV X.129.2) oppure è allo stesso tempo «Essere e Non-essere» (sa-dasat, RV X.5.7)[4].

Lo stesso concetto, espresso in termini di enunciazione e silenzio, è chiaramente formulato in RV II.43.3, «Oh Uccello, che tu enunci benessere ad alta voce, o sieda silente (ṣṇīm), pensa a noi con favore»[5]. E analogamente nel rituale, troviamo che riti sono eseguiti con o senza formule enunciate, e che lodi sono offerte vocalmente o silenziosamente; per cui anche i testi forniscono una spiegazione adeguata. Qui si deve premettere che lo scopo primario del Sacrifi­cio Vedico (yajña) è di effettuare una reintegrazione della deità concepita come esaurita e disin­tegrata dall’atto della creazione, e allo stesso tempo quello dello stesso sacrificatore, la cui per­sona, considerata nel suo aspetto individuale, è evidentemente incompleta. La modalità di rein­tegrazione è mediante iniziazione (dīka) e simboli (pratika, ākṛti), siano naturali, costruiti, attuati o vocalizzati; il sacrificante è tenuto a identificarsi con lo stesso sacrificio e così con la deità il cui auto-sacrificio primordiale esso rappresenta, «l’osservanza della regola di questo essendo la stessa com’era alla creazione». Una chiara distinzione è tracciata tra coloro che possono c-2essere solamente “presenti” e quelli che “veramente” partecipano agli atti rituali che vengono eseguiti per loro conto.

Come già detto, ci sono certi atti che sono eseguiti con un accompagnamento vocale e altri silenziosamente. Ad esempio, in ŚB VII.2.2.13-14 e 2.3.3, a proposito della preparazione del­l’altare per il Fuoco, certi solchi sono scavati e certe libagioni fatte con un accompagnamento di parole pronunciate, e altri silenziosamente. «Silenziosamente (ṣṇīm), poiché ciò che è silente è non dichiarato (aniruktam), e ciò che è non dichiarato è ogni cosa (sarvam) … Questo Agni (Fuoco) è Prajāpati, e Prajāpati è sia dichiarato (nirukta) sia non dichiarato, limitato (parimita) e illi­mitato. Ora qualunque cosa faccia con formule espresse (yajuā), con ciò integra (saskaroti) quella sua forma che è dichiarata e limitata; e qualunque cosa faccia silenziosamente, con ciò integra quella sua forma che è non dichiarata e illimitata. In verità, chi come conoscitore di ciò fa così, integra la piena totalità (sarvam ktsnam) di Prajāpati; le formeab extra (bāhyāni rūpāi) sono dichiarate, le forme ab intra (antarāi rūpāṇi) sono non dichiarate». Un passaggio quasi identico appare in ŚB XIV.1.2.18; e in VI.4.1.6 v’è un altro riferimento all’esecuzione di un rito in silenzio: «Egli distende la pelle d’antilope nera in silenzio, poiché è il Sacrificio, il Sacrificio è Prajāpati, e Prajāpati è non dichiarato».

In TS III.1.9, le prime libagioni sono sorbite silenziosamente (upāṇśu), l’ultima con rumore (upabdim), e «così quello concede alle divinità la gloria che spetta loro, e agli uomini la gloria che spetta loro, e diventa divinamente glorioso fra le divinità e umanamente glorioso tra gli uomini».

In AB II.31-32, i Deva, incapaci di sconfiggere gli Asura, sono detti aver “visto” la “lode silenziosa” (tūsīm śaṇsam apaśyam), e questo gli Asura non potevano capirlo. Questa “lode silenziosa” è identificata con ciò che è chiamato gli «occhi delle pigiature del soma, mediante i quali il Conoscitore raggiunge la Luce del mondo». V’è un riferimento a «questi Occhi del soma, con i quali occhi della contemplazione (dhī) e dell’intelletto (manas) noi contempliamo il Dorato» (hirayam, RV I.139.2, vale a dire, Hiraṇyagarbham, il Sole, la Verità, Prajāpati, come in X.121). Si può osservare a tale proposito che, come il vino di altre tradizioni, il soma condiviso non è il vero elisir (rasa, amta) della vita, ma un liquore simbolico. «Di ciò che i Brahmani inten­dono con “soma”, nessuno ne gusta mai, nessun che dimora sulla terra ne gusta» (RV X.85.3-4): è «mediante il sacerdote, l’iniziazione e l’invocazione» che il potere temporale partecipa alla parvenza del potere spirituale (brahmao rūpam), AB VII.31[6]. Qui la distinzione tra il soma realmente condiviso e il soma teoricamente condiviso è analoga a quella tra le parole del rituale pronunciate e ciò che non può essere espresso a parole, e analoga similmente alla distinzione tra la rappresentazione visibile e il «dipinto che non è nei colori» (Lakāvatāra Sūtra II,118).

La ben nota orazione in RV X.189, indirizzata alla Regina Serpente (sarparājñī) che è allo stesso tempo l’Alba, la Terra, e la Sposa del Sole, è conosciuta anche come il “canto mentale” (mānasa stotra), evidentemente perché, come spiegato in TS VII.3.1, è “cantato mentalmente” (manasā[7] stuvate), e questo proprio perché è nel potere dell’intelletto (manas) non solamente di comprenderlo (imām, i.e., l’universo finito) in un singolo momento, ma anche di trascenderlo, non solo di contenerlo (paryāptum) ma anche di avvolgerlo (paribhavitum). E in questo modo, mediante ciò che è stato precedentemente enunciato vocalmente (vācā) e ciò che è successiva­mente enunciato mentalmente, «entrambi (i mondi) sono posseduti e ottenuti». Proprio lo stesso è sottinteso in ŚB II.1.4.29, dov’è detto che quanto non è stato ottenuto con i riti precedenti è ora ottenuto mediante i versi del Sarparājñī, recitati, com’è evidentemente dato per scontato, mentalmente e in silenzio; e così il tutto (sarvam) è posseduto. Similmente in KB XIV.1, dove le prime due parti del Ājya sono il “mormorio silenzioso” (ṣṇiṃ-japaḥ) e la “lode silenziosa” (ṣṇiṃśaṇsa), «Egli recita in modo inudibile, per il raggiungimento di tutti i desideri», va inteso, naturalmente, che il canto vocalizzato attiene solo al conseguimento di beni temporali.

Si può notare, altresì, che la corrispondenza delle parole pronunciate verso l’esterno e quelle non dette verso le forme interne di divinità, sopracitata, è in perfetto accordo con la formula­zione di AB I.27, dove quando il soma è stato acquistato dai Gandharva (tipi di Eros, armati di archi e frecce, che sono i guardiani di Soma, ab intra) al prezzo della Parola (vāc, femm., chiamata qui “la Grande Nuda”, la Dea Nuda, e rappresentata nel rito da una giovenca vergine), è prescritto che il recitativo dev’essere eseguito in silenzio (upāṇśu) fino a che ella non sia stata riscattata da loro, vale a dire, fino a quando ella rimane “dentro”.

In BU III.6, dove c’è un dialogo su Brahman, la posizione viene finalmente raggiunta dove all’interrogante viene detto che Brahman è «una divinità sulla quale altre domande non possono essere poste», e così l’interrogante «possiede la sua pace [della divinità]» (upararāma). Questo, naturalmente, è in perfetto accordo con l’impiego della via remotionis negli stessi testi, dov’è detto che il Brahman è “No, No” (neti, neti), e anche con il testo tradizionale citato da Śaṇkara sui Vedānta Sūtra III.2.17, dove Bāhva, interrogato in merito alla natura di Brahman, rimane in silenzio (tūsīm), esclamando solo quando la domanda è ripetuta per la terza volta: «Invero io v’insegno, ma voi non capite: questo Brahman è silenzio». Il rifiuto del Buddha d’analizzare lo stato di nirvāacomporta precisamente lo stesso significato. [Cfr. avadyam, “l’impronuncia­bile”, da cui i principi conseguenti sono liberati dalla luce manifestata, RV passim.] In BG X.38, Krishna parla di se stesso come «il silenzio di coloro che son nascosti (mauna guhyāām), e la gnosi degli Gnostici (jñanaṃ anavataām)»; dove mauna corrisponde al muni familiare, “saggio silente”. Naturalmente, questo non significa che Egli non “parli” anche, ma che il suo parlare è semplicemente la manifestazione, e non un’affezione, del Silenzio; come BU III.5 pure ci ricorda, lo stato supremo è tale da trascendere la distinzione tra enunciazione e silenzio. «Senza rispetto verso enunciazione o silenzio (amauna ca maunaṃ nirvidya), allora egli è veramente un Brāhman». Quando inoltre è chiesto, «Con quali mezzi si diviene così un Brāhman?» all’in­terrogante è detto, «Con quei mezzi con cui si diviene un Brāhman», che è come dire, per una via che può essere trovata ma non può essere tracciata. Il segreto dell’iniziazione rimane inviolabile per sua stessa natura; non può essere tradito perché non può essere espresso, è inesplicabile (aniruktam), ma l’inesplicabile è ogni cosa, allo stesso tempo tutto ciò che può e tutto ciò che non può essere espresso.

Si vedrà dalle citazioni di cui sopra che i testi dei Brāhmaṇa e i riti cui si riferiscono sono non solo assolutamente coerenti in sé ma in completo accordo con i valori sottintesi nel testo dei RV II.43.3; le spiegazioni sono, infatti, di validità universale, e potrebbero essere applicate anche alle Segrete Orazioni della Messa Cristiana (che è anche un sacrificio) come alla ripe­tizione silente della formula degli Indiani Yajus[8]. La coerenza offre allo stesso tempo un’eccel­lente illustrazione del principio generale che quanto si trova nei Brāhmaṇa e nelle Upaniṣhad non rappresenta in linea di principio nulla di nuovo, ma solo un’espansione di quanto è dato per scontato e più “eminentemente” enunciato negli stessi testi liturgici “più vecchi”. Coloro che suppongono che nei Brāhmaṇa e nelle Upaniṣhad siano insegnate dottrine del tutto “nuove” stanno semplicemente ponendo inutili difficoltà sulla via della loro comprensione delle Saṃhitā.

Sarà vantaggioso anche considerare la derivazione e la forma della parola ṣṇīm. Questa forma indeclinabile, generalmente avverbiale (“silenziosamente”) ma talvolta da rendere in mo­do aggettivale o come un sostantivo, è in realtà l’accusativo di ṣṇa, femm. ṣṇī, presumibil­mente andato perso, corrispondente al significato del greco σιγή, e derivato da Vtu, che significa essere soddisfatto, contento e a riposo, nel senso che il movimento s’arresta nel raggiungimento del suo oggetto, e proprio come il discorso s’arresta nel silenzio quando tutto ciò che si poteva dire è stato detto. La parola ṣṇīmsi presenta come un vero accusativo (W. Caland, «tūṣṇīm è uguale a vācayamaḥ») [poiché parlare di “contemplare silenziosamente” comporterebbe una tautologia] in PB VII.6.1, dove Prajāpati, desiderando procedere dallo stato di unità a quello di molteplicità (bahu syām), si espresse con le parole «Possa io nascere» (prajāyeya), e «avendo con l’intelletto contemplato il silenzio» (ṣṇīm manasā dhyāyat), con ciò “vide” (ādīdhīt) che il Germe (garbham, vale a dire, Agni o Indra, che come il Bṛhat diventa il “primogenito”) era na­scosto dentro di sé (antarhitam), e così si prefisse di farlo nascere per mezzo della Parola (vāc). [Cfr. TS II.5.11.5, <e