La fabbrica della maternità
di Valentina Ferranti - 11/04/2023
Fonte: Ideazione
In questo tempo secolarizzato la riflessione costante nonché l’osservazione continua di ciò che accade intorno a noi, diviene uno strumento di difesa affilato come lama di spada. Non è concessa nessuna distrazione. A ben vedere, l’origine etimologica del termine lo spiega: dal Lat. Distrahere (trahere), ovvero separare, disgiungere, lacerare per scomporre. L’essere integri impone lavorio continuo. E proprio nell’istante in cui tutt’attorno si sgretola ed il perfetto cerchio dell’esistenza – così come il piano divino l’ha stabilita – viene letteralmente spezzata da forze terrene ed incorporee dedite al disgregamento, l’attenzione deve sempre rinnovarsi.
Nessun momento storico ha richiesto, a tutti gli uomini di buona volontà, maggior attenzione. Si cammina sui pezzi di vetro avvelenati. Non un passo falso, nessuna suggestione riguardo al mondo mondano. Tale distrazione comporterebbe seppur minima e rettificata subito dopo, la caduta in un vortice inebriante che trae in basso, allontanandoci dalla giusta azione e dal giusto pensiero. Essere roccia in un mondo di vantaggio morbido in cui la mollezza del vivere senza scopo e allietati dalla pillola della soddisfazione immediata ed effimera, è quantomai un compito arduo ma essenziale. Prendere posizione quindi spesse volte rifiutando il dialogo con chi, stordito dai tranelli, rende quel dialogo trappola. Sperimentiamo questa situazione ogni giorno. È in atto l’inversione del bene. L’accondiscendenza di fronte al male, che assume le sembianze del possibilismo buonista, è la distrazione in cui l’umanità è caduta. Tutto può quindi essere giustificato. Tutto deve essere inclusivo e accettabile. Non cedere di un passo, non assecondare, non respirare la stessa aria di chi, ormai perso, insinua che la libertà sia relativismo. Vi è invece una morale universale che al di là delle norme religiose e/o d’appartenenza culturale, non è sindacabile poiché incisa nel mondo creato e nelle creature tutte. Per questo il dialogo con chi si dice orientato dalla ricerca scientifica che tende a modificare il corso naturale della vita, è un invito che dovremmo declinare. La trappola di cui prima scrivevo è questa. Nella sacralità del parto si è incistato il male. Non ora. È stato un lento rigonfiamento che vide, in seno all’illuminismo, l’inizio di una corsa inarrestabile giunta oggi ad epiloghi senza fine. Una linea retta che i molti chiamano evoluzione, progresso. Fu un italiano a dare avvio alla corsa: il gesuita Lazzaro Spallanzani, biologo specializzato in zoologia e botanica. Padre della fecondazione artificiale testata dapprima su una rana e poi su una cagnetta. Da quei primi esperimenti riusciti (non conosciamo quelli falliti a danno di altre creature animali), la corsa al ‘gioco della vita’ non si è più arrestata. Sappiamo per certo che a fine ‘800, a causa degli studi e delle sperimentazioni di Louis Girault, James Marion Sims, Joseph Gerard ed altri meno noti, giungiamo ad un altro italiano: Paolo Mantegazza – uno dei principali divulgatori delle teorie di Charles Darwin – progressista dalle molteplici specializzazioni che per primo nel 1886 parlò del congelamento del seme maschile relativo alla fecondazione post mortem. Da quel giorno giungiamo velocemente al secolo scorso quando, il 25 luglio 1978 al Royal Oldham di Manchester, venne alla luce Luise Brown, la ‘prima nata’ in provetta grazie al futuro premio Nobel Robert Edwards ed al collega Patrick C. Steptoe, ginecologo pioniere della laparoscopia. Dal quel momento, nonostante non possiamo conoscere la storia non-gloriosa della procreazione assistita e dei giochi alla Frankenstein a danno di indifese creature, veniamo catapultati nel nostro presente. Distrazione dopo distrazione ci ritroviamo ad osservare come fossero ormai normali, problemi di infertilità di coppia e medicalizzazione coatta del concepimento. Difficoltà dovute a stili di vita forsennati; a problemi economici che impongono un’età sempre più avanzata per divenire padri e madri, e molte altre questioni che ci pongono dinnanzi ad un mutamento antropologico epocale per cui la maternità naturale appare come una sfida rivoluzionaria rispetto ai paradigmi egoistici e consumistici, imposti dai modelli economici e culturali dominanti.
Questa è solo una osservazione veloce e poco articolata, una traccia, poiché il discorso che qui si dipana riguarda ‘il limite’. Se come società umana abbiamo accettato che il desiderio di avere un figlio possa trovare soluzione tramite forme di fecondazione assistita, senza chiederci o trovare i motivi socio-economici al problema, nonché riflettere sui significati profondi di tale tematica, (la separazione della maternità dal corpo), siamo andati oltre ed abbiamo normalizzato una anomalia che si sviluppa in molteplici sfaccettature. Mi riferisco alla pratica della maternità surrogata, già sistematizzata da anni. La legislazione in merito cambia da paese a paese ed in Italia è vietata (Legge 40 del 2004). La pratica si può presentare come ‘altruistica’ ovvero senza passaggio di denaro come ad esempio nel Regno Unito, o come maternità surrogata commerciale legalmente praticata in paesi come l’Ucraina, la Russia, l’India ed ovviamente alcuni stati americani, solo per citarne alcuni e senza sottolineare le differenze giuridiche. I fautori del relativismo-possibilista-arcobaleno inneggiano alla ritrovata gioia per quelle coppie etero, omosessuali o altro, che non avrebbero potuto gioire della maternità/paternità. Tale pratica viene anche richiesta da donne che per carriera o pigrizia non possono permettersi la gestazione ma desiderano un figlio… Molti altri esempi si potrebbero fare ma il cuore del discorso resta ‘il limite’. Un confine che riguarda una invalicabile linea, quella della sacralità della maternità e dell’amore per il nascituro, nonché la consapevolezza che molte madri surrogate accettano l’abominio per poter mantenere altri figli… In questo quadro patologicamente disfunzionale, la donna (la surrogata) si impegna per denaro a portare a termine una gravidanza. Una vera e propria commissione, in cui la madre diviene un mero contenitore ed il bambino l’oggetto desiderato. Lo strappo che si verificherà tra madre gestante e neonato sarà insanabile per l’una e per l’altro. L’indifeso, il cucciolo che andrebbe protetto e salvaguardato diventa così carne in transizione e l’utero che lo ha alimentato diviene luogo di transito e non d’amore. La donna partoriente è ridotta a fucina…
Ma questo è solo all’inizio. Sbocciano come fiori mortiferi, cliniche private in cui, individui abbienti affetti da infantilismo-egoistico-narcisista, possono decidere, se ‘difettoso’, di restituire il bambino imperfetto e cambiarlo con un altro più adatto al modello desiderato. Adulti che giocano a cullare quello che loro pensano essere un Cicciobello e che in realtà è un bambino cui tutti, se complici, neghiamo il diritto d’amore.
È in seno a questo abominio che non possiamo distrarci. Non dovremmo assecondare nessun ‘possibilismo’. Stiamo assistendo alla manipolazione della nascita, alla desacralizzazione della vita. Cosa diremmo a quei figli concepiti come prodotto quando chiederanno il motivo per cui sono nati, o come sono stati concepiti?
Il desiderio, a tutti i costi, d’esser madre o padre è ormai insindacabile. Il diritto del nascituro pare non esserlo. Eppure l’amore si regola su leggi differenti e divine.