La fine dei tempi: la scomparsa della realtà
di Pier Paolo Dal Monte - 02/07/2023
Fonte: Frontiere
L’antichità ci ha tramandato il mito delle età, che, seppur declinato in maniera leggermente diversa, nelle diverse tradizioni, narra di un progressivo decadere della qualità del tempo, sino a giungere ad un’età di decadenza estrema, nella quale corruzione e caos sarebbero state le caratteristiche imperanti.
Questi racconti sono considerati mitici e, dunque, secondo la frivola “sapienza” dei moderni, favolette prive di significato alcuno, storico o cognitivo che sia (o, tantomeno, predittivo).
È, tuttavia, curioso osservare la somiglianza tra ciò che è descritto in quei racconti e ciò che si dipana in questi tempi, al punto che quelle che sono considerate fiabe per fanciulli, potrebbero essere ritenute previsioni piuttosto accurate, tanto da soddisfare i criteri della moderna scienza sperimentale, dato che sono confermati “sperimentalmente” dalla forma che ha assunto il nostro presente.
La mitologia scientifica e il feticismo del progresso hanno sempre postulato che il cammino dell’umanità fosse destinato a procedere, con moto “ascendente”, verso un empireo di progressiva perfezione, fatto di Nuove Atlantidi e di Città del Sole.
Le cose non sono andate esattamente in questa direzione.
Oh, certo, vi è sempre la volontà di procedere verso mete analoghe a quella descritta dal Campanella, tuttavia, appare sempre più rivelarsi sottoforma di “Città delle Tenebre”, dato che un perfetto ordine è, sempre e comunque, destinato ad assumere le sembianze di un inferno desiderato dalle farneticazioni di qualcuno
Così, oggi si possono rileggere quegli antichi testi con un altro occhio, dato che paiono descrivere il nostro presente in maniera piuttosto accurata.
“Nell’epoca del Kali Yuga la frode sarà la norma. Vi saranno gravi siccità e carestie e accadranno rivoluzioni. Le persone saranno bugiarde e peccatrici. Non rispetteranno la Tradizione. Gli ignoranti saranno al governo ed opprimeranno i Sapienti. Essi pretenderanno inoltre di essere Maestri.
E, orrore degli orrori la gente comincerà a credere in questi fraudolenti maestri”[1].
“Nel Kali Yuga le persone non avranno la conoscenza delle scritture. L’eloquenza sarà scambiata per sapienza. Solo coloro che sapranno approfittarsi degli altri saranno reputati intelligenti[2]”.
“Il diritto starà nella forza e l’uno all’altro saccheggerà la città.
Né il giuramento sarà rispettato, né lo sarà chi è giusto
o dabbene; piuttosto l’autore di mali e l’uomo violento
rispetteranno; la giustizia sarà nella forza e coscienza
non vi sarà; il cattivo porterà offese all’uomo buono
dicendo parole d’inganno e sarà spergiuro;
l’invidia agli uomini tutti, miseri,
amara di lingua, felice del male, s’accompagnerà col volto impudente.
Sarà allora che verso l’Olimpo, dalla terra con le sue ampie strade,
da candidi veli coperte le belle persone
degli immortali alla schiera andranno, lasciando i mortali,
Vergogna e Sdegno: i dolori che fanno piangere resteranno
agli uomini e difesa non ci sarà contro il mal”[3].
Se si leggono, dunque, questi passi con la mente sgombra dalla mitologia permeata dalle “magnifiche sorti e progressive” che informa la modernità tutta, è facile osservare che, ciò che è descritto in essi, assume le sembianze di una cronaca della nostra età, nella quale, in quella parte del mondo che, un tempo, si riteneva essere il faro della civiltà, destinato ad illuminare la restante parte del globo, è ormai scomparsa ogni vestigia di pensiero dotato di qualsivoglia contenuto e qualsivoglia logica, per non parlare della cultura, della tradizione e dei costumi, sedimentati nei millenni.
Pertanto, anche se la moderna umanità continua a cullarsi nell’illusione di procedere verso una dimensione edenica, della quale, peraltro, non è mai specificata la forma o la natura (il progresso è, sempre e comunque, postulato essere il Bene), in realtà sta brancolando verso una dimensione distopica fatta, al contempo, di entropia psichica e di pianificazione ossessiva: una gabbia d’acciaio popolata di mostri e mostruosità.
Sebbene sia abbastanza sciocco parlare di “fine della storia”, almeno, se si adottano i criteri degli sciocchi che ne parlarono, i quali postularono che, da un certo momento[4] in poi, la vicenda umana sarebbe stata destinata a proseguire placidamente, “sanza infamia e sanza lode”, come quella di una mandria di bovini impegnata soltanto a pascersi nei verdi pascoli, messi a disposizione dall’inesauribile cornucopia del progresso “liberale”.
Eppure, questa rappresentazione storica, stolta e goffa, contiene, ciononostante, un germe di profezia, dato che quest’orientamento bovino, privo di qualunque afflato, di qualsivoglia tèlos o di qualsiasi ethos, è ciò che si osserva nel pargoleggiante nichilismo della nostra età.
Si tratta di un nichilismo immotivato ed insensato che è difficile da decifrare, in maniera ockhamiana”. Nella fattispecie, sembra derivare da un’urgenza escatologica, un’ansia di palingenesi connaturata allo spirito del tempo: l’età del ferro o il Kali yuga, che dir si voglia. Una premura di ridurre a tabula rasa tutto ciò che è stato costruito (la cultura) ed accumulato (la tradizione) per millenni, allo scopo di ricreare un’edenica “terra vergine”, una nuda terra ed una nuda vita ridotta a mero metabolismo, così da poter essere gestita, agevolmente e senza sforzo, secondo paradigmi zootecnici.
Numerus stat ex parte materiae
In questo contesto non dovranno esservi vestigia della sapienza passata, la nuda vita sarà composta solo di percezioni e desideri; il mercato sarà la misura di tutte le cose create dalla natura o ri-create dalla megamacchina che costituisce la moderna ontologia e, dunque, sarà anche la misura di quelle macchine percepenti e desideranti che compongono la moderna umanità.
Siccome avviene nella moderna zootecnia, lo scopo di questi esseri è quello di estrarre, dal loro metabolismo, un cospicuo profitto per coloro che li allevano: a che servirebbe, altrimenti, un allevamento che non procura un profitto per l’allevatore?
Certo, in epoche di produzione, come quelle del passato, era abbastanza agevole valutare la “produttività” delle “risorse umane”: si parlava di “valore aggiunto” o di “plusvalore”, a seconda dell’orientamento politico. Ma oggi? Quale sarebbe il valore aggiunto in un’epoca di mero consumo ed economia immaginaria?
Questo valore attiene assai più alla fede che ai calcoli economici: la fede nella rappresentazione che consente al mondo fantasma di continuare ad esistere; la fede che attribuisce realtà ad esso ed all’economia che ne è misura.
Il valore residuale delle macchine umane risiede proprio nella loro capacità di credere, in questa rappresentazione, e di introiettare i desideri e gli scopi che essa induce. Il valore e la misura sono moti dell’immaginazione: “tutte le cose preziose e deliziose”[5], armenti e greggi, frumento e pascoli, vengono annichilite dal progresso del valore, che si fonda sul valore del progresso.
Tutto è, oramai, un assieme di segni che vengono quotati e scambiati nella “Confusiòn de Confusiones”[6] della borsa valori, nella quale si commerciano i fantasmi delle cose.
La materia cede il posto all’immateriale, il cui valore si radica e trae nutrimento da un milieu di persuasione e fantasticherie, miscelate con perizia per dare corpo alla fede e alle illusioni che, ancora, malamente sorreggono l’esistente con un’impalcatura di menzogne.
Un contadino non vale quasi nulla, al cospetto di uno speculatore di borsa, il cui tempo scorre spacciando frodi; un carpentiere è un paria, rispetto ad uno stronzetto che sforna slogan pubblicitari che si reggono su un’antropologia fantastica.
A nulla conta che il primo sia colui, grazie al quale, si può imbandire la tavola, ed il secondo, colui che, “con arte, costruisce la casa”[7] o, per dirlo in termini più prosaici, che siano coloro i quali consentono il metabolismo di questa residua umanità.
In assenza di metabolismo, la termodinamica sfocia in mera entropia. Questa è una realtà ineludibile anche in un’epoca nella quale il mondo rappresentato ha preso il posto del mondo; anche se il mercato, illusione tra le più pacchiane, pretende di infondere una qualche sostanzialità a questo mondo fantastico, nel quale la realtà è svanita.
Il valore è soltanto un’entità immaginaria che si autorappresenta come un fantasma in una stanza di specchi.
[1] Kurma Purana: 23
[2] Visnu Purana:3.6
[3] Esiodo: Le opere e i giorni
[4] Il crollo del “blocco” sovietico
[5] Proverbi: 24,3-4
[6] Titolo di un’opera del 1688 di Joseph Penso de la Vega, nella quale l’autore descrive e analizza i meccanismi della borsa valori di Amsterdam
[7] Proverbi: 24,3-4