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La fine dell’impero americano: Trump torna alle origini

di Salvo Ardizzone - 13/03/2025

La fine dell’impero americano: Trump torna alle origini

Fonte: Italicum

L’elezione di Trump è molto, molto più dell’ingresso di un nuovo presidente alla Casa Bianca; se ci si scosta dalle tifoserie, e si tralasciano le distrazioni della cronaca, si colgono diversi netti segnali. Primo (e ironico contrappasso della Storia): dopo infiniti regime change promossi per il mondo, a Washinton c’è stato un cambio di regime che sta travolgendo i pilastri del suo potere, quanto di esso e quanto solido rimarrà al futuro svelare. Secondo, e conseguente al primo: il passaggio segna non una consueta alternanza ma la definitiva fine d’un ciclo politico, il periodo conclusivo (e autodistruttivo) della deriva “liberal” inaugurata da Obama.
Fin qui le note immediate, tuttavia, se si rifiuta di schiacciarsi sul presente e si guarda più lontano, ci si accorge che insieme al ciclo politico è finita un’era: l’era imperiale americana, un’era iniziata quantomeno da Woodrow Wilson. È il terzo e di gran lunga più rilevante dei segnali a causa delle conseguenze per l’intero mondo, in particolare per l’Europa, che di quell’impero era provincia e rimane ostinatamente vassalla; altro non sa pensarsi una classe politico-burocratica allevata per tre generazioni a pane e Washington. Meglio: a vassalla di ciò che era l’impero americano – ripetiamo e sottolineiamo, l’impero, non ciò che l’ha sostituito - dei suoi miti e della sua ideologia di cui oggi è dolente orfana.
Piaccia o no, Trump è stato il catalizzatore di una valanga che ha vinto a mani basse: ha totalizzato più consensi, ha il controllo di Camera e Senato, ha una Corte Suprema in sintonia. Strike incontestabile. Unico neo una Federal Reserve che può riservare qualche noia, ma è proprio l’unico. La portata della vittoria è confermata dal fatto che l’opposizione democratica rimane in stato confusionale, incapace di metabolizzare una sconfitta che non ha compreso, perché figlia di una realtà che essa cocciutamente rifiuta. Gli stessi pilastri del suo potere si sono squagliati o, più semplicemente, adeguati al nuovo corso. Finanza e Big-Tech, organiche alla passata Amministrazione, fiutata l’aria nuova, si sono rapidamente riallineate. La cerimonia dell’insediamento di Trump, con dietro i vertici di Black Rock, Vanguard, State Street, Amazon, Meta, Microsoft e via discorrendo, guardati con sufficienza da un trionfante Elon Musk, ne è paradigmatica dimostrazione: la vecchia oligarchia si è inchinata al nuovo corso, che ne porta con sé un’altra, ancora più rampante (vedi OpenAI, Palantir, Oracle, Anduril, etc.).
È l’irruzione dei tecno-capitalisti, più propriamente anarco-capitalisti, che si riconoscono nei deliri del “Manifesto dei tecno-ottimisti” di Marc Andreessen, un pamphlet infarcito di puerili banalità, esaltazione dell’individuo e granitica fede nella scienza, unica via per la salvezza identificata, naturalmente, nel successo, nel denaro. È la rinnovata fede nell’eterna “Frontiera”, stavolta posta nell’AI o - perché no? – fra le stelle alla Elon Musk. Tutto purché porti soldi, tanti. E chi non ce la fa, gli homeless che affollano le strade americane sempre più numerosi, o chi viene annientato dal fentanil, beh, rappresentano l’equivalente moderno dei pionieri che si perdevano nelle praterie col conestoga. Null’altro che selezione “naturale”, il darwinismo sociale connaturato all’America profonda.
Quella che ha vinto è America che torna a se stessa, che rifiuta l’impero per tornare alla repubblica; ho detto repubblica, con democrazia, perché quella pensata dai padri fondatori tale era: ostinatamente oligarchica quanto anti democratica, imbevuta fino e oltre l’osso da principi illuministi (e massonici) da cui si è sviluppato sistema liberale e liberismo in tutte le sue declinazioni fino all’oggi. Trionfo dell’individuo, della collettività quale indistinto fascio di soggetti, dell’io, e negazione della comunità, della persona umana, del noi, con tutto quello che ne segue.

America americana, non più Occidente

Abbiamo detto che il cambiamento in atto negli USA è mutamento di ciclo politico di lungo, lunghissimo periodo che, necessariamente, determina e si fonde col tramonto degli equilibri globali di cui essi si pretendevano attori egemonici. È mutato il modo in cui l’America vede se stessa e il mondo. La sua proiezione, la Geocultura che tanto ha fatto per garantirle dominio, si è spezzata in due narrazioni non diverse ma opposte. La Geostrategia s’è dimostrata carente, anzi, autolesionistica: puntando all’irrealistico obiettivo di plasmare e governare il mondo l’ha sovra estesa ed esaurita. La Geoeconomia è in strutturale affanno causa deindustrializzazione e finanziarizzazione di quanto resta dell’economia reale. Strumenti bloccati tutti su note sempre più stonate, avulse da realtà, con ciò mutando radicalmente il modo in cui nemici, competitor e partner/satelliti la vedono.
Quella che è entrata alla Casa Bianca, spingendo fuori rudemente chi si sentiva establishment per naturale diritto, è un’America che rifiuta l’impero perché stanca di sostenerne il peso senza percepirne i dividendi; che pretende d’essere “eccezionale” ma non si cura di rendere il mondo a propria immagine, gli basta sfruttarlo, imporre a discrezione le proprie convenienze. Non vuole essere parte di altro che non sia se stessa, non è più Occidente – brand ormai drammaticamente scaduto, svuotato d’ogni contenuto nel corso di tre generazioni, omologato a narrazione e prassi a Stelle e Strisce – è America centrata su se stessa, anzi, Fortezza America, chiusa in una sfera d’influenza su cui reclama piena sovranità. Sublimazione della Dottrina Monroe, ma con distinguo coerenti alla propria torsione.
Pretende la Groenlandia, certo, perché cela risorse immense sotto i ghiacci, perché è porta sull’Artico, nuova Frontiera del domani, e perché è vuota: nessuna insidia per il canone razziale che vuole tornare a farsi Repubblica e Nazione. Discorso analogo per il Canada, con in più il fatto che i canadesi, tra l’altro non troppi, sono comunque del tutto assimilabili agli yankees. Non il Messico, da sfruttare, bullizzare, ma da tener a distanza per non accrescere la contaminazione del ceppo che si vuole egemone con una inondazione di latinos. Questa, fra le massime colpe imputate alle élites globaliste, per loro un non problema, anzi: importazione di mano d’opera schiavizzata, mascherata da un’inclusività ipocrita quanto bugiarda.
Lo scippo del concetto d’Occidente e la nascita dell’impero
Il ciclo che ha portato all’oggi è storia lunga, una sorta di viaggio circolare iniziato dopo McKinley, il presidente americano assassinato nel 1901 che, dopo aver distrutto quanto restava dell’impero spagnolo a causa degli enormi interessi americani nelle piantagioni di Cuba, si guardò bene dall’inglobarne le colonie. Meno che mai le Filippine, di cui non sapeva che fare perché considerate del tutto aliene. Da notare: quell’America si considerava “eccezionale”, da sempre, ma fino ad allora non pensava neppure di rendere l’universo mondo simile a sé, anzi, in vasta parte lo disprezzava perché si considerava sideralmente migliore. E poi, c’era ancora un egemone talassocratico, l’Impero Britannico che, sebbene alla soglia del tracollo, a quel tempo dominava gli oceani e i traffici che li solcavano in quella che fu chiamata la prima globalizzazione, beninteso, allora di marca europea.
Il passaggio netto avvenne dopo il primo atto del suicidio dell’Europa, con Woodrow Wilson che a Versailles fu arbitro perché il creditore di potenze dissanguate. Fu allora che l’America divenne non ancora egemone, ma riconosciuto soggetto da cui non si poteva prescindere. Non solo. Fu allora che impose i canoni della liberal-democrazia e con essi i doppi standard cui far adeguare il mondo.
Come ho scritto in altra circostanza, Wilson spazzò via secoli di diplomazia, di Storia, di cultura; cancellò l’intero percorso compiuto dall’Europa da Westfalia, dal 1648, abolendo il concetto di “ius in bello”, ovvero di conflitto regolato dal diritto, che prevede un avversario legittimo con cui trattare, per tornare al “bellum justum”, la “guerra giusta”, che prevede un nemico equiparato al male e per questo da distruggere con qualsiasi mezzo, sempre e comunque lecito. Fu l’origine delle “bombe buone”, a prescindere, e di quelle “cattive”, quelle degli altri. E, per traslato, della ragione che sta sempre da una parte, ancora una volta a prescindere.
Il processo si completò pochi anni dopo, quando si consumò il secondo atto della tragedia europea: il Vecchio Continente si trasformò da primo attore della Storia a oggetto di Storia altrui, spaccato in due fra la nuova potenza talassocratica e la consacrata potenza tellurica. USA e URSS: gli uni, grazie alla guerra, avevano finalmente archiviato la crisi del ’29, protetti dagli oceani avevano superato indenni il conflitto uscendone con la metà del PIL mondiale e novelli re dei mari; l’altra, in una prova durissima, aveva sostenuto il peso reale della guerra a prezzo di almeno 27 milioni di morti e ora reclamava il suo spazio nel mondo. Due co-egemoni che si spartirono il globo giocando a un risiko planetario.
Per l’Europa fu distruzione completa che non salvò nessuno, certo non il Regno Unito, eufemisticamente in ginocchio, ombra del passato; peggio la Francia, che solo l’interessata concessione altrui dichiarò formalmente come “vincitrice”, francamente un ossimoro per come s’erano svolti gli eventi. L’Europa occidentale divenne gioiello della corona di un’America che si narrava “mondo libero” contrapposto alla tirannide. Ma a un impero, soprattutto se giovane, serve un brand potente, evocativo e gli USA lo presero da un’Europa in disarmo; fu lo scippo del concetto d’Occidente, ricco di Storia e di cultura, ma tramontato dal tempo di Ernst Junger, corroso dagli infiniti cancri che lui e tanti altri descrissero con lucido struggimento.
Da allora l’Occidente non fu più Occidente, il Grossraum descritto da Carl Schmitt, fu l’Occidente americano; il Grande Spazio Atlantico debordò nel Vecchio Continente sottoponendolo a forzata pedagogia culturale, a tutela politica e progressiva colonizzazione economica imponendo i propri canoni, riducendolo a satellite sempre più simile a sé.
Da quel momento sorse l’impero europeo dell’America, per tre generazioni ingabbiato e diretto via NATO e UE, braccio militare e politico. Della prima s’è detto e ridetto anche troppo, con superficialità pari alla malafede, facendo un feticcio dell’articolo 5 del suo trattato costitutivo. Se chi ne parla con tanta leggerezza lo leggesse con un minimo d’attenzione, s’accorgerebbe che il Patto Atlantico non garantisce “automaticamente” nulla, vale solo se l’azionista di riferimento, ovvero gli USA, lo decidono a loro discrezione in funzione delle preferenze del momento. Alcuni ci hanno raccontato che fino a oggi la NATO è stata un’alleanza “difensiva” e che a quella postura dovrebbe tornare: puro riflesso condizionato atlantista di chi si percepiva (e, malgrado tutto, s’ostina a percepirsi ancora) suddito dell’impero americano.
La NATO sarà stata pure difensiva, ma degli interessi USA, non certo europei; e poi, è sempre stato chiaro che gli Stati Uniti non avrebbero mai accettato il rischio serio di vedersi vaporizzata New York per una città europea, e se questo è stato fatto certo al tempo della Guerra Fredda lo è divenuto più che mai dopo. Se fosse stato proprio necessario, la guerra – atomica o convenzionale – si sarebbe svolta in Europa e ci sono una valanga di documenti emersi a confermarlo. In pratica, a essere vaporizzate sarebbero state città e popolazioni del Vecchio Continente, all’Est e all’Ovest, tornato campo di battaglia di interessi terzi. Molto, molto difficilmente le due superpotenze sarebbero giunte a un confronto definitivo, alla MutuallyAssuredDestruction o MAD che dir si voglia. Perché nella NATO non c’è mai stata eguaglianza, l’unica regola eterna è stata ed è seguire gli interessi, meglio, la volontà del padrone. Quale che sia.
Quanto alla UE, è stato braccio politico degli USA, col Regno Unito suo vigile guardiano; per esso un modo d’illudersi d’essere ancora indispensabile a chi da colonia è divenuto padrone. Molti dissentono da questo giudizio tranchant e, in effetti, tanto si potrebbe dire su genesi e sviluppo d’un percorso che dalla CECA ha portato alla UE via MEC, CEE e CE, ma è ormai Storia, passato che non ritorna. Il succo è che allora si poté procedere a un’aggregazione solo col permesso degli USA, che sul Continente hanno mantenuto e moltiplicato centinaia di basi militari. È pur vero che quel processo è nato per necessità, e che si è mosso sulle gambe e ancor più per le menti di leadership che conservavano ancora culture politiche e geopolitiche precedenti. Ma, come già detto, esse sono state del tutto azzerate nel corso delle generazioni successive, giungendo totale omologazione al canone americano.

L’abbaglio del Momento Unipolare e il suo sfaldarsi

Quando l’URSS si suicidò, perché di suicidio si trattò non di “vittoria” americana, balenò il Momento Unipolare: abbaglio collettivo, bestemmia a-storica che, ripetuta infinite volte, ha sostenuto per decenni la pretesa egemonica degli Stati Uniti. Per i think-thank d’oltre Atlantico, che a vario titolo innervarono l’Unipolarismo, doveva inaugurarsi la stagione d’un lungo “Secolo Americano” successivo al “Secolo Breve” che l’aveva preceduto, peccato che sia durato solo trent’anni.
Quello dello Zio Sam è stato impero disfunzionale, in grado eccelso nell’era unipolare; malgrado lo strapotere economico, tecnologico e militare, sorretto da un’indiscussa egemonia culturale, non ha curato lo status quo che lo vedeva al vertice, tipico e necessario esercizio dell’Egemone, ma ha pervicacemente creato caos, destabilizzando l’ordine che lo vedeva al centro. E ciò per strutturale inattitudine a strategica visione prospettica; a incapacità di prendere in considerazione l’altro da sé, di riconoscere culture e soggetti altri. Schiacciato su un presente che pretendeva eterno, declinato secondo regole proprie estranee alla Storia di cui aveva decretato la fine, ha ignorato le naturali dinamiche del mondo che ha semplicemente continuato per la sua via.
Non mi dilungherò sulle vicende che hanno caratterizzato la fase unipolare, servirebbe saggio a parte e su questa rivista le ho toccate in precedenti scritti, mi limiterò a tratteggiare i più rilevanti dei fenomeni emersi. Il primo, più evidente e in controtendenza con la pretesa egemonica americana, è la fine dell’Era Colombiana. Dopo cinquecento anni, il fulcro della Storia - e del mondo – è scarrellato dalle sponde atlantiche all’Indo-Pacifico, l’area di gran lunga più dinamica del pianeta. Con quel che ne segue. E per inciso, per l’Italia sarebbe opportunità da cogliere nel Mediterraneo asceso a Medioceano, cruciale connessione fra area atlantica e indo-pacifica, se da potenza sul mare si facesse finalmente potenza marittima, prospettiva cui si è sempre sottratta preferendo postura ancillare verso la Mitteleuropa a quella di attrice sulle acque che la circondano.
Secondo: con buona pace di quanto si continua a dare per assodato nell’Occidente americano, la talassocrazia, essenza prima del potere USA, è in discussione. Messa alla frusta a Bab el Mandeb, tutt’altro che sicura a Hormuz, sempre più contestata nel Mar Cinese, dimostra crescente affanno virante all’impotenza nel controllare i choke-point, i colli di bottiglia attraverso cui scorrono i traffici del mondo (vedi il blocco del Mar Rosso operato da Ansarullah: dov’è riuscita la Resistenza yemenita, cosa potrebbe fare una potenza primaria come la Cina?).
Terzo: a dispetto di quanto si va cocciutamente ripetendo come un mantra, è emersa la strutturale disfunzionalità del liberismo in generale e del Sistema America in particolare. La crisi di Lehman Brothers del 2008, e tutto ciò che è seguito negli anni successivi, ha messo in luce il pericolo che la finanza rappresenta per l’economia; ha evidenziato quanto sia errato puntare su di essa abbandonando l’economia reale; ha dimostrato che lasciar fare all’inesistente “mano invisibile” del mercato equivale ad abbandonarsi all’avidità di pochi. Insaziabile quanto autodistruttiva. Ha sbugiardato il dogma che il capitalismo liberista sia il sistema economico più efficiente: Cina docet.
Quarto: le dinamiche peculiari all’interno degli Stati Uniti, nel corso del periodo unipolare hanno generato difficoltà economiche che si sono tradotte in crescenti criticità sociali e culturali, traboccate in contrapposizioni politiche che hanno polarizzato la società americana in blocchi contrapposti. Ciò ha fortemente indebolito la proiezione degli USA, trasmettendo un’immagine di loro debolezza interna che è stata segnale di debolezza all’esterno, costringendoli a sistematico ricorso allo strumento militare, con ciò sovra estendendolo al di là delle sue capacità e vulnerando gravemente la sua deterrenza.
Quinto: al progressivo declino dell’impero americano è coincisa l’emersione degli Stati-Civiltà, fenomeno rilevante quanto poco analizzato causa sua distonia dai canoni del mainstream. Potenze la cui influenza si estende oltre le proprie frontiere, con compiuta idea di sé, del proprio “stare nel mondo”; dispongono di cultura capace di unire anche popolazioni diverse; articolano strategia espansiva su vasti territori che tendono a ordinare secondo regole e gestione delle risorse peculiari, non sovrapponili ad altre; declinano Geocultura, Geostrategia e Geoeconomia basandole su valori non negoziabili definiti dalle rispettive tradizioni.
Per le caratteristiche suddette, gli Stati-Civiltà si pongono in naturale contrapposizione con l’Unipolarismo, rifiutano influenze culturali estranee e accettano solo i meccanismi economici e commerciali che ritengono convenienti, coltivando rapporti esclusivamente a propria utilità e coerenza con ciò che ritengono i loro interessi nazionali. Strutturalmente, essi non tendono a egemonia globale, sarebbe contraddizione della loro essenza che si basa sulle “differenze”. Dopo la sbornia della cultura unica di stampo globalista, è il ritorno alle culture, al plurale. Cina, India, Iran, Turchia e Russia sono esempi di Stati-Civiltà. Che, dinanzi all’attacco del preteso unipolarismo USA, hanno fatto e fanno spesso fronte comune, trovando sinergie anche quando storicamente avversi (vedi Russia e Cina o Iran e Russia).
Sesto: dalla disamina dell’era unipolare stupisce non tanto l’affermazione dell’impero USA quanto la rapidità della sua decadenza malgrado l’enormità delle risorse di cui disponeva. La velocità della sua disgregazione interna ed esterna, il disfacimento di standard che pretendeva globali, ha fatto emergere un contesto multipolare, più propriamente policentrico, in cui spicca la crescente affermazione proprio degli Stati-Civiltà. È l’epitaffio del preteso unipolarismo USA, naturale ritorno alle dinamiche della Storia in cui le potenze tendono, in coerenza a propria stazza, risorse, connaturata postura, competitor e partner, alla realizzazione dei propri interessi nazionali coerentemente a sé.

Le faglie dell’impero unipolare accendono la Guerra Grande

Ne abbiamo già parlato più e più volte su queste pagine, riprendendo la fortunata espressione coniata dalla Rivista Limes: la contrapposizione fra l’egemonismo USA e il resto del mondo ha generato aree di crisi, col tempo sfociate in guerre rapidamente diffusesi lungo le faglie del confronto/scontro dell’Occidente americano vs chi s’è dimostrato sempre meno disposto a omologarsi/assoggettarsi a standard e diktat altrui per l’altrui convenienza. È la dinamica della Guerra Grande, che ha accumulato tensioni per anni e anni, generando prima conflitti limitati per poi esplodere apertamente.
Il primo dei focolai a deflagrare è stata l’Ucraina, dal 1994 – alla Casa Bianca c’era Clinton, il primo a disconoscere apertamente le rassicurazioni date a Gorbacev per favorire il suicidio sovietico – paradigmatica area di contrapposizione fra Occidente e Federazione Russa, fino a esplodere in guerra aperta il 24 febbraio del 2022, generando di gran lunga il più sanguinoso conflitto in terra europea dal 1945. È stata la dimostrazione che il re, anzi, l’imperatore era nudo, con conseguente “tana liberi tutti”. Sulla genesi e le dinamiche dello scontro si sono versati fiumi d’inchiostro e non staremo a ripercorrerli nei dettagli, giova però evidenziare le tendenze di una guerra che, dati i presupposti, era inevitabile, obbligata.
Di tutti i luoghi d’attrito della terra fra unipolarismo egemonico e multipolarismo policentrico emergente è scoppiata in Ucraina perché luogo di frizione fra un impero globale in fase calante, ma necessitato da sua intrinseca natura a indefinita espansione, e un impero tellurico, potenza cardinale obbligata a reagire a causa della minaccia, percepita come esistenziale, alla sua essenza. È in tal senso paradigmatica l’affermazione dei suoi vertici, quando hanno più volte dichiarato d’essere pronti a scontro definitivo, anche, se necessario, nucleare, perché non interessati a una Russia diversa, spogliata della sua anima, del suo “dasein”, costretta a uno stare nel mondo diverso, imposto dunque alieno, pura finzione posticcia come in Europa. Lezione di Geocultura a chi la Geocultura l’ha irrimediabilmente persa (gli europei, da generazioni declassati a sudditi omologati di un impero che li ha inglobati), e a chi di una Geocultura variamente assemblata ha fatto un’arma per dominare il mondo via globalizzazione e universalismo.
Ci soffermeremo su questo scontro sia perché esemplare delle dinamiche planetarie in corso, sia per gli enormi riflessi sul Vecchio Continente. La vulgata mainstream, ovvero la propaganda dell’impero americano, ha ossessivamente ripetuto che l’aggressione di Mosca a Kiev è prima mossa di chi sogna di fermare lo sferragliare dei cingoli a Lisbona, dopo aver inghiottito l’intera Europa. Narrazione schizofrenica che da un lato ha vaticinato che la Russia fosse sull’orlo di una sollevazione popolare, che la sua economia fosse in procinto di stramazzare sotto il peso delle sanzioni del “mondo libero”, che il suo esercito fosse allo sbando, diretto da inetti alcolizzati; dall’altro l’ha dipinta come una minaccia onnipresente, capace d’influenzare ogni paese in Europa, e magari nel mondo, pronta a inghiottire uno stato dopo l’altro.
Inutile ribattere a colossali panzane (resteranno memorabili quella delle pale o dei missili che usavano le schede razziate dalle lavatrici ucraine); restando sul piano della serietà nel definire cause e obiettivi del conflitto, in Occidente nessuno – o quasi – ha prestato la minima attenzione a ciò che i vertici russi dichiarano da decenni, facendo seguire a parole e documenti i fatti. È ciò che, riassumendo in estrema sintesi, chiamo il 3 + 3. Dai primi anni Duemila, da quando Putin portò la Russia fuori dal Decennio Nero di Yeltsin e si rese conto che una collaborazione paritaria con l’impero americano era impossibile, sono stati tre gli obiettivi di fondo della strategia russa: recuperare l’influenza all’interno dell’ex spazio sovietico, fermare la progressione a Oriente della NATO, restaurare relazioni e collaborazioni simmetriche, da grande potenza a grande potenza, con i principali attori globali.
Ed è in questa ottica che si leggono i tre obiettivi della guerra ucraina per Mosca, che non sono mai stati territoriali ma politici: un nuovo quadro di sicurezza globale che tenga conto delle esigenze di tutti gli attori presenti, dunque anche della Russia; la neutralità di Kiev, dunque l’uscita della NATO dall’Ucraina ancor prima del suo ingresso nell’Alleanza; la denazificazione dell’Ucraina, ovvero l’emarginazione dei gruppi ultranazionalisti incistati nei gangli dello stato ucraino, senza la cui espulsione parlare di pacificazione duratura è pia illusione.
Alla luce di ciò, la collisione fra l’irriducibile logica imperialista americana e gli irrinunciabili interessi russi era inevitabile. E il conflitto s’è subito propagato lungo le faglie che stavano frantumando il preteso impero globale USA, a causa delle tensioni montanti avverse all’ordine americano da parte di attori non più disponibili a supino assoggettamento. È da notare che già allo scoppio della guerra gli Stati Uniti avevano centrato i due scopi per loro primari dcl conflitto: spezzare i legami fra la Russia e gli stati europei e riaffermare il controllo completo sul Vecchio Continente. Vittoria che s’è mutata in sconfitta dell’intero Occidente americano per la cocciuta volontà di giungere a vittoria strategica sulla Russia per interposta Ucraina, irraggiungibile obiettivo per cui l’impero USA, con i satelliti al seguito, ha investito crescente capitale economico, militare e, soprattutto, politico, costruendo una disfatta per la NATO.
Ma la Guerra Grande non s’è fermata, s’è dilatata presto in Medio Oriente, alimentata dalla disfunzionalità delle relazioni via via instauratesi fra l’impero americano e Israele, evoluto da pilastro strategico a problema, con una bizzarra inversione dei ruoli in cui l’antico padrone è divenuto succube di chi era (e nei fatti è) il protetto. Con ciò legando gli Stati Uniti a un altro teatro di conflitto che gli ha drenato risorse, li ha distratti dall’essenziale (l’Indo-Pacifico), gli ha arrecato immenso danno politico e gettato la regione in un caos dagli sviluppi ad oggi imprevedibili. E ciò mentre gli USA, insieme ai partner occidentali (vedi la Francia) venivano scacciati dall’Africa e dalle sue immense risorse - ora appannaggio primario dei suoi competitor, Cina e Russia - mentre nell’Indo-Pacifico, come in Sud America, Pechino ha approfittato della distrazione altrui per allargare traffici e influenza. Per l’impero, la presidenza Biden è stata disastro completo che l’ha avviato a tracollo.

L’America americana alla Casa Bianca

Le linee guida della nuova Amministrazione sono già emerse chiare, del tutto coerenti a quanto sostenuto, anzi, gridato, nella campagna elettorale. È evidente che, se si ripudia l’impero, i suoi strumenti vadano dismessi, è da questa semplice considerazione che deriva lo stacco netto dalla NATO e UE. Archiviata l’irrefrenabile pulsione a proiettarsi nel mondo per renderlo simile a sé, negli USA è in voga la definizione di “NATO dormiente”, da attivarsi al fischio del padrone se questi lo ritiene conveniente. Anche se di facciata, l’ombrello americano è definitivamente chiuso.
In questa ottica, anche la UE è fastidioso impiccio: costruita sui paradigmi della passata America, risulta del tutto distonica con l’America di oggi, per essa è meglio, molto meglio, trattare con i singoli stati facendo pesare tutta la propria forza. Non solo: in un’ottica neofeudale, che ha sostituito quella imperiale, l’Amministrazione USA può scegliere gli interlocutori a sé più confacenti in ogni stato e su quelli puntare secondo propria convenienza, al caso scavalcando i governi. Lo si è già visto abbondantemente. Lo scopo è avere uno stuolo di paesi docili, sintonizzati sulle nuove linee giuda americane, ma di cui l’America non ha alcuna intenzione di farsi carico, anzi.
Per quanto riguarda i conflitti in corso, urgenza americana è chiuderli o disinteressarsi di quelli da sempre fuori dal suo controllo (vedi in Africa), per concentrarsi su ciò che ritiene l’essenziale: nella percezione del nuovo establishment, l’unico soggetto che per stazza e forza può insidiare gli USA, la Cina. C’è un che di logico, quanto meno realistico, in questo, che supera le a-strategiche pretese del passato.
Per quanto detto, a occhio della nuova America l’Ucraina è del tutto sacrificabile, soggetto da spolpare cinicamente in condominio con la Russia. Che questo, come già accennato, crei danni immensi alla reputazione USA, e induca antichi e più recenti partner a profonde riflessioni con conseguenti riposizionamenti, pare non importare a chi guarda solo a sé, a ciò che crede l’interesse del momento; quanto sia interesse vero – e duraturo – è altro discorso.
Sia come sia, dismesse le lenti deformanti dell’impero, i motivi dell’assai prossimo accordo con la Russia sono molteplici, e travalicano di gran lunga il conflitto in corso: a parte la radicale mutazione di ottica che, a detta di fonti russe, pare riconoscere le esigenze securitarie di Mosca e la sua sfera d’influenza, c’è la gestione comune di un’enorme massa di risorse, non solo ucraine ma in prospettiva anche russe; c’è l’accesso all’Artico, nuovo Eldorado schiuso dallo scioglimento dei ghiacci e, soprattutto, il tentativo di aprire una collaborazione con Mosca sottraendola all’abbraccio esclusivo di Pechino. Anche se più rozza, è la riedizione della politica di Kissinger, sia pur all’inverso per sopraggiunta invertita stazza di Russia e Cina. A ciò s’aggiunge il possibile coordinamento per sopire la crisi aperta in Medio Oriente e la gestione degli affari in Africa.  
I colloqui che si stanno tenendo fra le delegazioni russe e americane vanno in questo senso: è la totale sconfessione dello schiaffo che Obama, con tono di sufficienza, inferse a Mosca nel marzo di undici anni fa, all’indomani dell’occupazione della Crimea, quando affermò che la Russia era una semplice potenza regionale che non poteva minacciare gli Stati Uniti. Ora, con il rapido tramonto d’un preteso impero, la Storia ha rimesso in ordine le carte.
Anche in Medio Oriente c’è stacco col passato; la nuova Amministrazione USA è, se possibile, ancora più vicina a Tel Aviv ma, è questo che fa la differenza, quantomeno con quella Biden, ha ben chiaro che è Tel Aviv ad aver bisogno di Washington, l’appoggio non è più a prescindere ma condizionato agli interessi propri. Lo si è visto quando Steve Witkoff ha costretto un Netanyahu riottoso alla tregua, e lo si è visto pure quando Adam Bolhler, inviato speciale per la questione dei prigionieri, ha incontrato più volte in Qatar alti esponenti di Hamas, scavalcando i mediatori qatarini ed egiziani e bypassando lo stesso Israele. Con ciò dimostrando che Trump va per la sua strada, all’occorrenza senza tener conto di Netanyahu. Ciò che sarà lo dirà il tempo, ma è dinamica inedita da decenni.
Come diceva Kissinger, gli USA non hanno alleati ma interessi, così è sempre stato, ma l’America di Trump non intende badare neppure a un minimo di forma. Tradotto: non riconosce partner ma strumenti, da usare a piacimento e poi gettare. Lo sta scoprendo il presidente argentino Milei che, malgrado entusiasta seguace del Presidente americano, non sarà affatto risparmiato dai dazi a meno d’accettare ulteriori condizioni capestro. Come il resto del Sud America, del mondo. Quanto sarà in grado di imporre le proprie condizioni al pianeta è più che lecito dubitare, viste – al di là dei bluff - condizioni e realtà dell’economia statunitense. Meno che mai è probabile possa farlo con la Cina; assai più possibile che il viso feroce, i dazi, i proclami di guerra siano tecnica negoziale per giungere ad un migliore accordo che spartisca il mondo.

I naufraghi e gli epigoni in Europa

In Europa, dal nuovo corso USA conseguono naufraghi ed epigoni. Frattura netta fra chi rimane sintonizzato su narrazione e riti del fu impero e chi ha già abbracciato la novità della nuova America. Con in mezzo cospicua parte di popolazione indecisa, per antico riflesso sintonizzata sull’America che fu, ma sempre più sensibile alla nuova che le solletica la pancia. E attenzione, come ho lungamente trattato in precedente saggio, non si tratta di adesione a fenomeni esterni ma squisitamente interni perché, piaccia o no, la mutazione è compiuta, l’Europa ha assimilato intimamente ascisse e coordinate del sistema americano assai più di quanto le sue popolazioni vogliano ammettere, o comunque ne abbiano consapevolezza. Dinamiche, più e prima che importate, generate da contesti politici, culturali, sociali ed economici sempre più simili e sovrapponibili. Al più, appena sfalsati nel tempo, seguendo, mai anticipando, quanto avviene di là dell’Atlantico. Del resto, è logico, lo ripetiamo, è l’America che è traboccata in Europa, portandovi i propri fenomeni e la propria evoluzione.
Nel corso di tre generazioni, l’impero ha selezionato in Europa leadership fedeli al proprio canone assai più e prima che ai rispettivi paesi, a quello esse si tengono e quello riconoscono perché unico coerente alla loro sfera di potere. Dopo il regime change a Washington, che ha scalzato l’impero di cui erano tributarie, rimangono ostinatamente sintonizzate su di esso, altro non sanno fare, altro non comprendono, come gli ultimi giapponesi nella giungla. A quell’orizzonte s’aggrappano e quello vogliono disperatamente mantenere senza accorgersi di un cambiamento che non accettano. C’è questo dietro le allucinate dichiarazioni di personaggi come Kaja Kallas, quando chiedono che un’indefinita Europa, ectoplasmatico non-soggetto politico, debba prendere lo scettro della liberal-democrazia assumendo la guida d’un sedicente mondo-libero. Magari rifondando una NATO senza USA. Con quale base, forza e peso politico non è dato sapere. Servi fedeli che non si capacitano d’essere stati abbandonati dal nuovo padrone. Naufraghi di ciò che fu.
E poi ci sono gli epigoni del nuovo che si offrono in sostituzione del vecchio: per mesi c’è stato il pellegrinaggio alla corte di Mar-a-Lago e casting per il Vecchio Continente a seconda di affinità e/o successo politico; esemplare la parabola di Alicia Weidel, astro nascente coccolato dalla nuova Amministrazione a Stelle e Strisce. È la nuova America spostata da questa parte dell’Atlantico, in terra che un tempo si diceva europea: reazionaria, tendente al suprematismo, con un tocco d’integralismo ma, soprattutto, intrisa di liberismo. Francamente trovo beffardo che si dica sovranista quando s’allinea obbediente agli ordini del padrone per averne l’investitura; che si dica identitaria quando si riconosce in identità altrui che nulla, ma proprio nulla, ha di tutto ciò che si diceva Europa. L’ho già accennato, è neofeudalesimo: il nuovo re (re, non imperatore) sceglie vassalli che facciano i suoi interessi e obbediscano.  

Conclusione

È in corso una rivoluzione geopolitica mondiale che va più in là d’una transizione egemonica. È radicale mutazione di orizzonte, obiettivi e conseguente postura degli attori del mondo. Revisione di regole che parevano date, con gli stati che si dividono fra predatori e prede. A guardar bene, di portata maggiore di quella originata dalla fine dell’URSS. È wrestling planetario che non s’arresterà fino alla demolizione degli assetti conseguenti al precedente ordine che sta collassando e all’emergere di nuovi equilibri.
L’America ha fatto i conti e s’è trovata in rosso, per cui dismette le insegne d’un impero che pretendeva globale (non lo è mai stato) e torna a concentrarsi su se stessa, mantenendo una visione imperialistica ma non imperiale, più propriamente colonialistica, basata su puri rapporti di forza.
Ha scoperto che il mondo è troppo vasto per dominarlo tutto; che, le piaccia o no, sono sorti altri attori da tenere in conto. Soggetti che rigettano l’egemonia altrui, con cui è più conveniente trovare realistico accomodamento piuttosto che andare a scontro aperto. È dunque il ritorno alla Storia con le sue dinamiche, alle sfere d’influenza se non al “Concerto delle Nazioni”, quando dall’attuale caos emergeranno le linee irrinunciabili di ciascuno e i conseguenti accordi con chi si riconosce “grande”. Insomma, i presupposti di una nuova Yalta con al tavolo USA, Cina e Russia, magari con altre potenze a vario titolo coinvolte, non soggetti primari ma neanche oggetti passivi di decisioni altrui (vedi India).
E l’Europa? Realismo dice che essa è espressione geografica, non è mai stata soggetto politico, meno che mai ai giorni nostri. Vanificati gli strumenti del passato impero cui era ascritta – NATO e UE, oggi destinate a futuro infausto – l’Europa è vaso di coccio nella partita a tre fra Washington, Pechino e Mosca. Quanto agli stati europei, alle condizioni odierne, primariamente per colossale deficit politico e culturale oltre che per stazza, è inimmaginabile pensarli al tavolo a cui staranno i “grandi”. I cicli della Storia sono necessariamente lunghi, ne è cominciato un altro; ai popoli europei costruire – se sapranno – il lungo percorso per rientrare nella Storia (beninteso, la loro; nella Storia altrui sono già stati ascritti per quasi un secolo).