La funzione strategica di Banca Mondiale e Fmi
di Giacomo Gabellini - 24/02/2017
Fonte: l'indro
Come è noto, la fine della Seconda Guerra Mondiale innescò immediatamente una competizione planetaria tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, i quali concorrevano tra loro per allargare la propria sfera di influenza, estendendola ai Paesi meno sviluppati dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Gran parte delle nazioni in via di sviluppo era governata da classi politiche che rivendicavano la propria sovranità sui mercati interni e riconoscevano allo Stato un ruolo centrale sia nel guidare l’economia che nello stabilire le fasi attraverso cui si sarebbe dovuta verificare la crescita. Propugnavano, in sostanza, varie forme di dirigismo economico che, supportate da misure protezionistiche tese a salvaguardare la produzione interna, si collocavano sicuramente più vicino al modello socialista in vigore in Unione Sovietica che non al liberismo statunitense. Per riconquistare terreno, gli Stati Uniti si mossero simultaneamente su più piani, affiancando al tradizionale approccio bilaterale con questi Paesi quello indiretto, tramite Banca Mondiale e, soprattutto, Fondo Monetario Internazionale, i due principali istituti finanziati fondati in base agli accordi di Bretton Woods del 1944. Nonostante il loro funzionamento contemplasse la partecipazione di larga parte dei Paesi mondiali, tali istituzioni hanno costituito le armi economiche di cui Washington – che di esse detiene una sorta di ‘quota di controllo’ – si è servita per implementare la propria politica di soft power, finalizzata a conquistare mercati e imporre gli interessi del capitale Usa a livello planetario senza che gli Stati Uniti apparissero agli occhi del mondo come arroganti prevaricatori.
Come ha scritto nel 1933 John Maynard Keynes: «La protezione da parte di un Paese dei suoi interessi all’estero, la conquista di nuovi mercati, i progressi dell’imperialismo economico, sono elementi ineliminabili della politica di coloro che vogliono massimizzare la specializzazione internazionale e la diffusione geografica del capitale». Il problema evidenziato da Keynes era del resto già stato snocciolato nel 1898 in un documento del Dipartimento di Stato in cui si legge che: «sembra ormai accertato il fatto che ogni anno ci troveremo di fronte a un’eccedenza crescente di prodotti manifatturieri da vendere sui mercati esteri se vogliamo che i lavoratori e gli artigiani americani rimangano occupati anno dopo anno. L’allargamento del consumo estero dei prodotti delle nostre fabbriche ed officine è diventato, quindi, un serio problema di Stato e di politica commerciale».
Così, in breve tempo, oltre 70 Paesi del mondo furono sottoposti a ‘programmi di aggiustamento strutturale’, che imponevano di adottare politiche fiscali e monetarie estremamente rigide, eliminare qualsiasi controllo sui cambi, liberalizzare integralmente i mercati e privatizzare le proprietà pubbliche. Liberalizzazione, privatizzazione e deregolamentazione comportarono un radicale arretramento dello Stato in tutti i Paesi sottoposti alla ‘cura economica’ gestita da Banca Mondiale e Fmi allo scopo ufficiale di incrementare l’efficienza dell’export e consentire così alle nazioni interessate di onorare i debiti contratti con le grandi banche commerciali dei Paesi industrializzati.
Dietro questa cortina fumogena di ‘buone intenzioni’ si celava tuttavia un obiettivo strategico ben diverso, costituito dall’eliminazione dei modelli di ‘capitalismo diretto dallo Stato’ vigenti in Africa, Asia ed America Latina. Nei fatti, i ‘programmi di aggiustamento strutturale’ e le ‘terapie d’urto’ avevano offerto un canale privilegiato al capitale che, in fuga dai tradizionali settori produttivi capaci di garantire una redditività limitata e lontana nel tempo, ebbe la possibilità di trovare vie di investimento di carattere speculativo, in grado di assicurare ampi margini di valorizzazione nell’arco di ristretti spazi temporali. Così, investitori esteri cominciarono ad affluire nelle economie dei Paesi in via di sviluppo, ‘mungendo’ il possibile (come dimostrato dalla crisi delle ‘tigri asiatiche’) prima di togliere il disturbo, innescando fughe di capitali tali da provocare gravissimi e spesso irrisolvibili disastri economici. Dopo aver creato i presupposti per la catastrofe, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale sono tornati in moltissimi casi a bussare alla porta dei Paesi finiti sull’orlo del tracollo, offrendo loro il proprio aiuto finanziario in cambio di severe misure d’austerità – si pensi al caso greco. Osteggiando qualsiasi genere di intervento di carattere anticongiunturale, cioè fondato sul ricorso alla spesa pubblica allo scopo bloccare l’emorragia interna causata dalla recessione dei settori privati, Banca Mondiale e Fmi hanno preteso che i Paesi in difficoltà tagliassero i fondi pubblici destinati ai servizi sociali, deprimendo ulteriormente e soffocando l’economia nazionale.
L’autorevole economista Walden Bello tratteggia così la situazione generata dagli interventi di Banca Mondiale ed Fmi: «nel gennaio 1993, al termine dell’era di Ronald Reagan e George Bush senior durata dodici anni, il sud era stato ormai completamente trasformato: dall’Argentina al Ghana, il coinvolgimento dell’apparato statale nell’economia era stato drasticamente ridotto; nel nome dell’efficienza le imprese statali erano passate in mani private, le barriere protezionistiche contro le importazioni del nord venivano ridotte sempre più e, attraverso l’applicazione di politiche che privilegiavano le esportazioni, l’economia di questi Stati era integrata con i mercati mondiali capitalisti, dominati dal nord. Ma i prezzi pagati erano stati alti. Gli economisti neoclassici che lavoravano per il Fmi e per la Banca Mondiale avevano venduto l’aggiustamento strutturale come un intervento necessario per innescare un circolo virtuoso di crescita economica, aumento dell’occupazione e prosperità crescente. Ciò che accadde, invece, fu che le economie in via di sviluppo cessarono di svilupparsi e […] precipitarono in un profondo ‘buco’, in cui la drastica riduzione della spesa pubblica innescò un circolo vizioso di aumento della disoccupazione, declino dei consumi, profonda miseria e crescente disuguaglianza sociale».
Debito estero
Ma per quale ragione un numero crescente di Stati ha accetto di implementare le ‘terapie d’urto’ suggerite dal Fmi? Per rispondere occorre introdurre la figura di John Perkins, un ‘sicario dell’economia’ pentito che dà della sua categoria il seguente ritratto: «i sicari dell’economia sono professionisti ben retribuiti che sottraggono migliaia di miliardi di dollari a diversi Paesi di tutto il mondo. Riversano il denaro della Banca Mondiale, dell’Agenzia Statunitense per lo Sviluppo Internazionale (Usaid) e di altre organizzazioni ‘umanitarie’ nelle casse di grandi multinazionali e nelle tasche di quel pugno di famiglie che detengono il controllo delle risorse naturali del pianeta. I loro metodi comprendono il falso il bilancio, elezioni truccate, tangenti, estorsioni, sesso e omicidio. Il loro è un gioco vecchio quanto il potere, ma che in quest’epoca di globalizzazione ha assunto nuove e terrificanti dimensioni». Questi ‘funzionari’, che fanno parte di particolari ‘reti di esperti’ e di ben noti ‘centri-studio’, falsificano regolarmente i dati economici dei singoli Paesi per spingerli all’indebitamento e provocare crisi finalizzate a porre le economie locali sotto il controllo effettivo della grande finanza internazionale.
La situazione è andata radicalizzandosi a partire dalla metà degli anni ’90 per effetto della fondazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc). Nel corso della conferenza di Singapore del 1996, in cui si celebrò la nascita di tale organismo, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale emisero un comunicato in cui si sottolineava l’importanza di avviare una stretta collaborazione tra l’Omc e le istituzioni scaturite da Bretton Woods nel 1944, al fine di condurre una linea politica che imprimesse la spinta decisiva al processo di interconnessione economica planetaria meglio noto come globalizzazione. Sollecitando l’integrazione di mercati, sistemi produttivi e capitali, l’Omc spianò ancor di più la strada per l’avanzata delle grandi aziende multinazionali.