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La guerra alle porte

di Enrico Tomaselli - 11/10/2024

La guerra alle porte

Fonte: Giubbe rosse

Un errore facile da commettere, se si pensa all’attuale situazione mondiale, è quello di sopravvalutare l’importanza delle scelte opzionabili dalle varie leadership; o per meglio dire, non si tiene sufficientemente conto di quanto l’accumulo delle scelte pregresse (e delle loro conseguenze) finiscano per limitare sempre più lo spettro delle opzioni possibili, e quindi – di fatto – spostino il baricentro decisionale dalla volontà delle élite politiche all’incastro oggettivo degli elementi in campo.
Se prendiamo ad esempio in considerazione il conflitto ucraino, che ormai si avvia verso il suo terzo anno, dovremmo – con maggiore razionalità – riconoscere che le chance di una soluzione non militare sono ormai decisamente esigue, e ovviamente tendono a ridursi assai velocemente. E ciò, appunto, non dipende più tanto dalla mancanza di volontà di giungere ad una composizione diplomatica, quanto dal fatto che i margini per una possibile soluzione di tal genere sono effettivamente minimi.

Ci sono, ovviamente, interessi contrapposti di non facile conciliazione, o tra i quali non è facile anche solo trovare una mediazione, sia che ci riferiamo all’interesse ucraino di mantenere/recuperare la propria integrità territoriale, sia che ci riferiamo a quello statunitense di destabilizzare la Russia – e naturalmente, agli opposti interessi russi.
Si è detto più volte che la guerra ha una logica propria, che conduce le cose verso esiti spesso assai diversi da quelli desiderati, e soprattutto imprevisti. E ciò vale, naturalmente, anche sul piano delle conseguenze politiche. Ora è chiaro che i calcoli con cui i due principali player della partita – Stati Uniti e Russia – sono entrati nel conflitto, non solo si sono rivelati (in misura diversa) errati, ma proprio in virtù della loro erroneità hanno determinato un mutamento degli obiettivi strategici.

Se l’occidente a guida americana ha innescato il conflitto nella convinzione di poterlo usare come un grimaldello, ed attraverso esso giungere ad una destabilizzazione della Russia che a sua volta portasse ad un rovesciamento della sua leadership politica, ad oltre due anni e mezzo di guerra questo obiettivo resiste a malapena solo nella propaganda più ottusa. Al suo posto, più realisticamente, si profila una ipotetica soluzione di compromesso, che consenta – al minimo – di non compromettere ulteriormente la credibilità (e l’unità) della NATO.
A sua volta, se Mosca è entrata nel conflitto con l’idea di poter giungere rapidamente, sotto la pressione militare, ad una soluzione di compromesso, nel corso della guerra ha maturato la convinzione che l’occidente, nel suo complesso, è totalmente inaffidabile, e pertanto qualunque soluzione deve derivare non già da un qualche accordo, ma da una situazione effettuale, cui semmai l’accordo appone un sigillo formale.

Allo stato attuale delle cose, sembra prendere sempre più piede, in occidente, la possibilità (peraltro già avanzata ipoteticamente da tempo) di una soluzione negoziale al conflitto, basata sullo scambio tra i territori (che la Russia già controlla) e l’ingresso di ciò che resterebbe dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica. Questa soluzione, qualora fosse praticabile, consentirebbe alla NATO di presentarla come una (mezza) vittoria, e in ogni caso sarebbe considerata come temporanea, cioè una sorta di colossale Minsk III: un accordo per prendere tempo, rimettere in sesto l’Ucraina e, alla bisogna, rilanciarla nuovamente contro Mosca in una guerra irredentista.
È abbastanza evidente che siamo ancora nel regno delle favole, ma le leadership occidentali sembrano ostinatamente convinte che la Russia sia disponibile ad una soluzione di compromesso, poiché il logoramento derivante dalla guerra sarebbe maggiore di quel che appare.

Ma se un’ipotesi del genere poteva forse essere praticabile ancora nel 2022, di sicuro non lo è più oggi. Innanzitutto, non si può non considerare il fatto che Mosca si è risolta ad un passo così impegnativo per evitare quella che considerava una minaccia esistenziale, cioè lo sbarco della NATO in Ucraina. Pensare che poco meno di tre anni dopo sia disposta invece ad accettarlo, è francamente incomprensibile. Inutile sottolineare poi che questi anni di guerra hanno comunque avuto un costo per la Russia, sia pure infinitamente minore di quello pagato dall’Ucraina, e certamente inferiore a quello dell’Europa, e sarebbe inaccettabile averlo pagato per nulla. L’annessione dei territori della Novorussia, infatti, non è mai stato il vero obiettivo (tant’è che tutti i tentativi di compromesso, sino ai falliti accordi di Istanbul, prevedevano l’autonomia del Donbass, non l’ingresso nella Federazione Russa).

Annessione che peraltro, se per un verso apporta una boccata d’ossigeno demografico ad un paese che soffre di scarsità di popolazione, per un altro comporta costi di ricostruzione che solo in parte, e sul medio-lungo periodo, potranno essere compensati dalle ricchezze minerarie ed industriali della regione. Oltretutto, Washington offrirebbe un riconoscimento de facto, ma non de jure, di qualcosa che è già in essere.
Dal punto di vista russo, quel che è divenuto sempre più evidente nel corso della guerra, è che l’obiettivo occidentale di distruggere la Russia non è affatto venuto meno, ma semmai può essere temporaneamente sospeso per esigenze tattiche, e – cosa per certi versi ancora più importante – che le leadership occidentali sono totalmente inaffidabili, capaci di qualsiasi doppiezza e qualsiasi menzogna.
Ne consegue che, già solo per queste ragioni, Mosca non accetterebbe mai un negoziato su tali basi.

Ma, appunto, ci sono altre ragioni, ben più cogenti, e per entrambe i contendenti, che rendono impossibile non questa ipotesi di mediazione, ma qualsiasi altra.
Gli Stati Uniti, ed i loro vassalli europei, hanno investito troppo in questo conflitto (economicamente, militarmente e politicamente), per accettare di uscirne sconfitti; tanto più in un momento in cui la percezione di una loro debolezza potrebbe avere conseguenze disastrose. Un effetto domino all’incontrario, in cui una crisi generalizzata di sfiducia da parte dei paesi amici, ed un incoraggiamento all’allontanamento da parte dei paesi neutrali, rischierebbe di compromettere non solo la reputazione imperiale, ma anche le effettive possibilità di affrontare le prossime sfide in cantiere – una su tutte, quella con la Cina.
In particolare, metterebbe a rischio di sfilacciamento sia la NATO che l’AUKUS, e più in generale tutta la rete su cui si fonda il potere dell’impero.

Inevitabilmente, infatti, ne conseguirebbe una ulteriore accelerazione del processo di dedollarizzazione dell’economia globale, ma anche di destrutturazione del potere militare statunitense nel mondo: alcuni paesi che ospitano basi USA, infatti, smetterebbero di percepirle come una garanzia di protezione – o come un prezzo da pagare… – e farebbero pressione per smantellarle. Cosa che del resto sta già accadendo.
Inoltre, per un principio di vasi comunicanti, l’indebolimento strategico derivante da un sconfitta in Ucraina equivarrebbe ad un rafforzamento strategico della Russia, la cui autorevolezza e credibilità – già oggi in crescita significativa – avrebbe un notevole impulso. E questa crescita, a sua volta, si rifletterebbe anche sugli altri paesi nemici degli Stati Uniti – Iran e Cina in primis; e ciò indebolirebbe ulteriormente la capacità di controllo americano sul Medio Oriente, ad esempio. Una vittoria russa, infine, farebbe di Mosca la prima potenza militare di fatto, rafforzandone la posizione in particolare all’interno dell’alleanza strategica con Pechino, con quest’ultima che andrebbe a ricoprire il ruolo di potenza economica, mentre la Russia ricoprirebbe il ruolo di spada del blocco euroasiatico.

Qualsiasi soluzione che non sia spendibile come una vittoria, o anche solo come un pareggio, risulterebbe quindi inaccettabile per Washington, poiché andrebbe ad intaccare una cruciale credibilità imperiale, in una fase in cui già traballa di suo, ed in cui l’America intende affrontare sfide di enorme portata, equiparabili – per impatto strategico geopolitico – alla seconda guerra mondiale.
L’ipotesi di sganciamento dal conflitto ucraino è perciò non solo estremamente difficile (anche nella sua versione trumpiana, che è forse persino più fantasiosa…), ma anche non del tutto assunta come autentica prospettiva strategica. In effetti, gli Stati Uniti sono anzi ancora in surplace, indecisi tra il prosieguo ad ibitum e l’abbandono di Kiev prima che sia troppo tardi. Con, in pole position, l’ipotesi mediana di passare la patata bollente ai vassalli europei.

A sua volta, la Russia ha delle ottime ragioni per non negoziare alcun accordo. Innanzitutto – e ovviamente – per la più semplice: sta vincendo sul campo. Perché l’idea di vittoria russa non si misura in termini di chilometri quadrati conquistati (o liberati), ma in termini di distruzione del potenziale militare ed industriale dell’Ucraina. Solo ciò, infatti, potrebbe dare garanzie sufficienti che la minaccia non si ripresenti tra qualche anno. La vittoria manu militari, che oltretutto non è poi così lontana, consentirà a Mosca di ottenere una capitolazione, e quindi di imporre le condizioni di resa [1]. Non di discuterle con Washington. Come corollario, il proseguimento della guerra consente anche il logoramento del potenziale bellico della NATO, e questo è a sua volta un obiettivo strategico.

In termini di medio-lungo periodo, infatti, la leadership russa ritiene che il conflitto aperto e diretto con la NATO sia inevitabile. Questa convinzione – anzi, diciamo meglio: questa consapevolezza – porta a due conclusioni fondamentali. La prima, resa ancor più evidente di recente (anche se non è chiaro se e quanto sia stata recepita e compresa) consiste nel cambiamento della dottrina nucleare russa [2]. Che non è, come si tende a rappresentarla, una sorta di risposta alla minaccia di far colpire in profondità le forze ucraine, usando armamenti (e relativa logistica…) NATO, ma che ovviamente ha una portata ben maggiore. Mosca, infatti, pur consapevole di avere alcuni indiscutibili vantaggi sull’Alleanza Atlantica (in campo nucleare, in campo missilistico, nella capacità industriale, nell’electronic warfare, e ovviamente nell’esperienza di combattimento), sa bene che la NATO ha a sua volta degli atout non indifferenti: l’aviazione, una profondità strategica considerevole (Europa – Atlantico – Stati Uniti), e soprattutto una soverchiante capacità di mobilitazione.

Per far fronte ad un avversario di tal genere, per Mosca diventa assolutamente necessario poter riequilibrare i piatti della bilancia, sia sul piano della deterrenza, sia ancor più su quello della effettiva capacità operativa. Poiché uno scontro di tale portata sarebbe indiscutibilmente esistenziale, per la Federazione Russa, la possibilità del ricorso alle armi nucleari – tattiche o strategiche poco importa, la differenza essendo in effetti meramente simbolica – diventa necessariamente parte della dottrina militare, e lo diventa nei termini recentemente esposti, che ne prevedono l’utilizzo anche contro paesi non dotati a loro volta di armi nucleari (quasi tutti gli europei) se alleati con un paese che le possiede (…), ed anche in assenza di una effettiva minaccia da parte di questi di utilizzarle per primo.

La seconda conclusione è che la questione dev’essere risolta entro un certo lasso di tempo. Prima che la NATO superi l’attuale crisi (le forze armate dell’alleanza sono largamente al di sotto degli standard, e la produzione industriale di supporto è ancora ben lontana dai livelli necessari per uno scontro di questo tipo). E finché la capacità di mobilitazione russa si mantenga su un livello sufficiente. La popolazione russa, infatti, come anche quella europea, è attualmente in calo demografico, e questa curva ad un certo punto arriverà ad incidere – in termini ritenuti significativi – sulle capacità operative. Sono ben lontani i tempi del secondo conflitto mondiale, quando l’URSS (che comunque era più vasto della sola Russia) poté permettersi di perdere oltre 22 milioni di persone e ciononostante vincere la guerra.
A fronte di scarsi 150 milioni di abitanti, oggi la Russia ha infatti di fronte una popolazione europea di oltre 740 milioni, ed una statunitense di oltre 330 milioni [3].

Oltretutto, gli europei non fanno che mandare segnali estremamente bellicosi verso Mosca, ormai persino superiori a quelli inviati da Washington. Sono ormai molti gli esponenti politici e militari europei che indicano proprio una scadenza per il conflitto, anche molto ravvicinata (forse un po’ troppo). Il Ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, ad esempio, sulla scorta di quanto già dichiarato dallo Stato Maggiore della Bundeswehr, ritiene che è necessario “essere pronti per la guerra entro il 2029” [4], mentre il Capo di Stato Maggiore dell’esercito britannico, Sir Raleigh Walker, ha avvertito che la combinazione di minacce potrebbe portare ad uno scontro con l ‘asse dello shock (Russia, Cina, Iran e RPDC) entro il 2027-28 [5]. Per non parlare del fatto che i paesi europei stanno investendo pesantemente sia in una rinnovata produzione industriale di munizioni su larga scala, sia in una serie di adattamenti delle infrastrutture logistiche alle esigenze militari. C’è addirittura un piano NATO (Oplan Deu) che prevede il dispiegamento di 800.000 uomini e 200.000 veicoli e attrezzature pesanti sul fronte est [6]; e che tra l’altro sollecita a tal scopo l’avvio di programmi per l’incremento della produzione di carri armati, l’aumento di scorte di munizioni (attualmente sono previste per 2 giorni, ma secondo lo standard NATO dovrebbero essere 30) e la costruzione di campi di prigionia!

Alla luce di questi elementi, un ragionevole arco di tempo entro il quale la Russia deve affrontare lo scontro e risolverlo, è prevedibilmente abbastanza breve: tra cinque e sette anni massimo. Il che, peraltro, pressoché coincide col mandato presidenziale di Putin.
Pensare che la leadership russa non arriverà a tanto è pura ingenuità. E purtroppo, anche se la propaganda occidentale continua a dipingere il leader russo come l’orco che vuole conquistare l’intera Europa, in realtà quello che pensano nelle cancellerie è che non oserà mai farlo, e che comunque non ne avrebbe la forza [7]. Continuano cioè a commettere i medesimi errori commessi sino alla vigilia del 24 febbraio 2022: sopravvalutazione di sé stessi e sottovalutazione del nemico. Quando invece non solo l’Operazione Speciale Militare costituisce la prova provata che, messa alle strette, la Russia agisce, ma lo stesso Putin ha detto chiaramente che quando si ha la convinzione che lo scontro è inevitabile, allora bisogna colpire per primi.

Per questo, quindi, Mosca non potrebbe accettare qualcosa di meno della vittoria sul campo, in Ucraina. Perché questa è propedeutica allo scontro finale con la NATO, ed è comunque più vantaggioso prolungare la guerra – rallentando la ripresa dell’Alleanza Atlantica – di quanto possa esserlo un tregua per riprendere fiato. Cosa che peraltro non cessa di ripetere molto chiaramente, ma che i leader occidentali continuano a non prendere in considerazione, completamente risucchiati come sono dal proprio ego collettivo, dalla propria supponenza – e dalla convinzione della propria (ormai solo supposta) superiorità.
Sotto il profilo strategico, questi sono i termini della questione. Stiamo andando verso lo scontro armato con la Russia, perché non riusciamo a dismettere la pulsione occidentale a distruggerla.

Quali che siano le mosse tattiche, gli equilibrismi diplomatici, le doppiezze, i trucchetti da circo e quant’altro, se non viene rimossa in tempi brevi, ed in modo assolutamente credibile, questa minaccia, la guerra sarà inevitabile.
Per come stanno le cose, sia in termini di equilibri internazionali che di tempo, forse l’unica possibilità per evitare la conflagrazione è una significativa diserzione dei paesi europei. Non necessariamente di uscita dalla NATO, cosa che in questo range temporale appare improbabile se non impossibile, ma di sicuro una presa di posizione netta, fattuale, contro l’ipotesi di guerra. E fattuale significa innanzitutto rinuncia ai programmi di riarmo e di ristrutturazione bellica delle infrastrutture europee, non mere dichiarazioni pacifinte. E magari, tanto per cominciare, con una significativa riduzione degli aiuti militari all’Ucraina. Probabilmente sarebbe sufficiente che questa defezione avvenisse in alcuni paesi più importanti – Germania e Francia, per intenderci – il che avrebbe il suo peso sulle eventuali pulsioni avventuriste della Polonia. Il tempo a disposizione però è breve, e non è detto che sarà sufficiente.


1 – In una recente intervista a Newsweek, il ministro degli esteri russo Lavrov ha ribadito le condizioni russe per un accordo di pace (e la contrarietà a qualsiasi cessate-il-fuoco): “ritiro completo dell’AFU dalle oblast’ di DPR [Repubblica Popolare di Donetsk], LPR [Repubblica Popolare di Luhansk], Zaporozhye e Kherson; riconoscimento delle realtà territoriali come sancito dalla Costituzione russa; status neutrale, non di blocco e non nucleare dell’Ucraina; la sua smilitarizzazione e denazificazione; garanzia dei diritti, delle libertà e degli interessi dei cittadini di lingua russa; e rimozione di tutte le sanzioni contro la Russia”. Una completa capitolazione, appunto. Cfr. “Exclusive: Russia’s Lavrov Warns of ‘Dangerous Consequences’ for US in Ukraine”, Newsweek
2 – Lavrov, citando Putin: “prenderemo decisioni adeguate in base alla nostra comprensione delle minacce poste dall’Occidente. Sta a voi trarre conclusioni”. In ibidem
3 – È anche vero che, attualmente, i paesi europei della NATO hanno problemi con il reclutamento di nuove truppe, e potrebbero incontrare difficoltà nella mobilitazione in caso di conflitto con la Russia. Al momento, si stima che le forze ammontino a 1,9 milioni di uomini, un contingente che dovrebbe essere sufficiente per contrastare le forze armate russe, anche se, in realtà, gli europei avrebbero difficoltà ad attirare i 300.000 soldati in più previsti nell’ambito dei nuovi piani di difesa. Ma, ovviamente, questi problemi si avrebbero solo in caso di scontro (relativamente) limitato; in caso di mobilitazione generale, attraverso la leva, il dislivello demografico farebbe sentire tutto il suo peso. Sul tema, cgr. “Europe boldly redefines security for a new age of threats”, Financial Times
4 – Cfr. “Regierung gibt neuen Plan für den Kriegsfall raus”, Bild
5 – Cfr. “UK must be ready for war in three years, head of British Army warns”, Deborah Haynes, Sky News
6 – Cfr. “So bereitet sich Deutschland auf Krieg vor”, Nikolaus Harbusch, Bild
7 – Secondo il Ministro della Difesa svedese, Pal Jonson, “il Cremlino e lo stesso Putin si rendono conto che perderanno un conflitto militare con la NATO“. Cfr. “Pål Jonson über Wehrpflicht und eine starke NATO”, Bild