La guerra ibrida di Donald Trump
di Enrico Tomaselli - 19/01/2025
Fonte: Giubbe rosse
Nonostante le grandi aspettative di cui è riuscito a circondare il suo secondo mandato presidenziale, è assai improbabile che Trump possa e voglia imprimere una svolta radicale alla politica internazionale degli Stati Uniti. E ciò per la semplice quanto evidente ragione che le linee strategiche di una grande potenza non possono essere soggette a continui cambiamenti, se non sul piano tattico e per gli aggiustamenti resi necessari dall’evoluzione delle situazioni, e che pertanto non è una Presidenza che imprime la direzione, ma è questa a determinare il Presidente.
Fermo restando, quindi, che la presidenza Trump (cosa del resto chiaramente rivendicata) avrà come obiettivo la riaffermazione dell’egemonia americana, e non certo una qualsiasi apertura al multipolarismo, resta da capire come concretamente svilupperà questa linea strategica, soprattutto relativamente alle maggiori aree di crisi, ma non solo.
Se guardiamo ad esempio alla crisi ucraina, sulla quale del resto si è accentrata l’attenzione, possiamo notare come la posizione statunitense – quale si va sempre più delineando – è caratterizzata innanzitutto da un approccio riduttivo, che cioè considera il conflitto come una questione circoscritta, che va mantenuta e risolta in un ambito limitato, senza quindi affrontare i temi di fondo che invece lo sottendono, quali non solo l’appartenenza o meno dell’Ucraina alla NATO ma la sua neutralità/smilitarizzazione e, ancora più importante, una nuova architettura di sicurezza reciproca in Europa e globale. Temi questi che, per loro natura, richiederebbero appunto la disponibilità a mettere in discussione la supremazia statunitense, cosa che la nuova amministrazione non vuole e non può fare.
Ugualmente, si vede come Washington intenda conseguire il solo risultato che gli sta a cuore – ovvero la fine dei combattimenti – attraverso una politica del bastone e della carota; da un lato offrendo la prospettiva di un progressivo allentamento delle sanzioni ed il riconoscimento de facto delle annessioni territoriali, accompagnati da un rinvio sine die dell’adesione di Kiev alla NATO, e dall’altro la minaccia di inasprirle e di mantenere il sostegno militare all’Ucraina, magari allargandone la facoltà di utilizzo.
Con ogni probabilità, verrà da prima provato l’approccio morbido per poi, qualora questo non dovesse sortire gli effetti sperati, passare a quello duro. Il presupposto, ovviamente, è che la Russia desideri porre fine comunque al conflitto, almeno quanto lo desidera l’occidente, e che pertanto il combinato disposto di questo duplice approccio finirà per convincerla a negoziare, nell’ambito dei termini immaginati alla Casa Bianca. Di fondo, c’è comunque la convinzione che gli Stati Uniti abbiano un vantaggio strategico di potenza, rispetto alla Russia, che non solo va difeso e riaffermato, ma che è tale da piegare le resistenze che potrebbero manifestarsi da parte del Cremlino.
Il punto debole di questa prospettiva è che si fonda su una erronea valutazione, sia del punto di vista russo, sia del suo gruppo dirigente, sia degli stessi rapporti di forza. Sembra quasi che a Washington pensino di avere di fronte Eltsin, piuttosto che Putin.
Oltretutto, alla leadership russa non può sfuggire il contesto globale in cui si viene a collocare il presunto approccio dialogico statunitense. Contesto che vede gli Stati Uniti muoversi in una prospettiva decisamente conflittuale, anche se per il momento di tipo ibrido, non cinetico, con il chiaro intento di attendere che si determinino le condizioni ottimali per passare (nuovamente) a questo. Oltretutto, i numerosi precedenti degli ultimi decenni hanno insegnato ai russi come la doppiezza e l’inaffidabilità siano uno standard delle relazioni internazionali dell’occidente.
In particolare, ci sono due questioni su cui si incentra questa azione conflittuale, ed entrambe riguardano direttamente la Federazione Russa.
La prima è una vera e propria offensiva energetica, che ha sì anche lo scopo di indebolire ulteriormente i paesi europei, al fine di accentuarne la sudditanza, ma che mira chiaramente a creare crescenti difficoltà a Mosca, cercando di indebolirla ancora una volta sul piano economico, vista la sua resilienza su quello militare. Questa offensiva si sta articolando attraverso una serie di mosse certamente non casuali, a partire dalla decisione ucraina di non rinnovare il contratto con Gazprom, e quindi interrompere l’ultima linea di fornitura energetica diretta tra Russia ed Europa, privando la prima degli introiti che ne derivavano. Tenendo presente che Kiev non aveva mai agito su questa leva, durante i tre anni di conflitto (cosa che invece aveva fatto più volte, in epoca prebellica), e che ovviamente viene così a perdere le royalties derivanti dal diritto di passaggio del gas russo, risulta evidente che la decisione è stata presa di là dell’Atlantico. Nella stessa logica, va letto l’attacco ucraino al terminale russo attraverso il quale il gas confluisce nel Turkish Stream, l’altro gasdotto attraverso il quale viene alimentata l’Europa [1]. Sono entrambe decisioni strategiche, la cui messa in atto esula di gran lunga la possibilità di scelta autonoma del governo ucraino.
A ciò si aggiungano le nuove sanzioni, specificamente mirate a colpire la cosiddetta flotta ombra [2], attraverso la quale Mosca cerca di aggirare le difficoltà di esportazione energetica; sebbene si tratti di sanzioni imposte dalla vecchia amministrazione Biden, è prevedibile che la nuova le utilizzi come leva, nel quadro della summenzionata strategia del bastone e della carota. Va notato che le importazioni europee di GNL russo sono aumentate in quest’ultimo anno in modo significativo [3], il che tra l’altro costituisce una concorrenza diretta a quello americano.
Al momento, queste sanzioni non hanno ancora dispiegato appieno il loro effetto, ma del resto è previsto che entrino pienamente in vigore a partire dal 12 marzo. Ugualmente, anche se su scala minore, va vista la decisione moldava di aprire un contenzioso sui pagamenti con Gazprom, che ha portato a sua volta alla sospensione delle forniture a Chisinau.
Last but not least, l’Ucraina ha intensificato i suoi attacchi sugli impianti petroliferi russi.
Altro aspetto – assai più significativo – di questa prospettiva conflittuale, è la crescente pressione marittima, che cerca chiaramente di contenere la Russia e di contendergli il predominio. Tale pressione è già in atto nel mar Baltico, dove si sta intensificando la presenza delle flotte NATO (missione Baltic Guard), con la scusa di alcune interruzioni ai cavi sottomarini (ovviamente attribuite a Russia e Cina), e con il dichiarato intento di esercitare un controllo sulla navigazione. Questo specchio di mare, che è di fatto un imbuto a forcella, il cui sbocco verso il mare del Nord è controllato dalla Danimarca, dalla Svezia e dalla Germania, vede la presenza russa in fondo al Golfo di Finlandia (dove si trova San Pietroburgo) e a nord-est della Polonia (dove si trova l’enclave russa di Kaliningrad).
La dichiarata ambizione è quella di farne un lago NATO [4], sfruttandone la morfologia, e il fatto che la quasi totalità delle sue coste appartengono a paesi membri dell’Alleanza (oltre quelli citati, Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia). Ciò consentirebbe, in caso di conflitto, di strangolare San Pietroburgo, e soprattutto di eliminare Kaliningrad, che la NATO considera una spina nel fianco.
Ma la vera partita ostile è quella che si giocherà sull’Oceano Artico. Qui la Russia gode di un considerevole vantaggio strategico, sia perché le sue coste coprono gran parte dei suoi confini, sia perché la flotta artica russa è di gran lunga la più potente e la più attrezzata. L’importanza di questo oceano è oggi legata al fatto che sta per diventare un’importante rotta commerciale alternativa (e più competitiva), ed è quindi un importante tassello del confronto geopolitico globale.
Ed è esattamente in quest’ottica che vanno lette le conclamate ambizioni egemoniche trumpiane sul Canada e la Groenlandia; assumerne il controllo di fatto, o quanto meno avere la possibilità di utilizzarne i territori in modo illimitato, consentirebbe agli USA di riequilibrare quantomeno la dimensione della frontline marittima, e quindi di spingersi più da presso ai confini russi con i propri sistemi (missilistici, radaristici ed anti-missile) militari, e di esercitare un maggior potenziale controllo sul traffico navale – imprescindibile per una potenza talassocratica come gli Stati Uniti.
A rendere estremamente difficile, se non improbabile, una soluzione Trump al conflitto in Ucraina, quindi, non c’è soltanto la situazione sul campo (che vede prevalere la Russia, cosa questa estremamente problematica per la NATO), o l’intenzione statunitense di circoscriverne l’ambito, quanto il fatto che la nuova amministrazione americana, mentre cerca di sganciarsi dalla guerra, articola mosse chiaramente ostili verso Mosca, con l’intento – nemmeno dissimulato – di contenerla attraverso una cortina di ferro che ne impedisca la crescita economica, e la inchiodi ad un dispendioso confronto militare in potenza – mantenuto cioè sempre sulla soglia del conflitto, ma senza superarla. In buona sostanza, una riedizione di quella che fu la strategia statunitense verso l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, e che – nella visione degli strateghi neocon – ne determinò il collasso.
Va qui notato che, dal punto di vista americano, il conflitto in Ucraina è stato sinora assolutamente vantaggioso: ha reciso i rapporti tra Russia ed Europa, da sempre visti a Washington come estremamente pericolosi; ha, conseguentemente, messo in ginocchio l’economia europea, stroncandone le potenzialità concorrenziali; ha rimesso in riga i vassalli del vecchio continente, riportandoli all’obbedienza; e, non da ultimo, ha dato una grossa mano all’economia statunitense, in particolare (ma non solo) nel settore petrolifero ed in quello del complesso militare-industriale.
A questo punti, quindi, si tratta di capitalizzare questi vantaggi, ed impedire che una sconfitta sul campo di battaglia – con tutto quel che ne consegue – possa trasformarsi in un poderoso contraccolpo sull’immagine di grande potenza americana. Negoziare con Mosca, dal punto di vista di Trump, serve appunto a far sì che la fine del conflitto non arrivi a seguito di una schiacciante vittoria russa, e quindi a contrattare con Washington i termini con cui si concluderà.
Del tutto diversa è invece la situazione in Medio Oriente, dove gli USA si trovano a giocare una partita molto più complessa, in un contesto attraversato da profondi mutamenti negli equilibri di forza (che avvengono in larga misura al di fuori del controllo statunitense), ed in cui non sono il dominus incontrastato nemmeno nel proprio campo. Il solo vantaggio di cui dispongano è dato dal fatto che qui non si confrontano direttamente con una potenza del medesimo livello.
Qui l’obiettivo strategico degli Stati Uniti è condizionato dal fatto di non poter prescindere dall’alleato israeliano, il quale invece si muove esclusivamente secondo i propri interessi, quand’anche vadano in contrasto con quelli del main sponsor d’oltre Atlantico. Cosa questa resa possibile da una accurata strategia di penetrazione all’interno del sistema statunitense, che è stata in grado – negli ultimi decenni – di ribaltare completamente il rapporto tra i due paesi, assumendo un controllo di fatto sulla politica americana.
Questo obiettivo è stato conseguito essenzialmente attraverso una duplice azione: da un lato, sfruttando la potente comunità ebraica americana, in larga misura convogliata nell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), che oltre a lavorare come fortissima lobby ha costruito negli anni un meccanismo di selezione dei parlamentari statunitensi (finanziando le campagne elettorali di candidati filo-israeliani), anche grazie all’appoggio dei media (a loro volta largamente controllati dalla stessa comunità); e dall’altro trovando l’appoggio dell’altrettanto potente comunità cristiana evangelica, che fa capo alla Fellowship of Christians and Jews [5], ed ha un significativo peso economico ed elettorale.
Questa duplice penetrazione, nei gangli del potere politico americano, ha fatto sì che il Congresso degli Stati Uniti sia largamente composto, in modo assolutamente bipartisan, da sostenitori dello stato di Israele, e che la critica del sionismo politico sia considerata come un inviolabile tabù.
La natura di questo rapporto è un elemento fondamentale, per comprendere la posizione statunitense nella crisi mediorientale, perché di fatto l’autonomia strategica americana ne risulta limitata. In buona sostanza, mentre rispetto allo scenario ucraino la leadership politico-militare è sostanzialmente indiscussa, sia rispetto a Kiev che rispetto ai vassalli della NATO, nello scenario del Medio Oriente può esercitarsi solo attraverso una mediazione con gli interessi israeliani.
Secondo la vulgata corrente, ad esempio, la firma del cessate il fuoco a Gaza sarebbe stata di fatto imposta da Trump a Netanyahu; ma pensare che il governo israeliano abbia assunto una decisione di tale portata solo per compiacere l’amministrazione USA è davvero ingenuo. Assai più sostenibile è che il desiderio di Trump di celebrare la propria incoronazione con un pace (sia pure temporanea e molto sub judice) sia stato scambiato con qualcos’altro, e che all’ombra della (presunta) forzatura statunitense si celi piuttosto la constatazione che Israele ha perso la guerra contro la Resistenza palestinese, ed aveva la necessità di uscire da quindici mesi di inutile conflitto.
La questione mediorientale, comunque, ed esattamente per le ragioni su esposte, va osservata innanzi tutto proprio dal punto di vista israeliano. A partire dal 7 ottobre 2023, Tel Aviv ha dovuto affrontare una guerra asimmetrica ed a geometria variabile, in cui al fronte principale – Gaza – se ne sono poi aggiunti altri, in tempi e modi diversi. Il Libano, con Hezbollah, e lo Yemen, con Ansarullah, soprattutto, ma anche – e non secondariamente – la Cisgiordania, l’Iraq e l’Iran.
Tutti questi fronti di guerra fanno capo ad un conflitto che non è semplicemente asimmetrico, nel senso che i contendenti sono separati da un significativo gap di capacità militare (del resto, a parte l’Iran, sono tutti soggetti non statuali), ma che è appunto qualcosa di diverso da un conflitto convenzionale, in cui le parti si scontrano per disputarsi un territorio, essendo sostanzialmente una guerra di liberazione nazionale, in cui il popolo palestinese (ed i suoi alleati) hanno l’obiettivo di riprendersi la propria terra, non di ridefinirne i confini. Il fine di questa guerra di liberazione, quindi, è la fine del colonialismo d’insediamento, e dunque la fine di uno stato ebraico in Palestina.
A sua volta, per gli israeliani, si tratta ad un tempo della difesa del proprio insediamento in Terra Santa, e della aspirazione messianica ad impadronirsi di tutto il territorio corrispondente ad una mitica Israele pre-biblica, espellendone le popolazioni arabe. Si tratta quindi di un conflitto in cui gli obiettivi strategici delle parti sono assolutamente inconciliabili e non mediabili. Sul piano tattico, invece, le azioni di entrambe rispondono a considerazioni più pragmatiche, e si pongono obiettivi di portata più limitata. Da questo punto di vista, Israele (così come i suoi alleati anglo-americani) non è stato in grado di conseguire alcuno degli obiettivi che si prefiggeva, relativamente ai singoli fronti aperti.
Per quanto riguarda Gaza, questo obiettivo era sostanzialmente la distruzione della capacità di combattimento delle formazioni della Resistenza (Hamas e Jihad Islamica Palestinese su tutte) e, quindi, la loro messa fuori gioco come soggetto politico-militare. In quindici mesi di combattimenti, e soprattutto di bombardamenti quotidiani, l’IDF non è stata in grado di raggiungere questi obiettivi. Ovviamente l’azione militare israeliana ha inferto duri colpi alle organizzazioni armate, sicuramente uccidendo migliaia di combattenti; il che, peraltro, in un contesto di assoluta asimmetria del potenziale bellico, e con un conflitto che si svolgeva pressoché interamente in una sorta di gigantesca arena chiusa, è del tutto normale. Se si considera quindi la diversa capacità di fuoco delle parti, il fatto che una delle due combattesse in uno spazio circondato da forze nemiche, e soprattutto l’entità delle distruzioni e delle vittime civili del conflitto, il non essere stato ciononostante capace di conseguire l’obiettivo della guerra, fa risaltare ancor più la portata della sconfitta di Israele.
Se guardiamo al fronte libanese, la situazione è per molti versi simile. Ciò che Tel Aviv si prefiggeva avviando l’ennesima guerra in Libano, era innanzi tutto respingere Hezbollah oltre il fiume Litani, il che ovviamente implicava la necessità di infliggergli una sconfitta sul campo, e quindi minarne significativamente la capacità bellica. Come conseguenza, poter riportare a casa i quasi centomila coloni evacuati delle zone in prossimità del confine.
L’esito di questa campagna, estremamente breve, è stato che anche qui gli obiettivi non sono stati colti. Hezbollah non è stato spinto oltre il Litani, l’IDF è riuscito a penetrare solo per pochi chilometri, a volte solo centinaia di metri. Certo l’esercito sciita ha subito duri colpi – uno su tutti, la perdita di un leader come Nasrallah – ma ciò non ha comportato una significativa perdita delle capacità di combattimento. E nonostante il cessate il fuoco, i coloni non sono ancora tornati nei loro insediamenti.
Sul fronte yemenita, nonostante i massicci bombardamenti aerei anglo-americani ed israeliani, e nonostante la presenza di potenti flotte occidentali nel mar Rosso, è assolutamente evidente la vittoria di Ansarullah (che, detto per inciso, sancisce la nascita di un altro soggetto mediorientale con capacità di mettere bocca…). Il porto di Eilat è semidistrutto, e comunque completamente fallito. Il traffico marittimo commerciale in larghissima parte evita quella rotta, e preferisce la circumnavigazione dell’Africa (con aumento dei tempi, dei costi, e dei danni per il Canale di Suez ed i porti del Mediterraneo). La flotta guidata dagli USA, anche con qualche ammaccatura ben dissimulata, si è rivelata semplicemente del tutto inefficace.
In Iraq, le formazioni che fanno capo all’Asse della Resistenza – che hanno agito prevalentemente a supporto degli yemeniti – sono ben salde al loro posto. In Cisgiordania, la capacità di combattimento della Resistenza, nonostante la pressione militare quotidiana dell’IDF, continua a crescere, tanto che adesso è costretta ad intervenire persino l’aviazione israeliana, e l’amministrazione coloniale dell’Autorità Nazionale Palestinese (vero e proprio fantoccio USA, e collaborazionista di Tel Aviv) è stata spinta ad entrare pesantemente in campo, intervenendo militarmente al fianco dell’IDF [6]. Quanto all’Iran, rimasto sostanzialmente dietro le quinte, con le operazioni True Promise 1 e 2 ha dimostrato non solo la sua capacità di penetrare le difese israeliane e di poter colpire in profondità, ma anche e soprattutto che la deterrenza israeliana è ormai solo un ricordo, e nella migliore delle ipotesi si equivale con quella di Teheran. E si aspetta True Promise 3.
La situazione, dunque, vede Israele stanco, provato e diviso più che mai, dopo che la guerra più lunga della sua storia si trova ad essere sospesa (tranne che in Cisgiordania, dove continuano i combattimenti). Oltretutto, si parla spesso delle pesanti perdite di Hamas o di Hezbollah, ma ci si dimentica sempre di sottolineare che anche per l’IDF non è stata esattamente una passeggiata di salute. A prescindere da tutto il resto, quando verranno fuori le cifre vere sulle perdite (morti, invalidi, affetti da PSTD, ma anche carri armati e mezzi corazzati), si potrà fare un bilancio di cosa è costata ad Israele questa guerra perduta. Perché la guerra non è come una partita di football, non esiste il pareggio: se non vinci, hai perso. E il contraccolpo psicologico sulla minuscola società coloniale israeliana non sarà di poco conto.
La tregua, dunque, non è stata un’imposizione dell’amministrazione USA, anche se questa chiave di lettura fa gioco a Netanyahu, e gli consente di nascondere ancora per un po’ la verità, dietro questa cortina fumogena. La tregua arriva perché sanno che la guerra è persa; certo, avrebbero potuto continuarla ancora per un po’, ma non sarebbe servito a cambiare le cose.
Dunque, il do ut des tra Trump e l’Erode israeliano riguarda qualcos’altro. Prova ne sia che alla fine anche gli ultras sionisti si sono limitati ad una sceneggiata: Smotrich ha protestato per l’accordo, ma è rimasto nel governo, Ben Gvir ne è uscito (ma non dalla maggioranza che lo sostiene) riservandosi di rientrarvi appena la guerra ricomincia. A nessuno dei due, proprio come a Netanyahu, conviene far cadere davvero il governo, perdendo le opportunità offerte dal controllo di ministeri chiave, ed aprendo la strada ad una resa dei conti niente affatto rassicurante.
Lo scambio non è nemmeno in un possibile coinvolgimento USA in un attacco all’Iran: Trump non vuole chiudere una guerra per aprirne un’altra, soprattutto sapendo che questa presenta non pochi rischi (non solo per Israele, ma per le numerose basi americane nella regione, e soprattutto per il prezzo del petrolio). Di sicuro non dopo che Teheran e Mosca hanno siglato un accordo di partenariato strategico [7], che seppure non prevede un impegno di assistenza reciproca in caso di conflitto, di certo lega i due paesi ancora di più, ed è chiaro che la Russia non permetterà che l’Iran faccia la fine della Siria.
Sicuramente Washington aumenterà le pressioni sulla Repubblica Islamica, sia attraverso un inasprimento delle sanzioni, sia alimentando il terrorismo, sia cercando di fomentare rivoluzioni colorate – e attraverso tutte queste cose insieme. Me è estremamente improbabile che si faccia coinvolgere in operazioni militari dirette contro l’Iran, e di certo Israele non è a sua volta in grado di farlo da sola. Quel che Trump offre riguarda innanzitutto la Cisgiordania, dove eserciterà la sua influenza sull’ANP per spingerla ad inasprire lo scontro con la Resistenza, ed avallerà nuove annessioni territoriali. Riguarda la Siria, dove offrirà copertura politica – e se necessario non solo – alle mire israeliane sul Golan e su parte del sud del paese; del resto qui gli interessi di Washington e Tel Aviv coincidono perfettamente, essendo entrambe interessate al frazionamento del territorio siriano, ed al contenimento dell’espansionismo neo-ottomano di Ankara.
Ma soprattutto Trump intende rilanciare la carta degli Accordi di Abramo, che sono visti come l’atout per cambiare gli equilibri regionali, interrompere la tiepida liaison tra Ryad e Teheran, riportare l’Arabia Saudita nell’orbita occidentale e tornare a giocare un ruolo di primo piano nella regione.
Del resto, Trump lo ha detto esplicitamente: “faremo leva sullo slancio di questo cessate il fuoco per espandere ulteriormente gli storici Accordi di Abramo”. Anche se a gran parte dei leader arabi (soprattutto quelli petroliferi) non frega assolutamente nulla della causa palestinese, sono comunque più o meno costretti a considerarla, per non entrare in rotta di collisione con il sentiment delle proprie popolazioni. In particolare, l’Arabia Saudita – soprattutto dopo il 7 ottobre – ha insistito sulla necessità di una soluzione al problema palestinese, come pre-condizione per una pacificazione con Israele. E questa è oggi estremamente importante per Tel Aviv, che si trova più isolata che mai nella regione. Ragion per cui è altamente probabile che Netanyahu, vincendo i malumori dell’ala più radicale della sua coalizione, punti effettivamente a chiudere il conflitto nella Striscia di Gaza; non fosse altro che per mero calcolo, avviare una fase di stabilizzazione a Gaza, magari anche attraverso una sua gestione amministrativa che veda in qualche modo coinvolta anche l’ANP (come vorrebbero gli USA), farebbe da viatico a sbloccare la ripresa dei rapporti con Ryad ed altre capitali arabe.
Nei disegni dell’amministrazione Trump, quindi, gli Accordi di Abramo rappresentano l’architrave della strategia mediorientale, ed un loro rilancio in grande stile – approfittando anche di una fase in cui l’Asse della Resistenza, benché sostanzialmente vittorioso, necessita di un periodo di ricostruzione post-bellica – costituirebbe un ulteriore fiore all’occhiello per la Casa Bianca. Chiaramente l’ambizione statunitense è quella di coinvolgere gran parte dei paesi della regione, così da isolare l’Iran, dopo aver spezzato la continuità territoriale della mezzaluna sciita con la caduta del regime siriano. Probabilmente gli americani vorrebbero provare ad emarginare Hezbollah in Libano, portando Beirut ad aderire agli Accordi, ma in questa fase la mossa appare quantomeno improbabile. Difficile anche ottenere l’adesione dell’Egitto (vero e proprio gigante silente del mondo arabo, che da tempo non esprime più alcun protagonismo), posto che attualmente le tensioni con Israele sono forti – i due paesi si accusano vicendevolmente di aver violato gli accordi di Camp David. Potrebbero invece determinarsi – e sarebbe davvero un gran coup de théâtre – le condizioni per una adesione della Siria.
Riassumendo, potremmo dire che la strategia statunitense durante il secondo mandato presidenziale di Trump – o quanto meno durante il suo primo biennio – sarà quindi caratterizzata sì dalla volontà di porre fine alle guerre cinetiche in Europa ed in Medio Oriente, ma soltanto nel quadro di una visione conflittuale globale, con l’obiettivo di isolare/indebolire per altre vie sia la Russia che l’Iran, stante il fallimento della strategia perseguita durante la precedente amministrazione, che aveva invece scelto di sostenere un approccio più bellicoso. In termini strategici di lungo periodo, è chiaro che la Presidenza Trump va intesa come un ponte tra l’era Biden (dominata dall’alleanza tra democratici e neocon) e l’era Vance (caratterizzata da un maggiore pragmatismo), durante il quale si immagina che l’America possa lanciare – e vincere – la sua sfida al rivale cinese.
Questo è presumibilmente, e per grandi linee, il disegno americano. Resta da vedere come risponderanno Mosca e Teheran (e Pechino), e soprattutto se, come e quando si incastreranno i pezzi del puzzle.
1 – Vasily Nebenzia, rappresentante permanente della Russia all’ONU, ha dichiarato: “la Russia ha tutte le ragioni per credere che l’attacco dell’Ucraina al Turkish Stream sia stato effettuato su istruzione di Washington e Londra”.
2 – Secondo il vice ministro degli Esteri polacco Wladyslaw Teofil Bartoszewski, la NATO deve smettere di preoccuparsi del diritto marittimo internazionale e fermare le petroliere che trasportano petrolio russo, non solo nelle acque territoriali dei loro paesi, ma anche in acque neutre. Cfr. “НАТО открывает охоту на российский теневой флот”, Елена Острякова, Politnavigator
3 – L’Unione Europea sta importando GNL russo a livelli record. Nei primi 15 giorni di quest’anno, 837.300 tonnellate di GNL russo sono entrate nel blocco, una cifra senza precedenti. Nonostante la pressione delle sanzioni, il 95% proviene da Yamal con contratti a lungo termine. Al riguardo, cfr. “EU devours Russian gas at record speed despite cutoff”, Gabriel Gavin and Giovanna Coi, Politico
4 – Andando contro il principio di libera navigazione, la NATO intende estendere il suo controllo sulle acque neutrali del Mar Baltico. Come ha rivelato il Primo Ministro polacco Donald Tusk, dopo il vertice NATO della regione baltica tenutosi a Helsinki, sono già iniziate le consultazioni per trovare modi legali per controllare le navi al di fuori delle acque territoriali. Una cosa, questa, che cozza frontalmente con il diritto internazionale, in base al quale i paesi le cui navi saranno sottoposte a ispezioni illegali possono difendere i propri interessi con la forza. Mosca ha già fatto sapere che se la NATO cercherà di controllare le navi nel Mar Baltico, allora la Russia userà la marina militare per scortare le navi cargo. “Proteggiamo le nostre navi e le imbarcazioni che trasportano il nostro carico. E in caso di attacco, inizia un conflitto: prima locale, poi regionale”, ha detto Nikolai Mezhevich, presidente dell’Associazione degli studi baltici, al quotidiano russo Izvestia. Cfr. “Морские происки: страны НАТО добиваются досмотра судов в нейтральных водах Балтики”, Богдан Степовой, Юлия Леонова, Кирилл Фенин, Izvestia
5 – I fondamentalisti evangelici sono grandi sostenitori di Israele e del sionismo non per ragioni politiche, ma sulla base di motivazioni religiose. Essi ritengono infatti che, il giorno in cui gli ebrei conquisteranno tutta la Terra Santa, si avvererà la profezia che porta al giorno del giudizio, e quindi si instaurerà sulla terra il regno di Dio. Insomma una forma di messianesimo del tutto simile a quella che anima le componenti più estreme del sionismo israeliano.
6 – Dopo oltre un mese di assedio, l’Autorità Nazionale Palestinese ha raggiunto un accordo con i combattenti palestinesi della Brigata Jenin, portando al ritiro dal campo profughi e alla rimozione del blocco sulla città. Ma le forze di sicurezza dell’ANP continuano ad agire attivamente contro la Resistenza in tutta la Cisgiordania.
7 – L’accordo firmato tra Russia e Iran contiene una clausola sul rafforzamento della cooperazione nel campo della sicurezza e della difesa. Seppure non è previsto un meccanismo automatico di difesa reciproca, come nel caso dell’accordo con la Corea del Nord, è però previsto un approfondimento della collaborazione in campo militare, con uno scambio di tecnologie. Si sa che attualmente alcuni sistemi d’arma iraniani vengono impiegati in Ucraina dalle forze russe, per testarli in condizioni operative.Non si può quindi escludere, ad esempio, che domani i russi forniscano la tecnologia del missile balistico ipersonico Oreshnik, cosa che fornirebbe a Teheran l’equivalente di una deterrenza nucleare, pur senza disporre di armi atomiche, a cui la leadership iraniana resta contraria. (Il testo completo dell’accordo è disponibile sul sito del Cremlino).