La guerra semantica (parte seconda)
di Roberto Pecchioli - 26/08/2022
Fonte: EreticaMente
Pronunciare parole può essere paragonato ad accendere un fuoco. Quando vengono dette, le cose e i concetti – che esistono a prescindere – appaiono nella mente, sono accanto a noi, possono essere designate e nominate. Ogni distinta parola denota per la stessa cosa una diversa caratteristica o una sua sfumatura. La guerra semantica, modificando quella percezione, diventa il pompiere del lessico.
La ricchezza del linguaggio segue la ricchezza dell’essere. La parola trasporta, carica, descrive, guida la nozione concreta del mondo. Perciò, cancellando, deformando e corrompendo le viscere del linguaggio, si attacca l’essere dell’uomo. La confusione linguistica distrugge il dialogo del presente con il passato; la comunicazione con gli altri si interrompe e si alza una barriera che ostacola l’accesso al patrimonio storico e culturale. Se le società ignorano il loro passato, sono inconsapevoli di chi sono. Attaccando la lingua si spezza l’identità della popolazione.
Stiamo assistendo a un impoverimento deliberato delle nostre intelligenze. Il nostro stomaco è sazio, ma la nostra intelligenza è denutrita. “Solo quando ci saremo liberati di un frasario ingannevole, riprenderemo possesso delle nostre forze intellettuali.” (Frèdèric La Play). Il dramma è che la manipolazione linguistica trova scarsissima opposizione e ancora meno consapevolezza. Noi stessi cadiamo nelle sue trappole, per abitudine e disattenzione. La gente tende a usare le parole credendo che siano neutre, innocenti, intercambiabili come un paio di scarpe.
Poi ci sono la pigrizia, la presunzione, l’incomprensione del problema da parte di chi avrebbe la possibilità e il dovere di combatterlo culturalmente e politicamente. Un altro problema è la complicità che diventa tradimento. Per quieto vivere, tornaconto, conformismo si accetta la terminologia del nemico pur sapendola falsa. La condizione di chi reagisce somiglia sempre più alla voce solitaria, non creduta, di Laocoonte, unico a mettere in guardia i Troiani dal cavallo di legno introdotto in città da Ulisse. Infine vi è l’errore di chi ritiene innocuo usare un vocabolario ideologizzato poiché questo hanno insegnato referenti intellettuali disonesti. Timeo danaos et dona ferentes, dice Laocoonte nella narrazione virgiliana dell’Eneide: temo i greci anche quando portano doni.
La guerra semantica modifica, con il significato, la percezione dei concetti e il giudizio comune. Esaminiamo la parola uguaglianza: da Aristotele in poi, dovrebbe essere l’uguaglianza tra gli uguali – ci si perdoni la tautologia. Per i più è diventata l’egalitarismo orizzontale che nega il merito e l’evidenza. Cambiamento è un’altra parola talismano: la pronunciamo con enfasi senza sapere che cosa vogliamo modificare e soprattutto perché, ma il fascino del cambiamento- identificato con un altro totem, il progresso – è uno dei fondamenti del nostro tempo.
Ci dicono che è opportuno avere idee ed opinione “moderate” come se la verità fosse sempre nel mezzo, un luogo inesistente. Aborriamo l’estremismo e il fanatismo, come se avere convinzioni nette sia negativo. Siamo immersi – a partire dalle parole – nel paradossale estremismo della moderazione.
Diciamo “discriminazione”, il cui significato è selezionare discernendo, differenziando, distinguendo, e molti sono stati indotti a pensare al disprezzo per ragioni razziali, etniche, politiche, religiose e – negli ultimi anni – sessuali. In realtà, significa distinguere. Quindi non discriminare equivale a confondere. La bandiera della non discriminazione è il simbolo della confusione. D’altra parte, il linguaggio è necessariamente discriminatorio perché le parole esistono precisamente per discernere. Viviamo a Elebab, Babele scritta al contrario. Nella biblica Babele si diceva la stessa cosa in varie lingue e nessuno capiva. Nella Babilonia contemporanea, la stessa parola può riferirsi a cose e idee diverse e persino opposte.
Il pericolo maggiore è che la manipolazione del linguaggio facilita l’accettazione di ideologie, idee, concetti o prassi voluti da chi ha il controllo sulle parole. Un esempio di guerra semantica – che moltissima gente non riesce a riconoscere perché la rappresentazione ha vinto sulla realtà – è il termine “diritti umani”. Un’espressione riferita astrattamente alla specie, la cui dignità sarebbe meglio rappresentata dalla locuzione diritti della persona umana.
Oppure la banalizzazione estrema della pratica dell’aborto, promossa a diritto universale. Per la legislazione, si tratta della neutrale “interruzione volontaria di gravidanza” o del suo acronimo IVG, che dalla burocrazia sanitaria tracima nel linguaggio comune. Da qualche anno le agenzie internazionali (ONU, OMS) parlano – in termini zootecnici- di “salute riproduttiva”. Ma la maternità non è una malattia.
La guerra semantica impone il vocabolario e avanza senza resistenze apprezzabili. Ecco perché non dobbiamo solo contrastare concetti falsi (o ideologici, o confusi), ma abbiamo l’obbligo di non convalidare quel linguaggio con il nostro uso. Le persone possono accettare locuzioni fuorvianti attraverso una lunga, inavvertita ideologizzazione. Diffusa ed efficace è l’abitudine mettere i concetti nel carrello come merci al supermercato. Le parole vengono assunte, fatte proprie per moda, per essere come tutti, non fare brutta figura in certi ambienti, sinché piano piano (e impercettibilmente) entrano in circolo. Trasbordo ideologico e semantico inavvertito.
La guerra semantica opera clandestinamente, a livelli psicologici inconsci, ed è per questo che troppi la sottovalutano. Inutile schermirsi dicendo a se stessi: parliamo come loro ma mettiamo nelle parole il nostro senso. L’uso di una certa parola, di una determinata espressione ci rende implicitamente favorevoli a ciò che è nascosto nella sua ombra, ovvero al significato che il potere intende attribuirgli. La storia lo dimostra: quando usiamo il vocabolario del nemico, finiamo per pensare come lui.
Perché gli ideologi sono così interessati a cancellare certe parole? Mettiamoci nei loro panni. Se voglio che le persone perdano la capacità di distinguere il normale dall’anormale, il vero dal falso, la natura dall’innaturale, il bene dal male, la virtù dal vizio; se voglio annientare queste differenze che non possono scomparire nella realtà, devo cancellarle dalle menti. Come? Evitando di scrivere e pronunciare le parole che ci portano alla verità delle cose e possibilmente vietandole.
Io, l’ideologo, devo seppellire i termini la cui menzione presuppone l’assoluto: bene e male, virtù e vizio, vero e falso, giusto e ingiusto, e così via. Tutte hanno un principio che mi rifiuto di ammettere: se affermo “questo è bene” o “questo è vero”, inevitabilmente entro nel campo del giudizio di merito. Lo stesso si dice della giustizia e della virtù, la cui mera evocazione pone nella rarefatta atmosfera delle verità perenni. Quindi, devo criminalizzare la verità. Occorre che sia demonizzata, che il suo solo accenno porti all’indignazione, alla tensione. La verità e la parola che la esprime devono diventare uno scandalo e se possibile un delitto.
Tuttvia, poiché l’uomo ha bisogno di continuare a parlare – io, il servo del potere – dopo aver condannato e sepolto certe parole – devo fare in modo che ne siano usate altre. Quali? Termini inclini all’imprecisione e all’equivoco, cioè parole ed espressioni che non sottintendono il fondamento del realismo filosofico: l’intelligenza a contatto con la realtà.
Devo far parlare come se l’essere umano non possedesse un pensiero metafisico e una vocazione all’essere. Ci tocca ricorrere alle impervie categorie e alle parole della filosofia: basta noumeni – cioè i concetti delle cose in sé che vanne oltre i semplici “fenomeni” (Kant). La mente umana deve girare intorno alle cose senza mai penetrarle, e, per usare il lessico della Scolastica, rendersi incapace di dimorare nell’essenza, ma abitare solo negli “accidenti”, le qualità che non appartengono al nucleo concettuale di un oggetto o di un principio.
Il nuovo criterio di giudizio che imporrò sarà scandito da coppie oppositive in cui il secondo termine è postulato (mai dimostrato!) come negativo. Popolare/impopolare; moderno/antico; moderato/intransigente; maggioranza/minoranza; tollerante /intollerante o fanatico; costituzionale/incostituzionale.
Dove sta il trucco? Qualcosa può essere impopolare ed essere vera, moderna e disastrosa; la moderazione può diventare ipocrisia e viltà, la maggioranza può essere criminale e il suo giudizio errato, la tolleranza può nascondere indifferenza e fiacchezza morale, la costituzionalità (la legalità formale) può essere conseguenza di una premessa errata. Per questo, tutti questi aggettivi sono adattabili sia alla verità sia all’errore.
Per Joseph De Maistre “quella che oggi si chiama idea nuova, pensiero audace, grande pensiero, si chiamava quasi sempre, nel dizionario degli scrittori del secolo precedente, audacia criminale, delirio o attacco”.
Per gettare le basi di una lotta che sappia affrontare il domani, dobbiamo rispolverare una virtù condannata oggi come orribile chiusura mentale, mentre è saldezza nelle convinzioni; ci può salvare solo l’intransigenza, il duro esercizio di non cedere nelle idee, nel linguaggio, nelle attitudini, perseverando sino a costruire una corazza impermeabile, diventare una testimonianza senza mezzi termini, vino non annacquato. Il nemico, anche nella guerra semantica, vuole costringerci ad avere un complesso di inferiorità, prologo della resa. Vuole distruggere la cultura, seminare il caos e corrompere il linguaggio. E’ più abile di chi difende la verità.
Con Tommaso d’Aquino, prendiamo atto che prima viene l’intelletto e poi la volontà. Perciò dobbiamo studiare, pensare, agire più e meglio del nemico. Ad esempio, cominciando dai mille concetti da demistificare sul terreno più congeniale all’ideologia avversaria, l’economia. Scateniamo noi una guerra semantica, andando all’attacco, decostruendo uno per uno tutti i termini “positivi” delle loro visione: libero mercato, liberismo, libertarismo, liberalismo, sviluppo, benessere, rendita, profitto, concorrenza, crescita, progresso.
L’inganno sui significati – e la torsione dei significanti – è talmente grande da non essere quasi più visibile. La guerra consiste talvolta nella capacità – e nella temerità – di penetrare in territorio nemico e stabilirvi avamposti, a partire dalle parole. Dario Fo, nel suo linguaggio bizzarro e paradossale di consumato teatrante, enunciò in una commedia una verità da non dimenticare: il padrone conosce mille parole, l’operaio trecento; per questo è il padrone.