La letteratura ci salverà dall’estinzione
di Giampiero Marano - 29/12/2023
Fonte: Giampiero Marano
Negli anni Novanta Carla Benedetti ha pubblicato libri indimenticati come "Pasolini contro Calvino" e "L’ombra lunga dell’autore", nei quali contestava al post-moderno, in particolare a quello italiano, la pretesa tutta ideologica di chiudere per sempre i giochi, di celebrare il funerale della storia. Nel nuovo saggio uscito presso Einaudi, "La letteratura ci salverà dall’estinzione", il giudizio negativo dell’autrice si estende alla modernità tout court, in quanto coincidente con l’Antropocene – neologismo, questo (diffuso dal chimico Paul Crutzen), che designa l’era geologica caratterizzata dal massiccio intervento umano sull’ambiente naturale. L’assunto di fondo del libro, in cui la riflessione critico-letteraria esorbita dal recinto specialistico con un’esemplare consapevolezza dei propri mezzi e fini, è questo: “siamo le prime generazioni a vivere nella prospettiva di una possibile estinzione di specie”. Si tratta di uno scenario già a suo modo anticipato da Italo Svevo nel celebre finale della "Coscienza di Zeno", che tuttavia si riferiva all’eventualità apocalittica di una “esplosione enorme che nessuno udrà”.
Senza voler disconoscere l’entità della questione ecologica, è del resto impossibile trascurare le conseguenze politiche e sociali degli stati d’emergenza, che, come possiamo sperimentare, giustificano pesanti limitazioni della libertà. Né appare sensato ignorare come il tema del cambiamento climatico sia facilmente manipolabile, a uso e consumo dell’imperialismo americano, per colpire le economie cinese e russa, la cui produzione energetica dipende dai combustibili fossili. Ad ogni modo, l’autrice ritiene che per comprendere il destino (con i suoi scenari da incubo: surriscaldamento, siccità, migrazioni di massa) da cui sarebbero già attesi al varco i nostri immediati discendenti, occorra fare appello a una facoltà che gli studi umanistici sviluppano più di altri e che essa chiama “empatia”. Delude un po’ la scelta di questo termine alquanto scialbo, da pedagogia ministeriale, preferito a espressioni più intense come “solidarietà” (art. 2 della Costituzione), “pietà” (Dante, Leopardi), “affratellamento” (Anders), ecc.. Dante chiarisce come all’amore per i posteri si accompagnino il desiderio di gloria (altra parola oggi caduta in disgrazia, forse perché la gloria è l’antitesi del successo esaltato dalla società dello spettacolo) e il coraggio della veridicità: “e s’io al vero son timido amico, / temo di perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico” ("Paradiso", XVII, 118-120).
Per scongiurare il peggio, sarebbe allora sufficiente che le classi dirigenti, i politici, tornassero a formarsi sulla letteratura come avveniva fino a qualche decennio fa? La soluzione del problema non sembra in realtà così semplice, perché è necessario prima risvegliare in noi, sostiene l’autrice, le “forze dormienti che sono state congelate dal sistema di pensiero della modernità occidentale”. Soltanto in questo modo riusciremmo a “creare altre possibilità rispetto al corso odierno della vita e della storia”. Le energie che è così urgente ridestare sono, in primo luogo, quelle sprigionate dalla poiesis, “la parola poetica inseparata, il pensiero incarnato” che presso i Greci ancora non divideva la letteratura dalla filosofia ed era sapienza, pensiero poetante, mythos e logos nello stesso tempo: “non si dà pensiero senza poesia, né poesia senza pensiero”.
Non ci salveranno dall’estinzione né la letteratura comunemente intesa oggi (“una sfera specializzata (…) con tutti i suoi generi e sottogeneri schierati nel sistema estetico eretto dai moderni: poesia, romanzi, romanzi d’avventura, noir, fantascienza, fantasy, autobiografie, autofiction, docufiction, climate fiction, ecofiction”) né la letteratura teorizzata da quell’estetica che le attribuisce sì “una funzione conoscitiva nel rappresentare la realtà, ma non il potere di stimolare un cambiamento radicale”.
Il modello di letteratura a cui dobbiamo guardare non si limita ad annunciare il futuro, come nel caso delle “profezie” di Adorno e Debord, ma lo evoca e lo suscita: abbiamo bisogno di una parola “performativa, agente”, che “scatena un sommovimento e un riorientamento nelle strutture di pensiero di chi ascolta”. Che, insomma, “non pietrifica l’azione nell’idea di una catastrofe inevitabile” ma attiva “forze sentimentali e di visione”. La parola suscitatrice è percepibile, per la Benedetti, sia in autori del secondo Novecento europeo come Anders e Pasolini, e più recentemente nelle opere di Moresco, sia nei grandi scrittori del passato (Dostoevskij, ad esempio), come pure nelle testimonianze letterarie dei popoli non europei che hanno visto le loro civiltà travolte dalla colonizzazione occidentale.
Perciò il genere letterario più adatto a fronteggiare l’emergenza di specie non sarà tanto il romanzo realista, che si impone “mettendo al bando l’inaudito e portando il quotidiano in primo piano”, quanto – spiega l’autrice con una mossa spiazzante e coraggiosa – l’epica, capace di oltrepassare “il piccolo orizzonte spaziotemporale a cui ci hanno assuefatti le narrazioni più correnti” recuperando “il tempo profondo”, cioè i grandi cicli del cosmo e del mito sconosciuti alla modernità.
A differenza di ciò che afferma la vulgata globalista, secondo la quale le sovranità sono inevitabilmente latrici di conflitto (e l’impressione è che la stessa Benedetti, dichiarandosi “europeista”, accolga questo pregiudizio esiziale), proprio la poesia epica insegna che l’appartenenza a un gruppo particolare non impedisce affatto di riconoscersi nella più vasta comunità dei “mortali”, dei βροτοί, come dice il padre della nazione greca, Omero. Ben sapendo che amiamo l’umanità a partire dall’amore per il nostro γένος, è su questo sentimento primordiale che fa leva il vecchio Priamo quando supplica Achille di restituirgli il cadavere di Ettore: “Ricordati di tuo padre, Achille simile agli dèi, / che ha la mia età, è al limite doloroso della vecchiaia, / e coloro che gli vivono vicino standogli attorno / lo tormentano, e non c’è chi gli tenga lontana pena e rovina” ("Iliade", XXIV, vv. 486-489).
In breve: non esisterà mai nessuna “social catena” che ci leghi in solidarietà ad altri uomini lontani nel tempo e nello spazio, e ai viventi (ai “terrestri”, come preferisce dire Carla Benedetti) in generale, finché “quello spirito nazionale, senza cui non v’è stata mai grandezza a questo mondo” (Leopardi, Zibaldone, 24.3.1821) verrà coperto di ridicolo o addirittura bandito e demonizzato.