La libertà di parola e perchè è importante
di Michèle Tribalat - 31/03/2022
Fonte: GRECE Italia
Pubblichiamo questo scritto molto interessante di Michèle Tribalat, saggista e demografa francese. I campi d’indagine che predilige sono quelli dell’assimilazione religiosa e dell’integrazione, il modello e la fine dell’assimilazionismo francese, il fenomeno migratorio in Francia, gli studi sulle statistiche etniche, l’analisi demografica, etc. Michèle Tribalat è stata direttrice di ricerca dell’Institut national d’études démographiques (INED), collaborando innumerevoli volte con l’Institute national de la statistique et des études économiques (INSEE). Le esperienze lavorative sono state per lei un banco di prova eccezionale, ben conscia del sistema del management e di certi errori metodologici di chiara ispirazione ideologica nell’ambito della demografia e della statistica. Ricordiamo tra i suoi innumerevoli saggi “Immigration, idéologie et souci de la vérité” (L’artilleur, 12 gennaio 2022), “Statistiques ethniques, une polémique bien française” (L’artilleur, 24 febbraio 2016), “Assimilation: la fin du modèle français” (Toucan, 25 settembre 2013) e “Les yeux grands-fermés. L’immigration en France (Denoel, 18 marzo 2010).
Andrew Doyle, drammaturgo, comico, giornalista e autore di satira politica [1], noto per i suoi video con un immaginario Jonathan Pie che commenta le notizie in tono arrabbiato [2] e i tweet dell’immaginaria Titania McGrath, non è solo un intrattenitore. È professore invitato presso la Queen’s University di Belfast e l’anno scorso ha pubblicato un interessante breve libro sulla libertà di parola.
Questo libro inizia con un aneddoto significativo dello spirito dei tempi. In Inghilterra e Galles è possibile ricevere la visita di un agente di polizia, dopo essere stati segnalati per un atto di odio non illegale (non-crime hate incident), che viene annotato in un registro che può essere consultato dai datori di lavoro al momento dell’assunzione. Andrew Doyle racconta la visita del poliziotto che si è presentato da Harry Miller per verificare cosa stesse pensando: «Dobbiamo controllare il tuo pensiero»! Vedi in dettaglio in appendice la procedura e le conseguenze di questo controllo di polizia. Per Andrew Doyle, questo tipo di intervento orwelliano avviene in un’atmosfera di inquietante apatia.
L’era digitale priva i cittadini anche della difesa della loro libertà di espressione. Negli Stati Uniti, il 1° emendamento protegge i cittadini dall’interferenza del Governo, ma non da quella delle Big Tech che, sotto la copertura del Communications Decency Act, non sono responsabili nei confronti di alcuno. Non sono legalmente responsabili del contenuto, ma possono censurarlo a loro piacimento e influenzare così il dibattito pubblico.
Difendere la libertà di espressione non equivale a sostenere ciò che viene detto
Se la difesa della libertà di espressione oggi sembra essere una preoccupazione della Destra, è perché la Sinistra non è riuscita a difenderla. In altre epoche, la censura veniva principalmente da Destra. Temere la libertà di espressione perché favorirebbe la diffusione di cattive idee significa aver già deciso quali idee siano inammissibili. Come scrive Andrew Doyle, «difendere la libertà di parola è difendere i diritti di coloro di cui disprezziamo le opinioni. Le idee condivise all’unanimità non hanno bisogno di tale protezione» (p. 19). Ricorda che l’ACLU (American Civil Liberties Union, NdT)[3], e in particolare il suo presidente Aryeh Neir, un ebreo sfuggito al nazismo, difese il diritto dei neonazisti a manifestare quando fu loro vietato nel 1977 a Skokie, una cittadina alla periferia di Chicago, dove quasi la metà dei residenti erano ebrei. Aryeh Neir non era diventato improvvisamente un seguace del nazismo, voleva solo che i neonazisti potessero parlare in modo che potessero essere sconfitti con la parola, non con la censura. Oggi verrebbe diffamato e ritenuto colpevole di associazione con quei gruppi.
Nella sua Dissertazione sopra i primi principi di governo, libro del 1795, Thomas Paine concludeva che «colui che desidera preservare la sua libertà deve anche proteggere i suoi nemici dall’oppressione perché, se non lo fa, stabilisce un precedente che alla fine colpirà anche lui»
La cultura della cancellazione (Cancel Culture), la negazione e il suo danno
Negli Stati Uniti, la cultura della cancellazione ha le sue radici in una risoluzione volta a impedire alle organizzazioni apertamente fasciste e razziste di parlare nei campus, adottata in una conferenza della National Union Students (NUS) nel 1974. Dal momento che tali organizzazioni sono oggi oggetto di profondo disprezzo nelle società occidentali, questa risoluzione non ha più molto senso, se non per prendere di mira coloro che non aderiscono agli obiettivi della «giustizia sociale». Questo si chiama concept creep (slittamento del concetto). Molti attivisti dissentono affermando che il fascismo sia stato normalizzato mentre era in fase di declino terminale. Se ci credessero davvero, dovrebbero essere obbligati a dibatterne. «Quando nessuno è d’accordo sulle definizioni, è impossibile mettersi d’accordo su dove porre i limiti della libertà di espressione» (p. 59). Lo scopo della cultura della cancellazione è punire, senza possibilità di riscatto. I suoi bersagli, denunciati più che criticati, sono spesso persone che non hanno i mezzi finanziari per proteggersi. Se JK Rowling è stata difesa dal suo editore dopo essere stata accusata per aver osato dire che il sesso aveva basi biologiche, Gillian Philip, autrice di libri per bambini, è stata abbandonata dal suo di editore per aver osato difenderla. La legge vieta le minacce, la diffamazione, le molestie, la violenza. Ma questi sono tuttavia i metodi preferiti della cultura della cancellazione, che si combinano con la denigrazione, amplificati dall’eco mediatica che accompagna il licenziamento di persone accusate di aver offeso questo o quel gruppo protetto. Parliamo di gaslighting (in riferimento a Gaslight [4]). Ma i successi della cultura della cancellazione non ha bisogno di derivare da una campagna di annullamento o di disincentivazione. Spesso basta il clima di intimidazione.
Una questione di generazione [5]
La cultura della cancellazione si è sviluppata parallelamente alla diffusa messa in discussione della libertà di espressione tra i giovani. In un sondaggio del 2015 del Pew Research Center, il 40% degli Americani di età compresa tra 18 e 34 anni ha affermato di essere favorevole al divieto di discorsi offensivi diretti alle minoranze. Quando saliamo nella piramide dell’età, questa proporzione diminuisce a solo il 12% tra i 70 e gli 87 anni. Questa ipersensibilità dei giovani all’offesa si spiega con l’iperprotezione dei genitori che hanno optato per un’istruzione volta a evitare qualsiasi rischio per i propri figli [6]. I giovani tendono a valutare l’inclusività al di sopra della libertà di espressione. Come scrive Andrew Doyle, è come versare benzina per spegnere un incendio, perché la libertà di espressione è l’unica via che permette ai più emarginati di farsi sentire. È stata la lotta per la libertà di espressione che ha consentito i movimenti di emancipazione del XX secolo (donne, gay). È grazie a essa che gli attivisti della cultura della cancellazione possono farsi sentire, rivoltando così la libertà di espressione contro sé stessa.
Tutto può essere offensivo, compreso il silenzio
L’offesa, scrive Andrew Doyle, è la combinazione di parole e l’interpretazione che se ne dà. Evitare la possibilità di offendere è come isolarsi dalla società nel suo insieme. Eppure, come scrive Andrew Doyle, «un aspetto importante della libertà di espressione è il diritto a non ascoltare» (p. 35). Anche se il contratto sociale porta a favorire la cortesia, ci saranno sempre persone che trasgrediranno i confini di uno scambio cortese. Inoltre, anche quando soppesiamo tutte le nostre parole, non saremmo mai sicuri che esse vengano interpretate nel modo che pensiamo. La sensibilità individuale di ciascuno non può essere utilizzata come riferimento per determinare cosa si può dire. Perseguire qualsiasi gaffe, ogni presunzione di offesa, vuol dire aspettarsi che le persone si comportino come dei robot. Oltre alle offese personali, ora ci sono quelle per conto di altri, che vengono sempre più spesso denunciate. Questo è spesso il motivo addotto dai seguaci della cultura della cancellazione che poi trattano gli altri come bambini, aiutati in questo, nel campus, da amministratori che cercano a tutti i costi di tutelare la reputazione della loro università. Invece di offenderci, dovremmo essere felici di confrontarci con idee che consideriamo intollerabili. È un segno di una sana democrazia che non consente a queste idee di prosperare negli angoli oscuri della società. Un’idea inquietante non è un virus. È molto più facile combatterlo se lasciamo che si esprima. Questo evita anche di creare dei martiri, dei perseguitati. Come ha scritto Orwell, «se la libertà significa qualcosa, questo è il diritto di dire alle persone ciò che non vogliono sentire». L’ingessatura dei dibattiti oggi ha ripercussioni sulla creazione artistica. L’autocensura che ci si aspetta da comici e dai caricaturisti condanna queste professioni a scomparire. Anche la situazione degli artisti e degli attori, le cui produzioni sono scrutate attraverso il prisma della politica identitaria, è un vero disastro. Come scrive Andrew Doyle, «il conformismo è la loro pattumiera» (p. 50), e aggiunge che rifiutarsi di mettere in discussione le nostre certezze «è un suicidio intellettuale al rallentatore» (p. 65).
Intimidazione e nuovo conformismo
Andrew Doyle riprende qui l’analisi di Timur Kuran [7]. Come ogni creatura sociale, noi temiamo l’impopolarità, che ci mette in una posizione morale imbarazzante e ci condanna troppo spesso a vivere come attori che hanno dimenticato di recitare un ruolo. Questa dispensa dal pensare da soli può avere conseguenze disastrose in ambito universitario. La terribile esperienza di Bret Weinstein alla Evergreen e quella di molti altri suonano come un avvertimento per tutti gli accademici. Capiamo bene allora perché questi ultimi sono così riluttanti a esprimere la loro opinione rappresentando una terribile minaccia per la produzione accademica. In effetti, l’innovazione dipende da coloro che non si conformano alle idee ricevute dal loro ambiente. Cedere è una scelta morale. «La più grande minaccia alla libertà di espressione viene da noi stessi» (p. 53).
Parole, violenza, discorsi di odio e incitamento alla violenza
Un’intera generazione, «coccolata» dai genitori, sta ora reinterpretando ciò che possiamo intendere per «sicurezza» (safe). Da qui il ricatto emotivo degli attivisti della cultura della cancellazione che invocano le conseguenze traumatiche delle parole quando cercano di mettere la museruola a qualcuno. Assimilando le parole alla violenza, alcuni giungono a giustificare l’uso della violenza fisica come una sorta di autodifesa. Rompono così con le condizioni operative del contratto sociale. Attaccare un’ideologia non è attaccare chi la professa. Forse l’argomento meno discutibile per limitare la libertà di espressione sarebbe l’incitamento alla violenza. Tuttavia, l’incitamento all’odio non crea di per sé odio. Come è avvenuto in Ruanda, inviano il segnale di approvazione ufficiale suggerendo che l’uso della violenza non sarà punito. L’origine della convinzione che esista un legame tra libertà di espressione incondizionata e violenza è probabilmente ideologica. I militanti della giustizia sociale, che si sono ben formati nel postmodernismo, credono nel legame tra linguaggio e potere. Sono ossessionati dall’identità e riducono l’umanità a una specie passiva e malleabile che sarebbe sempre il giocattolo delle circostanze. Tuttavia, non è limitando la libertà di espressione che si può sperare di impedire la diffusione di un’idea. Screditare è più efficace che vietare. E poi, chi deciderà, e su quali basi, di vietare l’espressione di idee e opinioni? Andrew Doyle aggiunge giustamente che «se la parola ha il potere di corrompere, cosa ci si assicura che l’esposizione a questi materiali tossici non corromperà anche i censori?» (pag. 73).
Nel suo libro Censored pubblicato nel 2012, Paul Coleman ha osservato che tutti i Paesi europei avevano approvato leggi sull’incitamento all’odio. Si definisce tale, nel Regno Unito, qualsiasi discorso percepito dalla vittima o da qualsiasi altra persona come motivato da ostilità, reale o percepita, verso (o pregiudizio nei confronti di) persone sulla base di disabilità, razza, religione, orientamento sessuale o genere. Questa definizione si applica anche agli atti di odio non illegali registrati dalla polizia. Tutto si basa sui sentimenti del denunciante, il che equivale a ignorare la presunzione di innocenza. La giustizia non dovrebbe avere come missione quella di controllare i nostri sentimenti. Così facendo, essa politicizza la sua azione. Nel Regno Unito, ogni anno, 3.000 persone vengono perseguite per commenti offensivi, comprese battute. La giustizia tratta nozioni soggettive a riguardo delle quali non è chiaro dove ci si possa fermare. Come scrive Andrew Doyle, «il prezzo da pagare per una società libera è che le persone cattive dicano cose cattive. Lo tolleriamo, non perché siamo d’accordo con quello che dicono, ma perché una volta che ci siamo compromessi su questo principio, apriamo la strada alla tirannia» (p. 77).
Anno Zero
Oggi si ha l’impressione che i difensori della libertà di espressione si trovino in minoranza. Si ritiene che essi debbano fare un passo indietro per lasciare spazio alla giustizia sociale. In tal modo, la censura impedisce il contraddittorio e stabilisce un precedente che può essere facilmente sfruttato ed esteso per ragioni morali. Ciò che resta della voglia di dibattito è dovuto al fatto che sappiamo che è possibile sbagliarsi. È quindi nel nostro interesse promuovere il dibattito non è solo un impegno per la libertà.
Rendere utopico l’attuale porta a voler rendere asettico il passato. Nel 2020, il Decolonising Working Group (Gruppo di Lavoro sulla Decolonizzazione) della British Library ha raccomandato, tra le altre cose, di rivedere tutti i materiali che promuovono «la nozione antiquata di civiltà occidentale». Ha anche affermato che l’architettura dell’edificio era «offensivamente imperialista» perché rappresentava una nave da guerra! Il fatto che queste azioni militanti siano intraprese con le migliori intenzioni del mondo non ne riduce la minaccia, ma le rende più difficili da combattere. Andrew Doyle ci esorta a rifiutare di credere a coloro che affermano l’infallibilità morale riguardo al passato e a considerare che «il loro piccolo periodo di esistenza è l’anno zero della grande recita dell’umanità» (p.82). Trenta anni fa, non avremmo mai potuto prevedere cosa sta succedendo oggi. Tra trenta anni, forse ciò che oggi consideriamo stravaganze sarà il nostro status quo! Da qui l’urgenza di arginare questo pericolo e cercare di evitare che diventi la nostra normalità.
APPENDICE
Gli «Atti di odio non illegali» (Non-crime Hate Incidents – NCHI) in Inghilterra e Galles: l’esperienza di Harry Miller.
Harry Miller è un ex poliziotto che ha avviato un’attività in proprio nel Lincolnshire. Nel Gennaio 2020 ha ricevuto la visita di un agente di polizia sul posto di lavoro a seguito di un tweet in cui scriveva che pensava che i transessuali non fossero donne. Essendo un ex poliziotto, non si lasciò intimidire da questa visita. Alla domanda su quale crimine avesse commesso, il poliziotto ha risposto che non ne aveva commesso alcuno. Allora perché questa visita? Il poliziotto rispose che doveva controllare il suo pensiero (I need to check your thinking). Harry Miller poi gli ha chiesto se sapeva cosa significasse secondo lui. No, rispose il poliziotto… Un poliziotto del pensiero! Quando il poliziotto gli ha spiegato che, se questo fosse venuto alla luce sul suo posto di lavoro, avrebbe potuto causargli problemi con il dipartimento delle risorse umane, Harry Miller ha risposto che lui era il suo dipartimento delle risorse umane! (I am my fucking HR department! ). In seguito Harry Miller e un amico fondarono l’associazione Fair Cop (Polizia giusta, NdT) (di cui è presidente) la quale ha condotto l’azione legale contro la polizia e la guida del College of Policing.
Che cosa è un NCHI?
La registrazione degli NCHI è stata introdotta nel 2014, seguendo, tardivamente, le raccomandazioni del rapporto MacPherson del 1999. L’idea era quella di raccogliere dati che denunciassero i comportamenti razzisti da parte della polizia. Ovviamente, anche qui c’è stato uno slittamento del concetto. La guida del College of Policing del Ministero dell’Interno definisce un NCHI come un caso percepito dalla vittima o da chiunque altro come motivato da ostilità o pregiudizio. Viene salvato in un file ed è consultabile per 6 anni. Non c’è possibilità di ricorso. La guida, al punto 6.3, insiste sul fatto che qualsiasi segnalazione di questo tipo deve essere registrata, indipendentemente dal fatto che vi siano prove o meno del presunto odio. Si tratta di un casellario giudiziario (Crime Report) dei non reati. Strano caso di controsenso.
Fonte : https://www.youtube.com/watch?v=iCxQI9U_xHE
Harry Miller ha vinto le sue due cause
Nel febbraio 2020, in primo grado, il tribunale si è pronunciato a suo favore. Si è ritenuto che la procedura di controllo della polizia interferisse in modo sproporzionato con la sua libertà di espressione. La Corte, tuttavia, non ha messo in dubbio la «Linea guida del Policing» giudicandola sia legittima che proporzionata. Harry Miller ha quindi presentato ricorso e ottenuto, nel dicembre 2021, che il testo della guida del College of Policing venga rivisto, poiché è stato ritenuto offrire troppe poche garanzie e avere un effetto intimidatorio (chilling effect), tale da limitare la libertà di espressione. La Presidente, Victoria Sharp, ha insistito su quest’ultimo punto. I cittadini hanno il diritto di esprimersi, anche su questioni controverse di interesse pubblico. I miglioramenti introdotti nel frattempo nella guida del College of Policing non hanno soddisfatto Victoria Sharp. Non li ha considerati abbastanza convincenti da limitare l’effetto intimidatorio. Si dovrà quindi rivedere il testo della guida del College of Policing prevedendo più chiaramente garanzie contro gli abusi. Tuttavia, resta il fatto che tali atti possono essere segnalati e registrati, anche in modo più restrittivo, cosa che rappresenta di per sé un problema irrisolto. 120.000 NHCI sono stati registrati dal 2014 al 2019. Come scrive Adam King sul sito unherd, la protezione offerta dalla clausola del ragionevole dubbio, sancita dal diritto penale, è solo moderatamente confortante se puoi vedere la tua vita rovinata da una semplice denuncia alla polizia che non richiede prove.
Michèle Tribalat
Traduzione a cura di Manuel Zanarini
Riferimenti
https://www.college.police.uk/
https://www.faircop.org.uk/category/blog/
https://www.theguardian.com/uk-news/2021/dec/21/ex-police-officer-wins-appeal-over-forces-guidance-on-hate-incidents
https://www.dailymail.co.uk/news/article-10328817/Court-Appeal-rules-police-guidance-non-crime-hate-incidents-unlawful-landmark-victory.html
https://salisburyreview.com/blog/the-police-how-long-before-speed-cameras-are-replaced-by-thought-cameras/?mc_cid=c65f167eb4&mc_eid=572eecfd96
https://unherd.com/thepost/farewell-to-the-non-crime-hate-incidents/
Dan Hitchens, 20 12 2021
https://unherd.com/thepost/non-crime-hate-incidents-arent-gone-yet/
Adam King, 22 12 2021
Note:
[1] https://fr.wikipedia.org/wiki/Andrew_Doyle.
[2] https://www.youtube.com/playlist?list=PLa4Abh7SvdKvKp4ed91WfLEZApVU-n0rI.
[3] American Civil Liberties Union.
[4] È il titolo di un’opera teatrale di Patrick Hamilton pubblicata nel 1938. La commedia è stata adattata per il cinema da Thorold Diskinson nel 1940, film che è stato rifatto nel 1944 da George Cukor. L’eroina è accusata dal marito di aver perso la testa. Egli utilizza vari sotterfugi per internarla al fine di appropriarsi dei beni di lei.
[5] Si veda a riguardo il libro di Brice Couturier, OK Millenials, L’Observatoire, 20 Settembre 2021, 336 p.
[6] Vedere Jonathan Haidt e Greg Lukianoff, The Coddling of the American Mind. How Good Intentions and Bad Ideas Are Setting Up a Generation for Failure, Penguin Books, 2018, 352 p. http://www.micheletribalat.fr/440866626.
[7] Timur Kuran, Private Truths, Public Lies. The Social Consequences of Preference Falsifications, Harvard University Press, 1995, New edition 1997, 440 p. http://www.micheletribalat.fr/439783525.
(Michèle Tribalat, http://www.micheletribalat.fr/, FREE SPEECH And Why It Matters. Andrew Doyle, Constable, 25 février 2021, 144 p., 28, febbraio 2022)
dalla demografa in data 28 febbraio 2022 –