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La maledizione

di Livio Cadè - 12/09/2021

La maledizione

Fonte: EreticaMente

“Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai…

Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano.”

«Girando attorno a una mola un asino fece cento miglia; quando fu sciolto, si trovò ancora allo stesso posto». Capita sovente che io pensi a me come a quest’asino, di cui parla il Vangelo di Filippo. Per quarant’anni presto la mia anima a un lavoro senza ben capire il senso e l’utilità di ciò che sto facendo. Porto in tondo i miei pensieri, lego la mia mente alla macina dei doveri, delle incombenze professionali. Quando sarò sciolto da questa servitù, vedrò solo il profondo cerchio che ho scavato.
Ma forse un nuovo Codice QR, che abroga e sostituisce tutti i precedenti codici civili e penali, mi libererà anzitempo dalle catene del lavoro. In sostanza, mi si chiede di scegliere tra una libertà senza retribuzione e una retribuzione senza libertà. È un’opzione complessa, che richiederebbe calcoli precisi, ma che in fondo affronto col cuore più che con la logica. Da tanto tempo cavalco frate asino, e mi ci sono affezionato.
Perciò non intendo sottoporlo a penetrazioni nasali continue e dal carattere sodomitico. Esami salivari meno sadici mi costerebbero ogni mese quanto l’affitto di un quadrilocale, e ho già un affitto da pagare. E di sicuro non lascerò che qualcuno gli inoculi un siero potenzialmente letale e distruttivo. Ma non è solo un problema fisico o economico. È anche una questione di dignità.
Non mi va, perché sono asintomatico, d’esser visto come un appestato che lascia dietro di sé una lunga scia di morte. Considero vessatorio esser chiamato ogni due giorni a discolparmi e a pagare un certificato che dichiari la mia innocenza. E mi rifiuto di prestarmi come cavia di esperimenti omicidi. Primo, perché sono contrario alla sperimentazione animale, secondo perché in conflitto col mio istinto di sopravvivenza, terzo per rispetto di me stesso.
Così, ora che, dopo un lungo e sofferto purgatorio, cominciavo a intravedere in lontananza, come un tenue bagliore, il paradiso della pensione, vengo ricacciato nel limbo della disoccupazione, tra le ombre dell’indigenza. Eppure, quasi colpevolmente, avverto un senso di liberazione. Pregusto il distacco dalla macina.
Ho infatti nostalgia di quella condizione beata, libera da fatiche e travagli, che langue in qualche recesso della mia natura. Felicità pacifica e senza artifici da cui per misteriose ragioni divorziai agli albori della storia. Perciò non ho mai percepito il lavoro come una benedizione. Né ho mai pensato che nobilitasse l’uomo. È solo un’umiliante necessità, eredità di un antico peccato.
Il lavoro nasce infatti da quella maledizione – “mangerai il pane con il sudore del tuo volto” – effetto di una disubbidienza all’ordine divino. Sappiamo che prima Adamo si limitava a coltivare il giardino dell’Eden. Doveva essere un lavoro piacevole, che non gli costava pena e ansietà. Come dice Virgilio: «ipsaque tellus omnia liberius nullo poscente ferebat», la terra stessa, senza esserne sollecitata, donava tutto generosamente.
Labor è invece fatica, sofferenza. Travaglio del lavoro per Adamo e del parto per Eva. Il fare e l’amare, fondamenti della vita umana, subiscono dunque una comune maledizione. La natura fa violenza all’uomo, che lavora nella fatica. L’uomo fa violenza alla donna, che partorisce nel dolore. Dunque, è logico supporre che potremo redimere il lavoro e la sessualità dalla loro condizione maledetta solo ripristinando la nostra ubbidienza a Dio.
Partendo da tali premesse, mi pare malaugurante fondare un Paese sul lavoro. Negare all’uomo la felicità fin dal primo articolo della Costituzione, riannodando il suo destino a una maledizione. Si dirà che senza questa tensione operosa la nostra civiltà cadrebbe nel nulla. Sarà, ma resto dell’idea che una società veramente umana dovrebbe fondarsi sull’amore, la libertà, la bellezza, la verità.
Un buon fondamento potrebbe essere l’arte, quell’opera delle mani, della mente e del cuore che avvicina l’uomo alla sua origine divina. Atto libero, non costretto da necessità esteriori ma dal libero impulso dello spirito a creare, a somiglianza di Dio. Lavoro su di sé e sugli archetipi eterni che attendono di manifestarsi attraverso la disciplina e la fantasia dell’artista. O quella del filosofo, del poeta.
Nella Bibbia non esiste il Comandamento di lavorare. Il lavoro non implica dunque un’elevazione morale. La santificazione del sabato, ovvero del riposo, indica semmai il carattere sacro dell’otium e, di converso, quello impuro e profano del lavoro. L’Antico Testamento riconosce l’utilità di contadini e artigiani. “Senza di loro non si costruisce una città” dice il Siracide. Ma il vero compito dell’uomo è “meditare la Legge dell’Altissimo”. Il Qoelet, da parte sua, esprime la profonda inutilità del lavoro: «quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole?»
L’intimo legame che unisce il lavoro alla caduta dell’uomo lo lega inevitabilmente al peccato e al male. Questo è evidente quando, partendo dalla remota antichità fino a oggi, osserviamo le tante forme maligne assunte dal lavoro, le forme sistematiche di oppressione, sfruttamento, controllo spietato, la cui violenza sfocia in ‘lavori forzati’ e disumani ‘campi di lavoro’.
La natura essenziale del lavoro è infatti la servitù alla necessità o al potere. La perfezione del lavoro coincide dunque con la perfezione della servitù, e questa con la schiavitù, totale privazione della libertà. Ed essendo la libertà il fondamento di ogni bene, è logico che nel lavoro possa metter radici un male altrettanto fondamentale.
Il mondo classico non vede relazione tra il lavoro e la dignità umana. «Nessun biasimo al lavoro; biasimo all’inattività», dice Esiodo, riconoscendo semplicemente la necessità di lavorare, dacché l’uomo ha perso la condizione “senza fatiche e travaglio” di cui godeva un tempo. Secondo Virgilio, è Giove stesso a imporre all’uomo l’obbligo del lavoro, per stimolarlo a sviluppare le sue facoltà.
Ma in genere la cultura antica mostra un certo disprezzo per le prestazioni subordinate. Come dice Aristotele, ogni lavoro retribuito degrada la mente. Le occupazioni materiali, per altro, sono viste in conflitto con l’esercizio delle più nobili facoltà intellettuali. È il cristianesimo, con la sua apertura a schiavi, proletari e plebei, a fare del lavoro un dovere e un valore morale.
La dottrina cristiana ha sempre lodato il lavoro, riconoscendogli i valori dell’edificazione, della socialità, del sacrificio, della nobiltà. Si arriva così a fare del lavoro, più che dell’amore, la vera legge dell’uomo. Senza vedere che ogni apologia del lavoro conduce inevitabilmente allo schiavismo, rendendo l’uomo non più fine ma semplice mezzo della produzione.
La Chiesa ha in realtà deplorato lo schiavismo, ma ha ammesso una forma di ‘giusta’ schiavitù. Immagino troverebbe quindi giustificazione teologica al ritorno di nuove ingiuste servitù. Ad avallare un Potere che vuol rendere gli uomini automi, ovvero lavoratori ideali, perfetti schiavi.
Diceva Gregorio Magno che il potere è buono in sé, anche se a disporne è il diavolo. «Solo la volontà del diavolo è cattiva … il potere resta in sé buono e divino». Così, il lavoro diventerà un valore in sé assolutamente positivo, che solo la cattiva volontà dell’uomo può corrompere. In realtà, è vero il contrario: il lavoro è malvagio in sé e solo la buona volontà dell’uomo può introdurvi valori che lo giustifichino.
Alcuni teologi si sorprendono della reticenza dei Vangeli sull’argomento. Cristo non allude mai alla necessità o alla bontà del lavoro. San Paolo invece si fa un vanto di mantenersi col proprio lavoro. “Chi non vuol lavorare, neppure mangi”, ordina ai Tessalonicesi. Hyakujo, maestro zen dell’VIII secolo, gli fa eco: «un giorno senza lavorare, un giorno senza mangiare». Tuttavia non ricordo, nei testi canonici del buddhismo, alcun riferimento all’obbligo di lavorare.
Gli uccelli e i gigli non lavorano, dice Cristo. Dio si prende cura di loro. Alcuni dei primi monaci presero alla lettera queste parole e si affidarono a Dio per le loro necessità. La preghiera “dacci oggi il nostro pane quotidiano” sembra in effetti delegare al Padre l’onere del nostro sostentamento.
Se andiamo alla redazione greca, non troviamo però ‘quotidiano’ ma un termine misterioso – epiousion – che la Vulgata traduce supersubstantialem. Mutare ‘sovressenziale’ in ‘quotidiano’ comporta una caduta dal piano spirituale a quello delle realtà sensibili. Ancor più  se vediamo nel ‘pane’ il frutto del lavoro umano.
Il lavoro, e non la Grazia, diviene allora il nostro sostegno ontologico, ciò su cui poggia la nostra esistenza. E in un mondo in cui il lavoro si confonde col denaro, il nostro essere si identifica infine con le nostre disponibilità economiche. Il capitale diventa così parusia, essenza spirituale che si manifesta nel denaro, e il suo accumulo evoca un accrescimento metafisico.
Questo capitalizzare implica un’evidente mancanza di fede nella Provvidenza. Per questo durante i quarant’anni dell’Esodo si proibì agli Ebrei di fare scorta della manna che cadeva dal cielo. La raccolta in eccedenza al bisogno quotidiano “fece i vermi e imputridì”. Si condanna così il lavoro che travalica le necessità del presente. Anche Cristo rifiuta ogni forma di polizza sul domani: “Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?” ecc.
Il lavoro produce ansia e dispersione nella molteplicità degli enti («Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose»), disturba l’unità dell’Essere. Ma l’ora et labora di San Benedetto sembra poter armonizzare lavoro e contemplazione. Nella sua Regola leggiamo: «L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore». Alle ore canoniche della preghiera comune – “Ufficio divino” – si associa quindi un orario altrettanto canonico di lavoro o ufficio umano.
Benedetto si riferisce a semplici lavori agricoli o artigianali, infinitamente lontani dalle alienanti condizioni moderne. Il punto è che la pratica dell’orazione e quella del lavoro vengono poste su uno stesso piano, e l’assonanza dei termini – ora et labora – favorisce la loro assimilazione concettuale.
Così, dato che Paolo ordina di pregare incessantemente, senza stancarsi mai, parrà giusto imporre anche al lavoro tale condizione. Alla fine, i benefici visibili del lavoro appariranno più reali di quelli invisibili della preghiera; l’attività fisica più utile di quella interiore. E la Chiesa stessa vedrà con più favore le iniziative concrete, sociali ed economiche, che il misticismo e l’improduttiva contemplazione.
Oggi un’ideologia collettiva e omologante celebra il lavoro e ne enumera le virtù in una litania di luoghi comuni: ci emancipa dal bisogno, ci fa indipendenti, ci preserva dalle lusinghe dell’ozio, ci scioglie dai tentacoli della noia, realizza i nostri desideri. Il lavoro si fa così garante dell’etica e della felicità umana. Cresciamo nel culto di una sanità o santità sociale che promana dal lavoro. In una tale prospettiva, il lavorare non solo ci sfama, ma certifica la nostra virtù morale.
Ma il lavoro è anche tediosa routine, frustrazione e vizio. E ci vuol poco a capire che il suo scopo oggi non è liberare dai bisogni ma crearli. Solo una bolsa retorica può dire che arbeit macht frei. Il lavoro che altri ci pagano è in realtà dipendenza e prostituzione, indipendentemente dal fatto che qualcuno ne possa trarre piacere o guadagno. È l’effetto di un’intenzione paradossale: si vende la propria libertà per essere più liberi. E venderci significa fare di noi stessi, del nostro tempo e della nostra vita, un valore di mercato, merce che si può comprare.
È quindi assurdo dire che il lavoro nobilita. Un nobile poteva servire, ma non avrebbe mai accettato di lavorare. Servire non è essere schiavi. Si può servire un ideale, una nobile causa. Un guerriero, un artista, un monaco, uno scienziato, possono porsi al servizio di un Principio più grande di loro, senza per questo cessare di essere uomini liberi e padroni di sé. Questo servire ha anzi natura liberatoria, perché in esso l’uomo si realizza spiritualmente.
Ma oggi è il denaro ad arrogarsi tale funzione liberatoria. E se una volta le imprese erano atti eroici, nobili gesta, oggi sono solo associazioni per incrementare i profitti. L’idea, cui il calvinismo ha fornito basi religiose, di un legame tra ricchezza e virtù, in cui il guadagno è premio solido e visibile di meriti spirituali, ci induce a vedere nel lavoro ben retribuito una sorta di redenzione.
È così la mancanza di lavoro che diviene maledizione, colpa originale. Estinti gli antichi costumi cavallereschi, la borghesia pone il lavoro e il guadagno come pilastri di una nuova religione, teoricamente ispirata da idealistiche forme di altruismo e responsabilità sociali. Lavorare diventa così fondamento e vertice di un’etica ipocrita. I fumi dell’incenso borghese coprono il tanfo di lucrosi e disumani egoismi.
L’umanità del lavoro può forse sopravvivere in  piccole comunità. Ma nell’ipertrofica società moderna il lavoro è retto dalla competizione, da meccanismi produttivi totalitari, dall’usura. Non è espressione di solidarietà ma ricerca ascetica del profitto, estasi del capitale, esibizione dello status. I frutti del lavoro si disincarnano in entità astratte, numeri senza nesso con bisogni reali. Il Lavoro diviene libido inappagabile, èlan vital che spinge l’uomo verso un futuro infinitamente migliorabile, “cattivo infinito” che chiede incessantemente d’esser superato.
Il mito del lavoro si fonde così con quelli dell’evoluzione e del progresso. È lotta, selezione spietata, crescita indefinita, secondo il virgiliano “labor omnia vicit, improbus” – il lavoro ha trionfato su tutto con la sua incessante fatica. Così, con la presunzione di creare un mondo migliore, lo si distrugge. Sacrifichiamo il presente a un futuro immaginario, come quell’uomo sommamente pazzo di cui parla Leonardo, « che sempre stenta per non stentare, e la vita a lui fugge sotto speranza di godere i beni con somma fatica acquistati».
Non intendo certo incoraggiare il parassitismo sociale. So bene che tutto quello che ho dipende dal lavoro di altri, e che ognuno deve contribuire secondo le proprie capacità al benessere comune. So che il lavoro ha dalla sua ponderose ragioni. Ma dobbiamo impedire che, in una gerarchia dei valori, il lavoro prevalga sulla libertà. Che divenga una sorta di postulato intoccabile, di inconscio tabù, che appiattisce la vita su posizioni utilitaristiche.
Non si tratta solo di ridurre le ore di lavoro, come nelle città utopiche di Moro o Campanella, ma di sottrarre al lavoro quei vasti campi di senso e di valore che ha occupato nella nostra coscienza, a spese della libertà. Dovremmo capire che, come dice Wilde, “viviamo nell’età in cui la gente è talmente laboriosa da diventare completamente stupida”. Infatti, solo uno stupido potrebbe pensare che “il tempo è denaro” e che per tale ragione si debba passare questa vita facendo ciò che non ci piace, come vergini vestali consacrate al Dio del Lavoro.
So che questa critica è inutile. Perché il lavoro è uno dei nostri più radicati e inestirpabili idola mentis. Ha il volto di un Fato, di Legge ineluttabile cui non ha senso ribellarsi. L’uomo ha interiorizzato la sua schiavitù al punto di averne bisogno come di una droga. Dovremmo rinnegare la storia per credere in una vita senza lavoro, senza padroni, libera e gratuita, in solidale armonia con il cosmo e gli altri. Dovremmo rifiutare quei criteri scientifici ed economici, tra loro intimamente complici, che ci rendono sempre dipendenti da qualcosa, soggetti a condizionamenti d’ogni tipo. Dovremmo rovesciare il mondo con un’immane e impossibile rivoluzione.
Ma a me basterà l’anatema che punisce la disubbidienza al Dio Vaccino. Così, come Adamo fu scacciato dall’Eden e condannato a una vita di fatiche, io sarò espulso dal mondo del lavoro e condannato a una vita di ozio. La nuova maledizione abrogherà la vecchia e mi restituirà la libertà perduta.
Tuttavia, non ringrazierò chi mi fa questo involontario favore. Sarebbe come riabilitare Giuda per gli effetti salvifici del suo tradimento. La differenza è che in questi traditori dell’umanità non v’è spazio per il rimorso o il pentimento. Quindi non si impiccheranno.
Mi affiderò alla misericordia di Dio, come fanno, semplicemente e senza saperlo, bambini e animali. Esseri “meravigliosamente pigri”, come direbbe Lorenz. Creature libere, che non sentono alcun bisogno di lavorare, paghe del gioco divino della vita. Perciò, se lo slegassimo dalla ruota della macina, l’asino tornerebbe alla sua vera natura. A brucare i prati e a ragliare d’amore, contento di ciò che la Provvidenza gli dona.