G.P .: Marco Capovilla, di fronte ad un articolo di giornale, capita spesso che il nostro spirito critico si attivi, che della notizia mettiamo in discussione il contenuto, vuoi nella sostanza come nella esposizione o ci interroghiamo sulle fonti; o comunque è sulla parola scritta che si esercita la nostra attenzione. Oserei dire che è anche auspicabile ciò avvenga. Non accade la medesima cosa, al contrario – o perlomeno non con la stessa frequenza, - con la fotografia - sia che essa corredi l'articolo, sia che si presenti in una copertina o che faccia parte di una rassegna, o che si tratti di documento storico o altro. Eppure, la fotografia è eloquente per sua natura.. O, forse, e' proprio per la sua innata ‘eloquenza' che ci trae in inganno, senza che ce ne accorgiamo? M.C. : Per risponderti faccio riferimento ai tempi in cui nacque la fotografia. La fotografia nasce in un'epoca - la prima metà dell'800 - in cui per la stessa filosofia positivista che in quell'epoca nasce e progressivamente si impone si tende a dare un valore probatorio all'immagine. In questo senso la fotografia nasce come rappresentazione automatica della realtà, come meccanica trasformazione dell'immagine del mondo esterno in immagine bidimensionale. Per questo antico retaggio, mentre da un lato chiunque sarebbe portato a mettere in dubbio la veridicità di un dipinto, di un acquerello, o comunque di un'opera fatta a mano, dall'altro lato nessuno si sognerebbe - parliamo della seconda metà dell'800 - di mettere in dubbio la veridicità di una foto. E questa eredità – se teniamo conto di questa impostazione iniziale - arriva, pur con molti dubbi e incidenti di percorso, ai nostri giorni. Quindi, in questo senso, noi abbiamo una tendenza a riconoscere alla fotografia un valore di portatrice di verità.
G.P. In una recente conferenza, quella a Rota Imagna, al Seminario promosso dai giovani di FILCA - CISL, hai parlato di: “La manipolazione delle immagini: un secolo e mezzo di pratiche manipolatorie, nei regimi totalitari e nelle democrazie moderne”. La fotografia nasce nel terzo decennio del 1800 e con la fotografia – apprendiamo – nasce anche l'uso di distorcerne il senso con ritocchi , anche di qualità eccellente – mi è parso – pur essendo ai primordi della tecnica, Ricordo un esempio, abbastanza curioso: quello del fotografo che si ritrae ”annegato”. M.C. : Si', il 1839 rappresenta la data ufficiale di nascita della fotografia, perché è la data in cui l'invenzione viene presentata ufficialmente davanti all'Assemblea di Francia, quindi è una data che viene riportata dai giornali, dalle cronache del tempo. Sì, è Hippolyte Bayard colui al quale tu fai riferimento nella tua domanda sulla foto di un personaggio. Che propone questa bizzarra fotografia: Hippolyte Bayard, appunto, (che ricordiamo propone tale foto nel 1840, quindi nell'anno successivo alla nascita ufficiale della fotografia) titola quella immagine: ”self portrait as a drowned man”, autoritratto di me stesso annegato. Ecco, in questo io ravviso già, da un lato il sarcasmo di questo personaggio il quale è in grado di prendere in giro il senso stesso della fotografia, dall'altro la contraddizione che la fotografia si porta dentro, vale a dire: la fotografia può dire tante cose e fino a che non viene ancorata ad un testo tutte queste cose le può dire quindi ciascuno ci può leggere tutti significati che vuole. Quando le parole gli creano un contesto quindi un senso ben delimitato, ancorato ad un tempo, ad un luogo, a delle persone, la fotografia può assumere dei significati piu' precisi. Ecco, in questo senso Hippolite Bayard mette in dubbio persino questo, vale a dire (propone) una fotografia che in sè potrebbe dire alcune cose, un testo che in questo caso è contraddittorio rispetto al senso stesso della fotografia, queste due cose automaticamente diventano non credibili. Quindi la fotografia in questo senso viene utilizzata proprio per smontare quel senso di fiducia che noi diamo alla fotografia medesima: non esiste la possibilità di un morto che si fa un autoritratto, mentre qui viene proposta proprio la foto di una persona che si fa un autoritratto
G.P. Non datano solo dall'inizio della fotografia le manipolazioni di documenti e reperti. Così come, facendo un salto in avanti nel tempo, all'inizio della tecnologia digitale, l'uso della manipolazione si fa frequentissimo e sofisticato, hai fatto molteplici esempi… salvo poi accorgersi - quando una testata giornalistica o un fotografo vengono sorpresi dai fruitori della immagine - del gravissimo danno subìto e prendere drastici provvedimenti o fare dichiarazioni altisonanti di ammenda. Hai ricordato il famoso incidente di National Geographic. M.C. Questa tua terza domanda ci porta, con un salto temporale di quasi centocinquant'anni, all'inizio della fotografia digitale, nel corso degli anni ‘80, con i primi esperimenti pionieristici: hai citato la copertina del National Geographic del 1982 in cui si vedono le piramidi egizie di Giza in una fotografia leggermente cambiata rispetto all'originale. E' diventata famosa quella copertina. Nella foto, i cammelli con i beduini che transitano davanti alle piramidi vengono spostati digitalmente, vale a dire vengono presi, cancellati dalla loro posizione originale e spostati in un'altra posizione. Per chi la guarda, è come se la foto fosse stata vista da un altro punto di vista oppure se fosse stata fatta qualche minuto prima o qualche minuto dopo, aspettando che i cammelli si siano spostati nella posizione in cui vengono presentati. Di fatto, per una rivista come National Geographic, che fa riferimento alle radici più nobili del fotogiornalismo, quindi alla fotografia documentaria che “in presa diretta” ci testimonia la realtà, è un brutto momento: è il momento di una potenziale brusca virata, vale a dire : “non vi raccontiamo più la realtà come ce la riportano i nostri testimoni oculari sul campo, bensì ve la ricreiamo noi in redazione”. Rispetto a questo scivolone del 1982, il National Geographic si guarda bene dal ricascarci in seguito perché il suo pubblico ripone molta fiducia nelle immagini che vede, quindi non si può rischiare di tradire la fiducia del pubblico in quanto, come ricordavo anche nel corso della mia chiacchierata con i giovani della Cisl a Rota Imagna, le aziende editoriali sono aziende soggette alle regole del mercato come le altre, quindi devono produrre dei profitti e quindi inevitabilmente debbono conquistare e mantenere la fiducia del pubblico. Se il pubblico ritiene di essere stato preso in giro rischia di abbandonare il prodotto, se abbandona il prodotto anche i profitti tendono a diminuire. Quindi il pubblico va attentamente ascoltato, coccolato e conservato, va mantenuta la sua fiducia attraverso un prodotto editoriale che questa fiducia la meriti. In questo senso le fotografie non possono permettersi il lusso di essere truccate in una rivista come il National Geographic.
G.P. E poi hai mostrato quel singolare documento o reperto, di tantissimo tempo fa, anch'esso un falso. M.C. Si, molto lontano nel tempo…Il documento che io ho presentato è in realtà una lapide scolpita che risale a circa metà del secondo millennio avanti Cristo, circa il 1500 avanti Cristo: è opera di sacerdoti, scribi che vivevano alla confluenza tra il Tigri e l'Eufrate - siamo ancora nell'antica Babilonia – e questi sacerdoti avevano retrodatato quella lapide: la attribuivano, senza che nessuno potesse mettere in dubbio questa affermazione, ad un periodo precedente di circa 700 anni cioè al 2200 a.C. Questo perché? Perché in questa lapide c'era scritta, diremmo nero su bianco ( ma in realtà addirittura scolpita), la lapidaria testimonianza per cui il loro monastero aveva avuto diritti sul territorio fin dal 2200 a. C. . Retrodatavano quella pietra di 700 anni per convincere chiunque avesse dei dubbi sulla loro legittimità a riscuotere le tasse dal territorio circostante: si voleva far credere insomma che quella consuetudine era una tradizione ormai consolidata, che erano 700 anni che ciò avveniva. Chi poteva avanzare dubbi che ciò fosse vero? E, sulla stessa lapide scrivevano: “e questa è la pura verità, chiunque lo metta in dubbio verrà colto da orribili malanni”, da non so quali maledizioni. E' un documento, questo, in cui appare una mescolanza d'uso di scrittura e ideogrammi, di caratteri sumeri e cuneiformi, e sappiamo che in quell'epoca questo documento doveva avere certamente importanza anche se non altro per il suo aspetto, come dire solido e indiscutibile. Questo per citare un documento molto antico: quindi, in questo caso, era un falso creato appositamente a tutto vantaggio della comunità monastica che l'aveva creato, per potersi assicurare un introito da parte dei locali.
G.P. …ed è stato presentato ad una mostra sui falsi.. M.C. Sì, questa era una mostra sui “falsi” che è stata presentata alla fine degli anni '80 al British Museum di Londra e che è stata poi raccolta in un volume del 1990 che si chiama “Fake”, che in inglese vuol dire appunto “falso”. ‘L'arte del falsificare, del frodare” “The art of deception”. Ma, per citare fatti più vicini relativamente a noi, in piena epoca fotografica - potrei citare gli esempi principe, le manipolazioni fotografiche dell'era staliniana , usate per eliminare i nemici politici: il nemico numero uno è stato sempre Trotzki e quindi è lui - come le correnti politiche vicine a lui - che sono state cancellate da qualunque documento fotografico, anche se in origine Trotzki essendo stato uno dei leader della rivoluzione bolscevica appariva sempre: egli appariva come una delle personalità di maggiore spicco e rilievo accanto a Lenin. Il fatto che sia stato successivamente cancellato nei ricordi storici e nei ricordi fotografici, dà misura di quanto importante fosse la sua cancellazione anche dal punto di vista della costruzione dell'immaginario.
G.P. Vorrei tu facessi un accenno all'uso piu' recente, ad esempio la deformazione che si fece sul settimanale Time del viso della nipote del magnate dell'editoria americana W.R. Hearst, che negli anni '70 fu protagonista di una vicenda che fece enorme scalpore . M.C. Si', Patricia Hearst, allora ventenne, nel 1974 fu rapita a scopo di estorsione dall' Esercito di Liberazione Simbionese, un gruppo armato della sinistra radicale, che vedeva nella possibilità di ottenere il pagamento di un riscatto un legittimo canale di autofinanziamento. Senonché, inaspettatamente, la Hearst in poche settimane si convinse (qualcuno ha riconosciuto in questa conversione un tipico caso di “lavaggio del cervello”, altri hanno creduto di riconoscere gli effetti della cosiddetta “Sindrome di Stoccolma”) della validità delle finalità dei suoi rapitori, di cui iniziò a seguire le azioni criminose, partecipando a rapine e delitti con lo pseudonimo di Tania. Quando fu arrestata, un anno dopo, la foto segnaletica della polizia fu utilizzata da molti giornali, tra i quali il settimanale Time, che la trasformò, rielaborandola in camera oscura fino a sfigurarne i tratti e a farle assumere una chiara sembianza di persona “incapace di intendere e di volere”, o alternativamente “sotto l'effetto di sostanze stupefacenti”. In ogni caso, la foto fu ritoccata pesantemente, snaturandola in maniera assai vistosa. Però, forse, ancora più significativo dal punto di vista politico fu la falsificazione della faccia di Saddam Hussein con i baffi contraffatti.
G.P. quale rivista fece questo? M.C. Si trattava della rivista New Republic che è un settimanale conservatore statunitense che ha molto sèguito.
G.P. Questo nei primi anni ‘90 M.C. Sì, la copertina data 1990, il periodo immediatamente antecedente la prima guerra del Golfo. In quella foto, (allegato foto) Hussein vien ritratto con i baffi alla Hitler e c'è un titolo: “Furor in the gulf” , che in inglese suona, se pronunciato correttamente, molto simile o addirittura uguale alla parola “Fürer”, nel senso di Hitler.
G.P. Dal tuo punto di vista, ritieni più grave, più di impatto disinformativo, per così dire, la parola scritta giornalistica o l'uso di un' immagine? M.C. Mi chiedi cosa sia piu' grave, se truccare la foto o il truccare le parole. Io credo che prima di tutto sia utile ricordare che parole e immagini hanno percorsi diversi nella nostra percezione del mondo esterno. Mi verrebbe da rispondere che ha maggiore gravità truccare le immagini perché l'immagine viene a contatto ed interessa il lato più vulnerabile dei nostri processi cognitivi. Dico piu' vulnerabile perché la sua prima decodifica non interessa tanto l'aspetto analitico e razionale quanto l'aspetto emotivo e affettivo, per il modo in cui il cervello elabora le immagini. Naturalmente non dobbiamo vedere il cervello come una scatola suddivisa in maniera cosi' impermeabile tra settori che tra loro non comunicano; sarebbe pertanto ingenuo pensare che quella fetta del cervello elabori immagini e non comunichi con gli altri settori. Ci sono infatti mille interconnessioni per cui la nostra percezione emotiva e affettiva da un certo punto in avanti si interfaccia anche con l'emisfero che elabora le informazioni di tipo più razionale e analitico. Di sicuro quello che è certo è che, prima di arrivare al vaglio più razionale e analitico alcune immagini sono già arrivate alla nostra sfera emotiva e quindi in questo senso una foto falsa è un elemento dell'informazione che ha un impatto maggiore rispetto a un articolo soltanto scritto che ricostruisca in maniera falsata alcune realtà. Quindi, volendo raggiungere l'obiettivo di travisare una qualche realtà, l'utilizzo di immagini false garantisce una maggiore efficacia in termini di immediatezza ed intensità della risposta emotiva. Si ottiene un impatto più immediato. Anche perché in un certo senso – questo lo dimostrano anche delle indagini presso un pubblico di lettori adulti di giornali - normalmente viene data scarsa credibilità a ciò che viene scritto nei giornali, ma difficilmente viene messa in dubbio la veridicità delle immagini; quindi, in questo senso si tratta davvero di giocare sporco. Si tratta di andare a contraffare un'area dove invece maggiore è la fiducia da parte del lettore in ciò che vede: non la voglio chiamare creduloneria, lo definirei un settore dove minori sono le difese maturate dai lettori nei confronti di potenziali menzogne. Un esempio relativamente recente di questo genere di “giocho sporco” potrebbe essere quello del quotidiano Daily Mirror inglese, che ha pubblicato in copertina la foto di un soldato britannico che urina su un iracheno ammanettato e incappucciato. La foto è stata diffusa nei giorni immediatamente successivi allo scandalo delle torture nella prigione di Abu Ghraib, in Iraq, ma si trattava di un plateale falso. Tre giorni dopo, ammettendo l'errore e scusandosi con i lettori, il direttore del popolare tabloid inglese era costretto a dimettersi.
G.P . …e quindi mi sembra tu confermi la tesi iniziale con quel tuo mi verrebbe da dire che è piu' grave falsificare le immagini. L'attività di Megachip vuole essere soprattutto quella di decodificare – se il termine è esatto – l'informazione giornalistica, sia quella scritta, sia per quanto riguarda l'immagine. La strada da seguire e' la sensibilizzazione alla consapevolezza che non è ‘oro colato' quanto si vede o legge. Ma, prima di arrivare a questa consapevolezza, si prendono grossi abbagli. E capita che noi stessi, pur muniti di volonteroso spirito critico, non ci accorgiamo di falsificazioni grossolane. Tu hai ricordato, ad esempio, l'incidente giornalistico in cui è incorsa ‘Repubblica' recentemente, pubblicando, all'interno di un articolo sui deportati diretti ad Auschwitz, una foto di un treno d'epoca in cui si distinguevano invece persone sorridenti, rilassate, eleganti e ben vestite, col rischio di costruire una memoria storica distorta e anzi totalmente falsa di quella vergognosa pagina di storia recente. Io probabilmente avevo visto quella pagina e non ci avevo fatto caso, questo perché si è più portati a mettere in discussione un testo scritto rispetto alle immagini e non si è abbastanza attenti. Quali suggerimenti si possono dare a chi si accosta alla lettura e alla visione dei giornali? Come leggere un'immagine che correda un articolo? Con quale tipo di attenzione? M.C. Qui c'è un problema di fondo e riguarda il nostro modo di fruire delle immagini giornalistiche. Ricordando, appunto, l'incidente, chiamiamolo così, della foto dei deportati su Repubblica, mi sentirei di dire questo: io ricordavo - io che sono un esperto di fotografia, un addetto ai lavori - ricordavo di aver visto quella foto e, nonostante l'avessi vista e nonostante avessi in maniera subliminale notato che c'era qualcosa che non mi tornava, non sono arrivato al punto di soffermarmi, guardarla con attenzione, e decidere che era stata pubblicata una foto palesemente fuorviante. Cosa che invece ho fatto a seguito della pubblicazione della lettera che chiedeva maggiore attenzione da parte della Redazione. Mentre noi, quando sfogliamo un giornale – uso la parola sfogliare perché direi che è la modalità con cui la maggior parte di noi si rapporta con la carta scritta – dicevo: mentre quando noi sfogliamo un giornale, se decidiamo di dedicare del tempo, lo dedichiamo sicuramente agli scritti, raramente decidiamo di dedicare del tempo a ogni singola immagine; le immagini più che altro sono dei promemoria dell'argomento di cui vogliamo parlare o sono dei rafforzativi dell'argomento di cui si parla nell'articolo, ma raramente nelle immagini noi cerchiamo delle informazioni indipendenti rispetto a ciò che dice il testo. Al massimo, cerchiamo, o delle conferme o dei promemoria. Allora, questo è un cane che si morde la coda e i giornali- parlo di quelli italiani in particolare - utilizzano le immagini in questo senso e per questo motivo difficilmente noi dedicheremo del tempo alle immagini in quanto, in genere, non ci portano nuove informazioni.
G.P. Questo potrebbe in un certo senso sminuire l'impatto che l'immagine, il tipo promemoria di cui tu parli, ha sulla nostra mente. Ma, quanto tu dici mi fa pensare che ben diversa sia la situazione nella stampa estera. E' cosi'? M.C. Sì, altrove, più spesso che in Italia, le immagini fossero delle indipendenti fonti di informazione per noi, allora noi dedicheremmo del tempo anche per “leggere le immagini” invece che soltanto per ‘buttarvi un occhio'. In questo senso, finché noi non avremo dei giornali nei quali vengano utilizzate delle immagini molto “ricche di significato” quindi che hanno bisogno di tempo per esser lette e avremo invece giornali che come adesso utilizzano soltanto dei - non so come chiamarli – “promemoria” per intendere quelle foto che non hanno niente di nuovo effettivamente da dirci ma ci ricordano visivamente l'argomento di cui stiamo parlando; finchè i giornali saranno in questo modo, anche il nostro esercizio critico non verrà più di tanto sollecitato. E quindi ci limiteremo sempre a questa lettura un po' distratta e un po' ingenua e in cui dalle immagini non ci aspettiamo molto.
G.P. Infatti. Non per niente tu dicevi: di fronte a una immagine che correda un articolo, dobbiamo porci delle domande: hai posto delle sollecitazioni . M.C. Ecco le cose che dovremmo chiederci: le domande che deve farsi chiunque di fronte a un mezzo di comunicazione di massa; sono le domande di base per un approccio critico, non soltanto alle immagini, ma all'insieme delle componenti di quel mezzo di comunicazione. La prima domanda è: 1 chi comunica cosa e perché - 2 di che genere di testo si tratta - 3 con che tecnologie è stato realizzato questo testo - 4 In che modo il fruitore capisce che cosa si sta dicendo in quel testo, cioè quali sono gli strumenti con cui analizza questo testo - 5 Chi riceve questo testo che significati gli dà? Io te e mille altre persone siamo di fronte a questa immagine o a questo testo. Che significati gli diamo? Ciascuno di noi gli darà un significato che è basato sulla propria esperienza - 6 e infine: come viene rappresentata la realtà in questo testo? cioè in quale modo? E poi, se vogliamo, possiamo anche aggiungerci: 7 - quali sono le condizioni materiali che hanno reso possibile la rappresentazione della realtà in questo testo. Faccio un esempio: vedo la foto delle persone bombardate a Cana e specificamente la foto del padre che mostra il bimbo ferito. La prima cosa da chiedersi non è che cosa vedo nella foto ma chi è stato lì e quando c'è andato; chi l'ha mandato e quali sono le intenzioni di chi l'ha mandato e di chi sta facendo le foto. Allora, se io mi chiedo questo, io quella foto non la guarderò più come se fossi affacciato a una finestra e stessi guardando la realtà. La guardo già filtrata attraverso il setaccio della mia consapevolezza critica: sono consapevole che quella foto è stata fatta da una persona che è dovuta arrivare lì, e mi chiedo: chi ce l'ha mandata? con che permessi è arrivato? per chi lavora? quali sono le sue intenzioni? quale e' il suo background? quale è la sua storia personale? è obiettivo? non è obiettivo? Sta parteggiando per qualcuno? In questo senso ce lo dovremmo chiedere sempre queste domande, per evitare di pensare che i giornalisti in giro per il mondo siano una finestra aperta sulle realtà che, essendo lontane, io non posso vedere. Non solo non si tratta di una finestra, la cui caratteristica dovrebbe essere la neutralità e trasparenza assolute, ma sono un filtro e i filtri danno il loro apporto personale, la loro interpretazione, comunque.
G.P. Certo, non è facile accettare tutto questo, da semplici utenti della informazione e non esperti; perché, per esempio io posso comprendere, con l'attenzione che tu hai indirizzato nel presentare quel giorno a Rota Imagna , le foto riferentisi al Libano, (in cui con un minimo di attenzione in piu, guidati, si poteva notare il “raddoppiamento” delle colonne di fumo provocate dall'incendio, ad esempio) (chiedere foto) , ma comprendere non vuole dire non essere delusa e fortemente preoccupata, quando, oltre alla consapevolezza dell'attenzione che si deve dedicare al testo scritto, ci si accorge che altrettanta ne dobbiamo dedicare alla immagine. Noi siamo proprio indifesi di fronte alla carta stampata. M.C. Siamo indifesi. A volte l'unico modo, anche per una persona competente, che parte già con adeguati strumenti di valutazione, per i cosiddetti esperti, che decostruiscono, che cercano di capire come si e' arrivati ad una certa rappresentazione di una certa realtà, l'unica possibilità è utilizzare molteplici fonti. Quindi, se tu comperi un giornale e vedi quella foto, probabilmente hai l'idea che quella foto è LA RAPPRESENTAZIONE della realtà. Se tu hai la possibilità di consultarne tre o quattro, di testate, già questo ti dà un'idea diversa perché se tu vedi – come in questo caso – la foto della stessa persona, con lo stesso bambino, che viene portato in giro in varie parti della stessa città, allora tu ti rendi conto che - pur nella comprensibile disperazione che può aver avuto una persona che il cui figlio è stato ferito o ammazzato – questo “fare una parata' in giro per la città col bambino morto, evidentemente, a un certo punto, diventa una strumentalizzazione dei media, vale a dire, diventa un manifesto, un imporre ai media quello che si vuole che raccontino. E i professionisti dei media devono stare attenti a non farsi strumentalizzare dall'una o dall'altra parte. Non possono fare da megafoni dell'una o dell'altra parte, devono essere in grado di tenere la propria equidistanza e la propria indipendenza rispetto alle parti in causa. Questa impone qualsiasi codice deontologico della professione, questo è scritto su tutti i codici etici dei giornalisti, delle testate, degli editori di giornali.
G.P. (…) … Sarebbe estremamente interessante poter approfondire in seguito tutti questi elementi; perchè ci si potrebbe chiedere, ad esempio, come mai in determinate circostanze tutte le testate di qualsiasi colore presentino la stessa immagine. E tu avevi spiegato che, come nella occasione di cui abbiamo parlato, è stato perché tutti si sono serviti dalla stessa agenzia di stampa e, quando avviene, se ne servono tutti perché ritengono che sia - quella immagine - quella che rappresentava meglio una determinata giornata. Quello che mi viene da dire dopo la tua esposizione è che diventa sempre più essenziale portare avanti quell'opera di sensibilizzazione alla immagine, come si sta facendo, per citare due esempi importanti in area lombarda, per noi di Megachip, con l'opera nelle scuole superiori dell' Accademia della Pace istituita dalla Provincia di Milano. M.C. Si', oltre che con l'altra iniziativa di ‘Educazione ai Media', come avviene a Cinisello già da due anni, e a Cesano Boscone e a Paullo, molto probabilmente, a partire da quest'anno. In questo caso, la prima esperienza nelle scuole partirà a breve, nel corso del presente anno scolastico.
G.P. Tu, Marco, sei docente allo Iulm di fotogiornalismo. Quanti sono gli alunni che seguono i tuoi corsi? M.C. Sono 15, è un numero chiuso che ha deciso l'Ordine dei Giornalisti. Ogni scuola di giornalismo – e lo IULM è una della decina di corsi di giornalismo in Italia, riconosciuti dall'Ordine dei Giornalisti - ha un massimo di studenti perché le strutture devono essere in grado poi di offrire agli studenti tutto quanto occorre: devono avere la redazione interna, nella quale c'è un giornalista professionista che ogni pomeriggio fa lezione di redazione, poi devono avere l'equipaggiamento per fare la radio, per imparare a fare la tv e devono avere la possibilità di fare un giornale mensile. Ogni scuola quindi deve avere tutte queste strutture funzionanti, al di la' poi delle lezioni teoriche, perché è una scuola sia teorica, sia pratica. Sono quindici ogni anno in un Master che dura due anni.
G.P. Ti ringrazio, Marco. Permettimi ancora una considerazione. E' diventato difficile, per me, guardare una fotografia pubblicata su di un giornale, dopo che da te ho avuto queste informazioni. Ma certamente le guarderò facendo quell'esercizio di attenzione e analisi che tu indichi, d'ora in poi! Mi faccio una ragione, poi, del perché le foto promemoria (mi sembra molto calzante questa definizione) le foto che ogni giorno mi raggiungono dal quotidiano di turno, mi abbiano sempre dato una specie di fastidio, dire che sono un continuo deja vu puo' rendere l'idea. E del perché non mi dicano niente. Volendo insistere nell'analizzare il fenomeno della falsificazione si può pensare che molti reperti anche video dei nostri tempi sono truccati, si può pensare che siamo fortemente manipolati . E' un sospetto che direi salutare, mi sembra. Potremmo parlarne ancora, se vorrai.
da www.lombardia.megachip.info
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