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La memoria vale per tutti

di Marcello Veneziani - 26/01/2025

La memoria vale per tutti

Fonte: Marcello Veneziani

Non prendetevela con la giornata della memoria per quel che sta succedendo in Medio Oriente: gli errori e gli orrori di Israele non c’entrano con la memoria dello sterminio degli ebrei. Le colpe del presente non ricadano sul passato, e viceversa. Gli italiani in larga parte condividono l’orrore per la shoah e per la persecuzione razziale, ne rispettano la memoria. Ma quando vedono ogni altra memoria cancellata e relativizzata, ogni altro orrore rimosso e archiviato, ogni altro evento storico dimenticato; quando la Memoria è monopolio esclusivo di quell’evento nella storia dell’umanità; quando perfino la ricerca storica è condizionata da leggi speciali che obbligano il giudizio e vietano ogni revisione; quando Auschwitz prende il posto della Croce e del Venerdì Santo, e quando vedono che qualcuno vi specula – lo storico ebreo Norman G. Finkelstein denunciò “l’industria dell’olocausto” e il suo sfruttamento – il disagio può sconfinare nell’insofferenza. Non per la Shoah, ma per la sua rappresentazione e per la speculazione che si imbastisce sulla pelle di tante vittime. Un fastidio represso perché se solo ne accenna, si passa per un negazionista.

Col tempo la Memoria della Shoah aumenta anziché attenuarsi: oggi è più ossessiva di 50 anni fa. L’alibi è lo stesso: attenti, sta per risorgere il nazismo… C’è sempre un piccolo episodio, una piccola idiozia che fa gridare al suo ritorno. Non c’è telegiornale, non c’è palinsesto, non c’è film storico, non c’è gita d’istruzione che non contempli la grande risonanza a quell’evento. Spariscono gli orrori del comunismo, sparisce la storia dell’uomo nei secoli e ogni altro avvenimento, anche positivo; resta come una specie di religione dell’umanità il culto di quella sola memoria.

Solo per limitarci a quegli anni, l’umanità visse tre immani tragedie, ciascuna a suo modo unica: il lager, il gulag e la bomba atomica. Tre mali radicali che massacrarono innocenti. I gulag furono i primi, durarono decenni, sterminarono di più e non in tempo di guerra. Ma il Male Assoluto, oggi, è solo il primo.

Giusto e onesto è criticare il monopolio della memoria e l’abuso, politico, ideologico, mediatico e perfino commerciale che se ne fa.

Ho letto con ritardo Se questo è un uomo e La Tregua di Primo Levi, e vorrei parlarne senza ipocrisia. Mi hanno toccato profondamente. Non le ho rilette, come di solito si dice, ma le ho lette per la prima volta, superando il rigetto che provo quando una lettura è obbligata e molto strumentalizzata. Ma rilette al di fuori di quel cono mediatico ed enfatico acceso giorno e notte, come il fuoco di Vesta, rilette cioè ad altezza d’uomo, con mente e cuore aperti, sono di struggente umanità.

Ognuno la legge con la sua personale sensibilità. Sono stato toccato in particolare da due cose che di solito passano in secondo piano: il suo pensiero del ritorno e la sua nostalgia della casa, dell’Italia, degli italiani.

“Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno” scrive Levi mentre lo deportavano e passando il Brennero figurava “l’inumana gioia” del passaggio inverso, in libertà, verso l’Italia, coi “primi nomi italiani”. Un’altra volta nel lager, sentendo passare un treno e sibilare la locomotiva, Levi sognò il treno del ritorno a casa: “sentirei l’arie tiepida e odore di fieno, e potrei uscire fuori, nel sole: allora mi coricherei a terra, a baciare la terra, col viso nell’erba. E passerebbe una donna e mi chiederebbe: “Chi sei?, in italiano, e io le racconterei, in italiano, e lei capirebbe e mi darebbe da mangiare e da dormire”. “In italiano”, ripete, con una densità evocativa del tutto priva di retorica.

Poi ne La tregua, Levi racconta la nostalgia come “una sofferenza fragile e gentile, essenzialmente diversa, più infima, più umana delle altre pene che avevamo sostenuto fino a quel tempo: percosse, freddo, fame, terrore, destituzione, malattia. E’ un dolore limpido e pulito, ma urgente; pervade tutti i minuti della giornata, non concede altri pensieri, e spinge alle evasioni”. E la voglia di raccontare, il veleno di Auschwitz dentro le vene, quei versi memorabili: “Sognavamo nelle notti feroci/ Sogni densi e violenti/ Sognati con anima e corpo/Tornare; mangiare; raccontare”. In quei tre verbi è riassunta non solo la speranza di chi è internato nei campi (non solo nazisti) ma anche di ogni agognato ritorno: il cammino a ritroso è spinto dalla fame originaria del cibo di casa, le pietanze della madre nell’infanzia, il pane condiviso coi famigliari e i commensali (compagni da cum-panis, non in senso politico). E raccontare, perché solo dicendo, condividendo, è possibile sgravarsi da quell’immane peso. Levi parlava di ritorno, non di esodo, parla di casa e d’Italia non di terra promessa.

Levi era stato balilla e avanguardista, proveniva da una famiglia blandamente fascista, suo padre indossava la camicia nera; poi arrivò la feroce demenza delle leggi razziali e lui diventò antifascista. Giustamente. Il suo capolavoro, Se questo è un uomo, dapprima rifiutato da Einaudi, fu pubblicato dall’editore de Silva. È il canto dolente di ogni uomo di ogni tempo, terra e razza. E racconta il male patito da ogni uomo che abbia sofferto un’analoga deportazione, mortificazione e rischio di eliminazione finale. Se parla all’umanità intera non può che raccontare il male universale e non uno, esclusivo, unico, assoluto. Sconfiggere il razzismo significa rispettare non solo l’uguaglianza dei diritti ma anche le differenze. Gli ebrei non sono stirpe eletta né maledetta. Sono persone come noi, a volte migliori, a volte peggiori di noi.