La Modernità abolisce la morte
di Massimo Fini - 03/09/2024
Fonte: Massimo Fini
Nei giorni scorsi è morta a 117 anni e 168 giorni Maria Branyas Morera, giapponese e il testimone, se così si può dire, è passato a Tomiko Itooka, anch’essa giapponese che, allo stato, ha 116 anni. Non è una novità, il Giappone è uno dei paesi con la popolazione più vecchia del mondo e condivide con l’Italia il sinistro primato della denatalità con un tasso di nati per donna di 1,25 mentre il Giappone è all’1,30 e per raggiungere un pareggio demografico sarebbe necessario un tasso di natalità un poco oltre il due. E questo è un problema che riguarda l’intero mondo occidentale.
E’ tornato all’onor del mondo il dibattito sull’Eutanasia (il termine è stato coniato da Bacone e significa “il diritto alla buona morte” cioè alla morte naturale) che si sperava superato. I cattolici sono contrari all’Eutanasia perché ritengono che l’essere umano è proprietà di Dio e quindi spetta solo a Dio, a suo imperscrutabile giudizio, togliere la vita. In campo laico la Corte Costituzionale ha affermato che “il diritto alla morte non è neppure invocabile” e infatti il radicale Marco Cappato è incorso in guai giudiziari per aver accompagnato in Svizzera, dove l’Eutanasia è lecita, persone che avevano deciso di farla finita (io sono ovviamente favorevole all’Eutanasia, ma non sceglierei mai di fare questo lugubre viaggio, con le prevedibili angosce che provoca, meglio un colpo di pistola, più risolutivo).
Nel campo della ricerca medica è stata attivata la sperimentazione di uno speciale vaccino contro il cancro ai polmoni, chiamato BNT116 (mai che gli diano un nome umano). Al candidato vengono fatte sei iniezioni ogni cinque minuti. Se sopravvive è già un buon segno. Ma, a parte queste mie trucide facezie, di cui mi scuso, la ricerca è importante perché in Italia, dati al 2022, di cancro ai polmoni sono morte 33 mila persone.
Da che cosa sono legati questi punti? Dall’atteggiamento che la società contemporanea ha nei confronti di quel che il mio amico Giulio Giorello chiamava “i nuclei tragici dell’esistenza”, cioè il dolore, la vecchiaia, la morte. Scrive Max Weber nell’Intellettuale come professione che è del 1918 dove il grande sociologo anticipa temi che diventeranno poi di scottante attualità: “La scienza medica non si pone la domanda se e quando la vita valga la pena di esser vissuta. Tutte le scienze naturali danno una risposta a questa domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Ma se vogliamo e dobbiamo dominarla tecnicamente, e se ciò, in definitiva, abbia veramente un significato, esse lo lasciano del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro fini”. Nelle parole di Weber affiora la prima, e forse la più grave, tabe della Modernità: la pretesa di voler dominare tecnicamente la Natura. In questo modo, pretendendo di dominarla, noi ci siamo allontanati progressivamente dalla Natura. Anche i Greci, grazie ai loro grandi filosofi e matematici, da Archimede a Filolao, avrebbero potuto dominare la Natura costruendo macchine molto simili alle nostre (almeno fino al digitale che ha spostato ancora più in là l’orizzonte) ma vi rinunciarono. Lo dico nei loro termini: l’hybris dell’uomo provoca la phtonos Theòn, l’invidia degli Dèi e quindi l’inevitabile punizione.
Ma torniamo ai “nuclei tragici”. La vecchiaia si può evitare filandosela al momento opportuno, anche se poi quando si presenta questo momento ogni scusa è buona per rimandare. Al dolore, quando non sia sentimentale, in questo caso non c’è niente da fare (“d’amore non si muore, sarà anche vero, ma quando ci sei dentro, non sai che fare” Giorgio Gaber, Porta Romana, 1972) ma sia una malattia del corpo si può far fronte, anche se ogni parte del corpo umano dall’alluce al mignolo è predisposta a rompersi, del resto non ci sarebbe l’invecchiamento se il corpo non fosse destinato a deteriorarsi progressivamente. Certo si può tamponare una falla del corpo, ma quasi subito ne nasce un’altra, e i rimedi devono essere continuamente aggiornati, la storia dei vaccini è emblematica in proposito.
Comunque, dimentichi di Weber, noi moderni facciamo di tutto per allungare artificialmente la vita. Un ruolo fondamentale ha quella che viene chiamata comunemente “prevenzione” e che io definisco invece “terrorismo diagnostico”. Noi, anche da giovani, dovremmo fare almeno una mezza dozzina di controlli clinici l’anno. Insomma dovremmo comportarci da malati quando siamo ancora sani, da vecchi quando siamo ancora giovani. In realtà nella nostra società non ci sono più vecchi perché l’ignominia viene mascherata col linguaggio e quindi non si parla più di vecchi ma tartufescamente di “quarta età” ed è ipotizzabile che in futuro si arrivi alla “quinta” o alla “sesta” e ad altre iperboli. Insomma per raggiungere l’agognata vecchiaia dovremmo rinunciare a vivere. E’ logico: è vivere che ci fa morire.
Questa società è la prima ad aver scomunicato la morte tanto che se ne parla il meno possibile (della morte biologica intendo, quella violenta appartiene ad un’altra sfera). E’ la morte “il vizio che non osa dire il suo nome” di elisabettiana memoria dove però il “vizio” era la pederastia o l’omosessualità.
Questa scomunica della morte ha avuto come inevitabile conseguenza una paura della morte sconosciuta a buona parte delle società che ci hanno preceduto. Ma, siccome, nonostante qualche dilazione, si continua a morire, questa paura diventa parossistica. E con la paura della morte addosso si vive male. Dice il vecchio e saggio Epicuro “muore mille volte, chi ha paura della morte”.