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La necessità di un programma antiliberale (2^ parte)

di Roberto Pecchioli - 21/11/2024

La necessità di un programma antiliberale (2^ parte)

Fonte: EreticaMente

Per animare un programma non liberale occorre innanzitutto sottrarre al mercato – ossia agli immensi conglomerati privati che lo dominano- il controllo delle reti di comunicazione, delle grandi infrastrutture, della salute pubblica, di risorse come l’acqua e l’energia. Sono monopoli pubblici naturali da ripristinare, esattamente come le politiche di investimento a lungo termine (è sufficiente riscoprire Keynes) nella casa, nel ripristino di una sicurezza sociale sostenibile, nella ricerca, nella custodia dell’ambiente. Vasto programma, certo. Ma se non si inizia, se non si ha un pizzico di utopismo, se non si ragiona in termini di futuro, di amore per la propria gente, se non si gettano cuore e cervello oltre gli ostacoli, continuerà la corsa verso il basso. Essere è difendersi, e noi dobbiamo difendere il popolo, a partire dalla volontà di non farlo estinguere con folli politiche che favoriscono la denatalità e aprono indiscriminatamente le frontiere.
Alle classi alte piace il cosmopolitismo, a loro conviene il mondo senza confini. Tutti gli altri hanno bisogno di una patria, di un radicamento . Per Martin Heidegger tutto ciò che è essenziale e grande è scaturito dal fatto che l’uomo aveva un focolare ed era radicato in una tradizione. Chi ci espropria dell’identità commette un crimine che ci rende più fragili, in definitiva meno umani. Se esaminiamo i temi preferiti delle campagne elettorali progressiste, non rintracciamo alcun interesse per la vita, i valori, i bisogni delle persone comuni, il popolo che affermano di difendere e che invece disprezzano. Ogni volta si sorprendono fino all’indignazione se l’esito delle elezioni è sfavorevole. Il caso più recente è la risibile invettiva di Roberto Saviano sulla “ fogna dei social”, responsabile, a suo dire, del successo di Trump.
Tacciono sull’impossibilità, per milioni di persone, di mantenere il benessere faticosamente acquisito, di accedere – per sé e i figli – a quell’ascensore sociale che ha permesso lo sviluppo di una vasta classe media. Non sembrano accorgersi che una parte immensa della popolazione vive peggio di prima in termini di risorse economiche, di sicurezza di lavoro e di vita, speranza per il futuro, perdita di identità. Abbandonato dalle élite insediate comodamente nel centro delle grandi città i cui rampolli studiano nelle università private, gran parte del popolo ha sviluppato fastidio, autentica ostilità nei confronti della nuova sinistra alto borghese, supponente , carica di spregio per chi non condivide la sua visione del mondo illuminata, superiore, indiscutibile.
Nel caso americano, si è verificato un significativo spostamento di voti di gruppi sociali ed etnici di recente immigrazione a favore di Trump. Nulla di strano, se dall’alto del loro mondo incantato i ceti autonominati riflessivi capissero che milioni di persone vogliono sicurezza, lavoro, ragionevole speranza che i figli staranno meglio di loro, rispetto per le tradizioni. Forse dovrebbero ripensare la lezione dei loro cattivi maestri, a partire da Herbert Marcuse, il primo a intuire che la massa lavoratrice è conservatrice, non rivoluzionaria. Per questo teorizzò la sovversione sociale per mezzo dei “dannati della terra” (F. Fanon).
Oggi assistiamo al coagulo di tre poli politico culturali. Il primo e il secondo sono speculari, sistemici: un centrodestra liberale moderato riformista, un campo progressista formato dai residui della vecchia socialdemocrazia saldato con le nuove sinistre liberal che si consolida tra i professionisti, gli insegnanti, le professioni liberali, gli addetti ai servizi intellettuali e fa appello ai nuovi valori “post materiali “ (gender, omosessualismo, eccetera). E’ la grande alleanza di fatto mascherata da liti di facciata, il partito unico neoliberale diviso in correnti dominante in Occidente, l’ alternanza senza alternativa che l’effetto Trump potrebbe mettere in crisi. Il terzo polo è identitario e raccoglie soprattutto ceti popolari orfani di certezze morali, di principi civili, ma anche desideroso di protezione sociale, istintivamente avverso all’universo liberista in economia e libertario nei valori. Manca tuttavia un orizzonte comune, un’idea forte che unisca umori, suggestioni, idiosincrasie , volgendoli in una sintesi che ambisca a diventare senso comune, egemonia.
E’ famoso il passaggio del manifesto comunista di Marx e Engels in cui si afferma che il capitale “ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro. “
Marx però considera positivo il ruolo della borghesia, che ha travolto il vecchio mondo preparando la strada per l’affermazione comunista, destinata a liberare l’ umanità dallo sfruttamento per mezzo della lotta della classe operaia. Da questo occorre partire, ovvero dal riconoscimento del ruolo rivoluzionario, dissolvente del capitale e del suo braccio politico, la liberaldemocrazia, rifiutandoli in blocco. Il rischio è ricadere nella trappola collettivista: due materialismi solo apparentemente opposti, due fratelli-coltelli che hanno formato una tenaglia contro i popoli e le persone. La destra dei principi deve liberarsi finalmente dal mediocre destino di chi elabora una visione della vita spirituale, verticale, non mercantile, per poi consegnarsi al ruolo di guardia bianca del sistema, sceriffo del capitalismo per aver ceduto alla sirena liberale. Il liberismo (e il liberalismo) sono di sinistra, come scrissero anni fa, inascoltati, gli economisti Alberto Alesina e Francesco Giavazzi.
Esiste un’opposizione al modo di pensare liberale – materialista, amorale, l’accumulazione per l’accumulazione – che risale addirittura ad Aristotele. Idee penetrate nel cristianesimo e nell’Islam che il ciclone degli ultimi secoli ha cancellato, screditato, deriso. Nel Novecento hanno parlato i grandi poeti. Ezra Pound nemico dell’usura, la dismisura della finanza, un peccato contro natura. “ Con usura nessuno ha una solida casa. (…) Con usura la lana non giunge al mercato.” Thomas S. Eliot considerava Londra una città infernale, sulle orme del vecchio William Blake della prima rivoluzione industriale, per il quale le ciminiere erano “oscuri mulini satanici.”
Non vi è altra strada, se si vuole cambiare la realtà, che rifiutare in blocco il modello liberale, disumano, sfruttatore, privo di senso del limite, estraneo a ogni etica , ateo, in cui nulla ha valore perché tutto – cose e persone – ha un prezzo. Non manterrà, la nuova destra del basso contro l’alto, il consenso che sta ottenendo, né avrà mai potere, se non si libera del giogo del liberalismo reale e se non imporrà la sovranità dei popoli contro quella del denaro e dei signori della tecnologia. Il momento è propizio: perfino Francis Fukuyama, teorico sconfitto della fine della storia per trionfo del modello liberal-liberista, prende atto che le elezioni americane (ma perché non ricordare le tendenze emerse in Francia e in Germania?) sono il segnale di una crisi del liberalismo, benché Donald Trump non sia certo un rivoluzionario. Il voto del 5 novembre 2024 rappresenta “un rifiuto decisivo da parte degli elettori americani del liberalismo e del modo particolare in cui la concezione di società libera si è evoluta a partire dagli anni Ottanta”, ha scritto sul Financial Times delle dinastie Rothschild ed Elkann. Donald Trump non vuole solo far retrocedere il neoliberismo e la sottocultura radicale dei “risvegliati“ (woke) ma rappresenta una seria minaccia per lo stesso liberalismo classico, afferma Fukuyama. Non ne siamo convinti, ma può innescare una serie di smottamenti in direzione opposta all’universo liberale.

Secondo il politologo, è fondamentale la reazione negativa della classe operaia americana alle politiche neoliberiste. Dagli anni Ottanta l’economia di libero mercato ha creato nuova ricchezza soprattutto per chi era già ricco, minando i ceti medio bassi e rafforzando le potenze industriali non occidentali. Nel frattempo, i politici di sinistra hanno sostituito la preoccupazione per i ceti disagiati e la classe media in via di proletarizzazione con l’ enfasi su “una gamma più ristretta di gruppi emarginati: minoranze razziali, immigrati, minoranze sessuali e simili”. L’analisi – proveniente da un sostenitore di quel mondo – confessa un fallimento epocale.
Chi fallisce non può pretendere di mantenere l’esclusiva del potere , tanto meno può pensare di risolvere i problemi con la stessa mentalità che li ha creati. Il comunismo è crollato per la sua violenza disumana e perché ha negato all’uomo il diritto di avere qualcosa di suo, da godere e da trasmettere ai figli. Il liberalismo compiuto, diventato liberismo globale, espropria anche dell’essere e pretende per sé tutte le risorse, proprio come il comunismo. Aveva ragione Chesterton: i capitalisti sono troppo pochi, nel senso che estraggono per sé le risorse e tendono al monopolio. Non funziona. Il mercato non ha alcuna mano invisibile che risolve i problemi, piuttosto una manona rapinatrice che prende tutto e rende gli uomini schiavi, ossia cose, merci.
Cento anni fa Eugenio Montale scriveva una lirica splendida ma negativa. Finiva così:
“non domandarci la formula che mondi possa aprirti/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” Non basta, ma è un punto di partenza. Abbiamo individuato il nemico. Ora dobbiamo combatterlo elaborando un pensiero alternativo al suo. Crediamo nella nostra civiltà, nella nostra identità, nella nostra gente, nelle sue risorse, nella giustizia sociale. Non vogliamo cadere dalla padella liberale nella brace collettivista, né perdere la nostra umanità nell’inferno transumanista. Può iniziare la lunga marcia. Con un primo, decisivo passo, la scelta dell’amico e del nemico.