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La Norvegia disinveste dal petrolio: è iniziata la fuga dal greggio?

di Andrea Battistone - 25/11/2017

La Norvegia disinveste dal petrolio: è iniziata la fuga dal greggio?

Fonte: l'indro

Il fondo sovrano norvegese, lo Statens Pensjonsfond utland, ha annunciato la sua intenzione di disinvestire i propri titoli dal settore dell’industria petrolifera. Il fondo, che ha raggiunto a settembre il valore record di mille miliardi di dollari e che detiene partecipazioni nelle maggiori compagnie petrolifere mondiali, da Exxon a Eni passando per Bp e Total, potrebbe ridurre la sua esposizione nel settore per oltre trentacinque miliardi di dollari. Una decisione motivata, secondo la Banca Centrale Norvegese, responsabile della gestione del fondo, dalla necessità di rendere il Paese meno vulnerabile all’andamento dei prezzi del greggio. Ma al contempo si è trattato di una scelta strettamente legata al contesto politico norvegese.

Secondo Lorenzo Colantoni, analista presso lo IAI (Istituto degli Studi Internazionali), la recente mossa del fondo sovrano norvegese può essere considerata una diretta conseguenza del dibattito sul futuro dell’industria petrolifera, dibattito al centro anche delle recenti elezioni politiche di settembre. “In realtà, se si analizza quello che è successo durante quella che può essere considerata come una vera e propria tempesta elettorale, in Norvegia le acque si sono abbastanza calmate in seguito al voto. Il partito dei Verdi, che secondo le previsioni avrebbe dovuto ottenere un numero di voti tale da potersi permettere un ruolo decisivo nel Parlamento, alla fine non ha visto aumentato il proprio peso politico rispetto alla situazione preelettorale, né gli altri partiti minori, i quali ambivano a un ruolo di rilevo per poter successivamente tentare di raggiungere un compromesso sulle situazioni più controverse come quelle relative alle trivellazioni nell’Artico , hanno ottenuto i risultati sperati. Nonostante questo, un cambiamento di tendenza nel pubblico norvegese c’è stato perché la discussione sul futuro dell’economia norvegese ha catalizzato l’attenzione durante l’intera campagna elettorale. Questo è avvenuto perché a causa della contrazione economica causata dalla caduta del prezzo del petrolio il Paese ha perso ben quarantasettemila posti di lavoro, pertanto la popolazione ha cominciato a domandarsi se la riduzione del prezzo del petrolio sia da considerarsi solo una situazione congiunturale o al contrario il sintomo di un cambiamento strutturale nel mercato del greggio”.

Dietro la decisione della Banca Centrale Norvegese vi è un consenso piuttosto ampio da parte delle formazioni partitiche del Paese: “Da una parte, i partiti politici norvegesi sono stati sempre molto compatti nella gestione del fondo sovrano, pertanto una decisione di tale portata sicuramente è avvenuta con il benestare della coalizione di maggioranza” – sottolinea Colantoni – “dall’altra parte, i partiti di opposizione, già in campagna elettorale, chiedevano una gestione più trasparente e meno politica del fondo stesso, cambiamento in larga parte disatteso visto il perdurare di profondi legami con la sfera politica del Paese, ed un maggiore allontanamento verso gli investimenti nel settore dei combustibili fossili. Alla luce di queste considerazioni si può ritenere che il fondo norvegese si muova tuttora secondo direttive determinate dal contesto politico di riferimento”.

Un contesto che non può prescindere da quello che si sta rivelando un significativo mutamento nell’opinione pubblica norvegese, la quale sta passando da un tradizionale sostegno all’industria petrolifera a una sempre maggiore preoccupazione verso le incertezze e le vulnerabilità economiche che sta generando. “Se si analizzano i sondaggi degli ultimi anni” – ricorda Colantoni – “si scopre che i norvegesi si sono dichiarati disposti a ridurre la quantità di petrolio estratto pur di diminuire l’impatto di tali estrazioni sul livello di CO2. Un cambiamento tutt’altro che trascurabile in quanto i norvegesi si erano sempre opposti a qualsiasi proposta di ridimensionare l’industria estrattiva”. Una mutata tendenza, tuttavia, che sarebbe ingenuo e riduttivo ricondurre unicamente a una preoccupazione sul futuro dell’ambiente, laddove hanno certamente pesato di più i timori derivanti dalla ricaduta occupazionale della crisi del comparto petrolifero: “Sicuramente vi è stata una sensibilità da parte dei norvegesi nei confronti della questione ambientale e climatica, ma i quarantasettemila posti di lavoro persi negli ultimi due anni sono certamente il maggior motivo della recente ‘doccia fredda’ sull’economia del Paese”, conclude Colantoni.

Ora la vera sfida per la Norvegia sarà il futuro della propria politica energetica, una partita che si gioca su un terreno diverso, anche se parallelo, rispetto alle scelte del fondo sovrano del Paese in quanto, come ricorda Colantoni, “non vi è stato alcun cambiamento nella destinazione delle entrate del fondo. Bisognerà vedere se davvero la politica energetica del Paese sarà in grado di percorrere direzioni diverse da quella attuale. E per raggiungere tale obiettivo potrebbe tornare molto utile lo stesso fondo sovrano della nazione, le cui rendite, già negli ultimi due anni, sono state utilizzate per attutire il contraccolpo causato dalla caduta dei prezzi del petrolio. Nel lungo periodo si dovrà capire se la Norvegia, oltre ad aver preso una decisione così importante sul piano economico, sarà in grado anche di dare un segnale di cambiamento a livello domestico e internazionale”.

Un segnale, da parte di un Paese da sempre attento alla questione ambientale, nella direzione di una maggiore sensibilità sul tema dei cambiamenti climatici e della conseguente necessità di incrementare gli investimenti in energia pulita. Secondo Margherita Paolini, consigliere scientifico presso LIMES, su questo tema stanno pesando due ordini di considerazioni, uno legato alla sensibilità ambientale vera e propria, l’altro, più pragmatico ma non meno rilevante, legato all’incremento dei costi dell’industria estrattiva. “Tutti gli studi più recenti evidenziano il rischio se non la certezza di futuri catastrofi ambientali e di fenomeni climatici del tutto imprevedibili pertanto il discorso dell’ambiente, che a lungo era sembrato passare in secondo piano rispetto ad altre crisi di diverso genere, è tornato a rivestire un’importanza centrale. Ma il discorso dell’approvvigionamento energetico attraverso i combustibili fossili si sta progressivamente ridimensionando perché sta diventando sempre meno conveniente dal punto di vista dei costi. Su tal punto la Norvegia costituisce l’esempio più evidente in quanto l’industria estrattiva del Paese è chiamata a cercare le risorse petrolifere in ambienti particolarmente difficili quali zone dell’Artico o del Mare del Nord, spesso ad alte profondità e in presenza di condizioni meteorologiche avverse. Pertanto, l’industria norvegese verrebbe chiamata ad affrontare costi estrattivi particolarmente elevati e non più giustificabili a causa dell’incertezza derivante dalle deludenti previsioni di consumo all’interno del Continente europeo”.

Tuttavia, è difficile prevedere quanto la mossa della Norvegia, seppur portata avanti da un fondo di così vaste proporzioni, sarà in grado di influenzare l’opinione pubblica internazionale sul tema della conversione alle energie rinnovabili, “per quanto riguarda l’Europa, ogni Stato tende a seguire una politica economica ed energetica indipendente dalle altre nazioni e questo spiega anche perché, nonostante i vari stop al gas russo più volte annunciati, alla fine i Paesi in questione continuino ad approvvigionarsi dalla Russia” – sottolinea la Paolini – “pertanto è dubbio che la decisione della Norvegia possa produrre una sorta di ‘effetto traino’ sull’economia. Da una parte, infatti, le grandi multinazionali hanno intrapreso un cammino di riconversione energetica, il quale, tuttavia, si sta dimostrando ad oggi un cammino piuttosto lento. Dall’altra parte vi è il discorso relativo allo shale gas, il gas estratto da giacimenti non convenzionali in argille, la cui produzione sta tuttora continuando”. Un mutamento dell’atteggiamento dei Governi, e di riflesso della grande industria degli idrocarburi, nei confronti del tema dell’approvvigionamento energetico non pare sia in atto in misura rilevante, “la situazione potrebbe cambiare con rapidità qualora i cambiamenti climatici divenissero maggiormente minacciosi”, conclude Margherita Paolini.

Se la politica, e la politica ambientale in particolare, ha avuto un peso importante nella partita, la finanza e l’economia hanno giocato un ruolo determinante nella decisione di un disinvestimento di tale portata. A tal proposito Lorenzo Colantoni ritiene che “quando è in gioco una quantità di denaro così ingente, è difficile vedere un ruolo decisivo della politica ambientale, si è trattato di una scelta prettamente economica così come ha natura economica l’intera transizione energetica attualmente in corso. La politica, in questi casi, non può fare altro se non ‘agganciarsi’ a questi trend e seguirne il flusso. Pertanto, la mossa compiuta dalla Norvegia è una mossa economica, razionale, non si prendono decisioni in grado di influenzare le sorti di centinaia di miliardi esclusivamente per ragioni politiche”.

La mossa di Oslo è pertanto strettamente legata alle incertezze derivanti dalle continue fluttuazioni dei prezzi del barile avvenute negli ultimi tre anni. “Un petrolio così basso e che difficilmente potrà ritornare ai livelli di diversi anni fa dimostra come l’importanza del greggio sia calata nettamente” – sottolinea Margherita Paolini – “Per quanto riguarda il gas naturale, invece, questo può essere considerato una fonte di approvvigionamento di transizione, tuttora di centrale rilevanza in quanto chiamato ad alimentare la nostra domanda di energia elettrica, ma che già comincia a subire la concorrenza di fonte energetiche alternative. Pertanto, se il petrolio dovesse continuare a perdere valore e se anche il gas naturale dovesse agganciarsi a questo trend negativo, gli investimenti nell’industria degli idrocarburi diventeranno sempre meno convenienti”. Il fondo norvegese potrebbe quindi inaugurare una tendenza, nuova in una economia mondiale ancora largamente dipendente dai combustibili fossili, finalizzata “alla diversificazione degli investimenti in materia energetica, una decisione assolutamente razionale e coerente con il contesto economico del Paese”.