La plastificazione dei mari e dei pesci
di Saverio Pipitone - 30/06/2023
Fonte: Saverio Pipitone
La plastica cumulata nella società consumistica è all’incirca 10 miliardi di tonnellate, di cui il 60% nell’ultimo ventennio, per un ininterrotto ed esponenziale aumento della produzione globale annua, dai 2 milioni del 1950 agli attuali 500 milioni di tonnellate, con la previsione di triplicare nel 2050.
Scopritori e propugnatori della plastica furono Parkes, Spill, Hyatt, Baekeland, Brandenberger, Klatte, Carothers, Gibson, Yarsley, Whinfield, Natta e Wyeth: dalla appiccicosa parkesina alla celluloide per fabbricare dei primi oggetti di consumo quotidiano, in sostituzione di materiali introvabili o costosi, vera manna per il trionfo capitalista nell’ottocento; al cellofan per le maschere antigas nella grande guerra e il PVC per visiere, mirini e detonatori nel secondo conflitto mondiale, ai più svariati polimeri sintetici, con solventi, agenti e coloranti, per una miriade di imballi e cose nell’epoca del boom economico.
Roland Barthes (semiologo) definì la plastica «alchimica… Da un lato la materia bruta, tellurica, e dall’altro l’oggetto perfetto, umano: e tra questi due estremi, niente, se non un tragitto appena sorvegliato da un impiegato con berretto, semidio, semirobot. In tal modo, più che una sostanza la plastica è l’idea stessa della sua infinita trasformazione, è, come indica il suo nome volgare, l’ubiquità resa visibile; e proprio in questo, d’altra parte, essa è una materia miracolosa: il miracolo è sempre una conversione brusca della natura. La plastica resta tutta impregnata di questa scossa: più che oggetto essa è traccia di un movimento».
Risultato è l’usa e getta con il secchio della spazzatura sempre stracolmo. Maggiori consumatori sono statunitensi ed europei con una media annua pro capite rispettivamente di un centinaio e una cinquantina di chilogrammi. Monouso è 1/3 della plastica prodotta ogni anno a livello mondiale, quasi tutta con combustibili fossili, per un’impronta ecologica di 450 milioni di tonnellate equivalenti CO2. Fra i produttori spiccano le compagnie petrolifere ExxonMobil (Stati Uniti), TotalEnergies (Francia), Saudi Aramco (Arabia Saudita), Reliance Industries (India), Sinopec (Cina) e Sibur (Russia): queste ultime due stanno costruendo in Siberia un grosso impianto di polimeri per l’industria dei consumi e nella fase progettuale sono state sovvenzionate con 10 miliardi di dollari da una cordata di istituti finanziari, da Bank of China e Sberbank a Unicredit, Intesa Sanpaolo, Deutsche Bank e Crédit Agricole fino alla Cassa Depositi Prestiti dello Stato italiano che ha dato 139 milioni di euro.
La plastica buttata via è per il 9% riciclata e al 12% incenerita. La restante parte finisce nelle discariche, talvolta malgestite e abusive, oppure dispersa nell’ambiente. Attraverso corsi d’acqua ed eventi meteo, raggiunge e riempie i mari. Solo i fiumi ne trasportano annualmente da 1 a 2,5 milioni di tonnellate. Enormi quantità convergono nei grandi vortici oceanici – generati dai venti e dalla rotazione terrestre – con il formarsi di immense chiazze plastiche che oggi, nell’impotenza umana, sono cinque negli oceani Indiano, Nord e Sud Pacifico, Atlantico settentrionale e meridionale, tra sacchetti, bottiglie, tappi, stoviglie, vasetti, coperchi, confezioni, cannucce, cotton fioc e tanto altro.
I detriti pesanti affondano. Quelli galleggianti (almeno 5.000 miliardi di pezzi) – per effetto delle onde e dei raggi solari – nel tempo si sgretolano e diventano minuscoli, con emissioni di CO2 e di sostanze chimiche che accrescono l’inquinamento acquatico. E vanno ovunque: in aria, percorrendo lunghe distanze e arrivano anche sugli alti monti incontaminati; nei ghiacciai, che quando si sciolgono li rigettano nel mare; dentro le rocce litoranee, legandosigli chimicamente, per una nuova era geologica del plasticrust; nei fondali, trainati dalle correnti o perché carichi di incrostazioni di alghe e batteri. In più, dagli scarichi reflui domestici, sfociano nei mari le microplastiche primarie con infinite particelle rilasciate dal lavaggio di vestiti sintetici o dall’uso di cosmetici e igienizzanti.
Si prevede che in mare affluiranno 29 milioni di tonnellate di plastica nel 2040, il triplo di adesso.
Per l’ecosistema è devastante. Fauna e flora marina, nell’assorbire o ingerire plastica, si ammalano di plasticosi con sintomi di infiammazione, disfunzione e indebolimento dell’organismo. Il fitoplancton perde efficienza cellulare e fotosintetica. Pesci, tartarughe e uccelli patiscono ostruzione intestinale, alterazioni metaboliche e lesioni ulcerative, e se intrappolati esternamente difficoltà respiratorie e motorie: rischiano infermità e morte. La plastica, muovendosi nella catena alimentare acquatica, fa poi ritorno all’antropica origine ma da contaminante nel corpo umano.
L’oceanografa Cindy Lee Van Dover, come prima donna pilota di batiscafo a 3000 metri sotto i mari, testimonia: «Mi piacerebbe scrivere che il fondo oceanico in mare aperto è un luogo incontaminato dove si è finalmente lontani dall’impatto dell’uomo sulla natura, un posto libero dai rifiuti e dagli avanzi della vita moderna. Ma lasciamo tracce della nostra inciviltà anche nelle profondità marine. Lo spettacolo più brutto in cui mi sia imbattuta è stato in una piccola depressione di soli 1900 metri di profondità nel Guaymas Basin, a metà del Golfo della California: il memorabile Mare di Cortés di Steinbeck. Sacchetti di rifiuti di plastica bianca si erano depositati dietro un boschetto di esili coralli neri ramificati, su cui gemmavano minuscoli polipi carnosi. I sacchetti erano rotti e il loro contenuto era disseminato nel fango. Ricordo di aver provato vergogna dinanzi a questa dissacrazione di qualcosa di così bello».