La profezia della guerra
di Enrico Tomaselli - 22/01/2025
Fonte: Giubbe rosse
Per tutto un lungo periodo, susseguente all’avvio dell’Operazione Speciale Militare russa in Ucraina, il leitmotiv della propaganda europea è stato che bisognava aiutare Kiev a vincere, altrimenti i russi avrebbero invaso l’intero continente, arrivando sino a Lisbona.
Questo imprinting concettuale ha in effetti permeato di sé tutta la narrazione europea del conflitto, in misura così profonda da trascenderne le iniziali ragioni. È stato infatti evidente, sin dal primo momento, che l’adesione acritica - e diciamo pure masochistica - all’impianto bellicistico statunitense, è stato solo in piccolissima misura attribuibile al timore delle armate russe, mentre in gran parte era dovuto al rapporto di sudditanza (psicologico ancor prima che politico) delle élite europee verso gli Stati Uniti. Ma, già dal momento in cui si è profilata all’orizzonte la possibile vittoria elettorale di Trump, con la conseguente prospettiva di un disimpegno rispetto al conflitto ucraino, si è evidenziata la presa di questa idea sul pensiero delle leadership del vecchio continente. Per le quali, infatti, il cambio di rotta di Washington - nonostante la summenzionata sudditanza - non ha prodotto un riallineamento con l’alleato di oltre Atlantico, ma ha semmai determinato un arroccamento sulle posizioni belliciste.
Ovviamente, avendo così profondamente investito sul conflitto, per i leader europei è certamente problematica una inversione ad u della linea politica (e della conseguente narrazione di supporto), ed a ciò si aggiunge anche il timore che la fine della guerra possa avere contraccolpi temibili sulla propria sopravvivenza politica. Ciononostante, questo non basta a spiegare l’ostinazione con cui si continua a sostenere la tesi della incombente minaccia russa.
Lasciando da parte le continua incongruenze di questa propaganda - invero alquanto raffazzonata - per cui un giorno l’esercito russo combatteva con le pale e senza calzini, smontando i chip dalle lavatrici, e quello dopo minacciava di arrivare alle estreme propaggini occidentali del continente, in una alternanza di colossali sciocchezze oltretutto assolutamente incongrue tra di loro, merita invece un esame razionale - o anche semplicemente ragionevole - la fondatezza di questa tesi.
Fondamentalmente, ci sono due aspetti basilari, su cui concentrare l’analisi: motivazione e fattibilità. Nessuno, ovviamente viene da dire, ha mai spiegato per quale ragione la Russia dovrebbe invadere l’Europa. Non solo questa pulsione non si è mai verificata storicamente (piuttosto il contrario...), ma è impossibile trovare una sola ratio per una mossa del genere. La Federazione Russa, infatti, non ha bisogno di territori (ne ha fin troppi), non ha bisogno di materie prima (idem, e comunque l’Europa non ne ha), e non ha nemmeno una spinta ideologica, come poteva essere durante l’Unione Sovietica. Non si vede quindi per quale ragione dovrebbe imbarcarsi in una guerra - chiaramente destinata a divenire mondiale - senza alcuna motivazione sensata per farla.
Ancora peggio stanno le cose, per certi versi, sotto il profilo della fattibilità. Se guardiamo al conflitto in Ucraina, vediamo come la Russia stia sì avanzando di continuo, ma in ormai tre anni di guerra questa progressione sia tutto sommato abbastanza relativa. Con questi ritmi, per arrivare a Lisbona, all’esercito russo potrebbero servire trent’anni e più... A ciò si aggiunga che sì, la capacità dell’industria bellica russa è molto maggiore di quella della NATO nel suo complesso, e sì, l’esperienza di combattimento è infinitamente maggiore, ma resta pur sempre il fatto che la popolazione russa ammonta a circa 150 milioni (comprese le nuove regioni del Donbass e della Novorossia) mentre quella europea ne conta circa 750 milioni. Uno scarto che, nella prospettiva di una guerra ad alto consumo come quella in atto, avrebbe un peso determinante già nel giro di pochi mesi / un anno.
La tesi dell’imminente invasione russa, insomma, non ha alcun fondamento.
Pur non di meno, bisogna chiedersi per quale ragione la Russia abbia deciso di aprire il conflitto, e di sostenerlo sulla lunga durata. Ed è abbastanza evidente che le ragioni vanno ben al di là della mera questione ucraina. Il punto è - abbastanza chiaramente, peraltro - che Mosca ha percepito che l’Ucraina era la punta dell’iceberg, e che era in essere una aggressiva ostilità della NATO, intenzionata a spingersi sempre più da presso alle frontiere russe, nella prospettiva (poi verificatasi) di varcarle. In poche parole, ha visto la spinta ad est della NATO come una minaccia esistenziale, ed ha deciso di anticiparne le mosse, colpendo per prima.
Dal punto di vista russo, quindi, la guerra con l’Ucraina rappresenta, ad un tempo, una mossa difensiva, ed un messaggio all’occidente, il cui succo è: non aspetteremo che siate voi ad attaccare, quando vi sentirete pronti per farlo. Ugualmente, la vittoria sul campo - che è ormai solo questione di tempo - aggiunge qualcos’altro al messaggio; non è ancora un vae victis, ma vale come avvertimento in tal senso.
A questo punto, tutto si regge su un equilibrio assai sottile. Da quando è cominciato l’intervento diretto di Mosca, infatti, non solo la NATO ha riversato grandi quantità di denaro, di armi, di uomini e di aiuti di ogni genere in Ucraina, ma si è spinta ancora più vicina, inglobando - de jure oltre che de facto - Svezia e Finlandia.
Se, com'è probabile, il tentativo di porre fine al conflitto portato avanti da Trump non dovesse sortire gli effetti desiderati (vista la difficoltà a riconoscere ed accettare le ragioni e gli interessi russi), il passaggio successivo sarà che Washington scaricherà sugli europei la patata bollente, e che questi - imprigionati nella propria narrazione, ed ancor più spaventati dal disimpegno statunitense - moltiplicheranno, per quanto possibile, gli sforzi per una veloce corsa al riarmo. Cosa peraltro già in essere, basti pensare ai mega investimenti in armi della Polonia, o alla decisione tedesca di spendere 100 miliardi nei prossimi anni per riorganizzare le forze armate. E questo solo per restare agli aspetti più macroscopici, ma c’è ovviamente assai di più.
L’Europa, insomma, sta andando sempre più verso una prospettiva di guerra, del resto chiaramente dichiarata da importanti leader politici e militari. E anche se la retorica la dipinge come una impellente necessità difensiva, è fin troppo chiaro che al Cremlino viene (e verrà sempre più) vista diversamente.
In buona sostanza, il rischio - assai reale e concreto - è che a furia di profetizzare una inevitabile guerra con la Russia, e soprattutto a furia di attrezzarsi per questa, la profezia si autoinveri. Potrebbe insomma darsi il caso che Mosca, a fronte di questa corsa agli armamenti da parte dei paesi europei, accompagnata dal permanere dell’acuta russofobia che già ne caratterizza le leadership e la propaganda, finisca per ritenere necessario non aspettare che l’accumulo di armi e la conversione ad una economia di guerra non inducano in tentazione i membri europei della NATO. E decida, ancora una volta, di anticiparne le mosse colpendo per prima.