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La quadratura del cerchio

di Enrico Tomaselli - 11/11/2024

La quadratura del cerchio

Fonte: Giubbe rosse

C’è un aspetto, nella politica israeliana del governo Netanyahu, che può risultare effettivamente disorientante, e che consiste nel continuo mutamento degli orientamenti, anzi della contemporanea presenza di orientamenti diversi e contraddittori. Ciò è in parte dovuto ad una precisa tattica, finalizzata a lasciare amici e nemici in una condizione di incertezza continua, ma al tempo stesso è diretta conseguenza dell’assoluta mancanza di un vero piano strategico, rispetto al conflitto multi fronte che l’IDF sta affrontando. Ne consegue che anche i disegni operativi - sia sul piano strettamente militare, che su quello politico-diplomatico - risultano disancorati rispetto ad una linea di condotta unitaria.
Da ultimo, vediamo che dall’establishment israeliano vengono fuori in questi giorni almeno tre varianti diverse, per ciò che riguarda il conflitto libanese. Da un lato, infatti, si parla di imminente conclusione dell’operazione terrestre, poiché (si sostiene) gli obiettivi sono stati conseguiti; da un altro lato, si dice invece che si stanno studiando piani per espandere l’operazione, per cercare quel successo territoriale tuttora mancato. E, infine, si afferma di perseguire un negoziato per un cessate il fuoco di 60 giorni, addirittura coinvolgendo anche la Russia nella mediazione.
Per quanto riguarda la situazione sul terreno, peraltro, vediamo che sostanzialmente l’IDF procede per continui stop-and-go; tenta di sfondare in una qualche direzione, Hezbollah cede leggermente terreno, attira le forze israeliane in imboscate, e quindi le colpisce mentre si ritirano e, contemporaneamente, ne attacca le retrovie. Dopo di che gli israeliani tornano indietro e stanno fermi due-tre giorni, per poi tentare nuovamente lo sfondamento. E così via. Si è quindi determinata una situazione di stallo, sotto il profilo dell’avanzamento israeliano, che però sta logorando significativamente l’IDF, mentre Hezbollah continua ad ampliare l’intensità e la profondità degli attacchi sui territori occupati, dagli insediamenti del nord sino ad Haifa e Tel Aviv.
Il quadro che ne emerge è che probabilmente, e nonostante le evidenze che emergono dal campo di battaglia, l’esercito israeliano non intende per il momento mollare la presa, sia per esercitare una pressione sulla Resistenza, sia per non dover ammettere che l’obiettivo del ritorno dei centomila settler evacuati è stato mancato. Evidentemente, a Tel Aviv si fa conto che la pressione combinata degli USA sul governo libanese e quella (si spera) russa sull’Iran, serva a togliere le castagne dal fuoco, un po’ come fu in occasione della seconda guerra del Libano.
Il punto però è che - esattamente come vediamo per quanto riguarda il conflitto ucraino - l’occidente (in questo caso USA ed Israele) pur constatando la sconfitta in combattimento, pensa ostinatamente di poter ottenere i risultati voluti (o poco meno) attraverso negoziati che non tengano conto né della situazione sul campo, né degli interessi della controparte. Chiaramente, con queste premesse non si approda ad alcun risultato.
In questa fase, è evidente che Netanyahu fa affidamento su Trump, ovvero su un sostanziale aumento dell’appoggio, politico e militare, da parte di Washington. Ciò è però in contrasto con quelli che sono gli obiettivi della nuova amministrazione, che vuole presentarsi come artefice di una nuova pax americana. Per quanto Trump non voglia (ed in parte non possa) abbandonare Israele, è altrettanto evidente che non vuole (né può) farsi coinvolgere in una escalation regionale o in una guerra infinita. È quindi assai probabile che il sostegno americano sarà condizionato ad una scadenza temporale (difficilmente quella auspicata, cioè entro la data d’insediamento), e ad un limite politico (non devono essere pregiudicati i rapporti con i paesi arabi amici). Sfortunatamente, il quadro complessivo della situazione rende pressoché impossibile raggiungere una soluzione, anche solo temporanea, per via negoziale: non esiste un compromesso accettabile per entrambe le parti. Ne consegue che, nonostante i buoni rapporti personali, prima o poi Trump dovrà scegliere se sostenere Israele o sostenere Netanyahu.
A Washington già si discute di un dopo Zelensky (gli Stati Uniti stanno valutando la possibilità di tenere le elezioni parlamentari e presidenziali in Ucraina nel 2025; gli attivisti ucraini finanziati dagli USA stanno discutendo della creazione di un nuovo partito filoamericano, i cui candidati saranno scelti in accordo con il Dipartimento di Stato), e presto potrebbe emergere la necessità di discutere di un dopo Netanyahu. Considerato che le ragioni per cui quest’ultimo resta disperatamente attaccato al potere sono strettamente personali, la promessa di un salvacondotto ed un buen retiro dorato negli states potrebbero servire a rendere tutto più facile.
Se davvero si arrivasse ad un tale epilogo, sarebbe davvero ironico dopo tante chiacchiere su una Gaza dopo Hamas, e più di recente su un Libano dopo Hezbollah...
Ovviamente una soluzione di questo tipo toglierebbe di mezzo l’ostacolo più grosso, ma non per questo risolverebbe il problema di fondo, ovvero la guerra nella Striscia di Gaza. Immaginare un governo anti-Hamas è ovviamente pura fantasia, poiché non sarebbe riconosciuto da un solo palestinese. Il massimo ottenibile sarebbe perciò un governo tecnico, gradito anche ad Hamas, che si incaricherebbe di gestire la ricostruzione. Ma prima di arrivare a questo, bisognerebbe porre fine al conflitto.
E questo comporta fondamentalmente due nodi: limiti (spaziali e temporali) di una eventuale permanenza militare israeliana, e scambio dei prigionieri. Ovviamente ci sarebbero anche altre questioni non irrilevanti (garanzie sulla Moschea di Al Aqsa, tanto per cominciare, e poi definizione della situazione in Cisgiordania ed al confine libanese - perché i fronti sono molteplici, ma la guerra è una), ma le più urgenti e scottanti sono quelle.
Insomma, per farla breve, il primo semestre di presidenza Trump non sarà per niente facile, perché la quadratura del cerchio è un’impresa titanica. E, francamente, non sembra che ne abbia la caratura.
Diversamente, Netanyahu non può fare altro che cercare di tirarla per le lunghe, rinviando continuamente il redde rationem del suo governo - e quello suo personale. Più tempo passa, più diminuiscono le sue possibilità di conseguire un successo militare, su uno qualsiasi dei fronti aperti; al contrario, il tempo logora l’esercito, l’economia, la stessa società israeliana, e ne prepara il tracollo. E, con grandissimo scorno suo e di tutti i fanatici sionisti, lavora per Amalek.