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La questione della democrazia

di Fabio Falchi - 08/12/2017

La questione della democrazia

Fonte: Fabio Falchi

Definire la democrazia, com’è noto, non è un compito facile. Tuttavia, una volta che si sia riconosciuta la scarsa importanza della differenza tra la democrazia diretta e la democrazia rappresentativa per quanto concerne la comprensione della politica in età contemporanea, la definizione della democrazia sembra meno complicata di quanto si possa immaginare. Invero, in una società industriale avanzata è inevitabile che non vi sia un “governo dei molti” vuoi per le dimensioni della società attuale (assai diverse da quelle delle comunità di villaggio o di “realtà politiche” come le “città Stato”) vuoi per le competenze non solo tecniche ma anche politico-strategiche richieste per la “gestione” di una società complessa come quella industriale avanzata. La questione che rileva davvero non è quindi che siano pochi a governare ma se il governo dei pochi persegua l’interesse dei pochi (a scapito di quello dei molti) anziché l’interesse dei molti. Connessa a tale questione è pure quella del consenso ossia se il governo dei pochi si basa oppure no sul consenso dei molti.
Peraltro, non è certo impossibile definire anche l’interesse dei molti, qualora si considerino la curva di distribuzione del reddito e la questione dei diritti economici e sociali (che non si possono però “disgiungere” da una serie di doveri sociali, dato che la questione dei diritti economici e sociali è inseparabile da quella dell’appartenenza ad una determinata comunità politica). In questo senso, la difesa dell’interesse dei molti di necessità presuppone il controllo politico-strategico dello stesso apparato tecnico-produttivo, senza il quale non possono non prevalere gli interessi del grande capitale. Non è insomma più tempo di puntare ad una democrazia sociale fondata su (pressoché impossibili) forme di socializzazione dei mezzi di produzione o di autogestione. Essenziale è invece la riduzione delle diseguaglianze economiche e sociali (pur senza giungere ad assurde e controproducenti forme di egualitarismo), in una democrazia sociale essendo pur sempre la soddisfazione dei bisogni primari (lavoro, istruzione, sanità, abitazione, etc.) il “limite” che un sistema di premi e punizioni incentrato sul riconoscimento dei meriti dei diversi membri di una comunità deve rispettare.
“A ciascuno secondo i suoi bisogni e i suoi meriti” è pertanto il “principio fondante” di una democrazia (sociale). Si tratta di un principio che riconoscendo sia la sostanziale “parità dei distinti” (dato che i membri di una comunità in quanto tali sono “pari”) che la rilevanza delle diverse funzioni che i vari membri di una comunità svolgono, consente di affrontare la questione dei “diritti umani” secondo un’etica comunitaria e al tempo stesso “realistica”. D’altronde, è pur vero che la valutazione dei “meriti” non può non variare a seconda dei diversi fini che una comunità ritiene essenziale perseguire (modernizzazione dell’apparato tecnico-produttivo, tutela dei valori identitari, formazione di nuovi “blocchi geopolitici”, potenziamento della difesa del Paese, etc.). Naturalmente, una democrazia sociale così intesa può “lasciare spazio” ad una economia di mercato purché sia funzionale al benessere morale e materiale dell’intera collettività. (Al riguardo, si dovrebbe prendere atto che una concezione materialistica dell’“essere sociale” favorisce, volenti o nolenti, l’instaurazione di un regime oligarchico e plutocratico, come dimostra la crisi stessa della liberal-democrazia e della socialdemocrazia. Certamente, la sfera politica è ben distinta da quella dell’etica o dell’“essere spirituale”, in quanto sotto il profilo del Politico “giusto” è solo ciò che è necessario fare per la “salute” della comunità. “Giusto” e “ingiusto”, sotto questo aspetto, non designano dei “valori morali”. Nondimeno, la definizione della “salute” della comunità implica necessariamente l’esistenza di un orizzonte di senso condiviso e un’ etica comunitaria. Solo così la funzione politica può promuovere una nozione di “giustizia sociale” che impedisca quella forma di “crematistica” che dissolve il senso di appartenenza e i legami comunitari che sono alla base della convivenza civile).
Incontestabile è invece che con la forma di capitalismo che si è venuta a creare alla fine del secolo scorso - allorché si è passati dal cosiddetto “capitalismo embedded”, imperniato sulla crescita della domanda, ad un capitalismo non più incastonato in strutture politiche nazionali ma egemonizzato dalle multinazionali e dai potentati finanziari -, si è sempre più ridotto il ruolo della politica a vantaggio sia dei vertici dell’apparato burocratico e militare dello Stato (specialmente di quello egemone ovverosia degli Stati Uniti) che del grande capitale (soprattutto di quello finanziario, che promuove un capitalismo che si fonda sui “meccanismi del debito”, di modo che i “buchi”, generati dall’abnorme espansione della finanza a scapito dell’apparato produttivo, vengono colmati con il denaro pubblico). Ciò ha comportato non solo una eccezionale redistribuzione della ricchezza verso l’alto (in diversi Paesi occidentali, Stati Uniti e Italia inclusi, ormai un cittadino su tre è a rischio di indigenza), ma pure una forte contrazione della sovranità popolare e nazionale (in specie di quella dei Paesi meno forti, come appunto l’Italia) e una gravissima riduzione dei diritti sociali ed economici, mentre hanno acquisto grande importanza i “diritti individuali” (che in buona misura non sono altro che i “vizi privati” o i comportamenti tipici della élite dominante post-borghese, diventati “pubbliche virtù” e diffusisi paradossalmente anche tra i ceti sociali subalterni, grazie soprattutto al potere di persuasione, più o meno occulta, dei media mainstream).
Non sorprende quindi che anche da parte di studiosi di formazione liberale si parli non più di democrazia liberale ma di regimi neoliberali postdemocratici (o di managed democracy), dato che i tratti democratici che contraddistinguevano la società liberale occidentale nella seconda metà del secolo scorso sono quasi del tutto scomparsi. In realtà, gli attuali regimi neoliberali occidentali si configurano sempre più come regimi antidemocratici e perfino, in un certo senso, antisociali. D’altro canto, benché grazie a tecniche raffinate di persuasione e manipolazione, e a nuove forme di “ingegneria politica”, appaiano come regimi politici ancora basati sul consenso dei molti, anche la questione del consenso è un problema di difficile soluzione per le oligarchie neoliberali, dato che la crisi economica e il diffondersi dell’indigenza nel “cuore stesso” del mondo occidentale inevitabilmente rendono assai arduo difendere l’interesse di pochi con il consenso dei molti. Non a caso, con la scusa delle fake news (le peggiori delle quali, peraltro, vengono diffuse proprio dai media maintream), si cerca di limitare drasticamente la libertà “di” stampa, confondendola volutamente con la libertà “della” stampa ossia della stampa del grande capitale, che non solo mette in discussione il “valore” del suffragio universale ogni volta che il voto degli elettori non “premia” gli interessi del grande capitale, ma non esita a “criminalizzare” le stesse istituzioni politiche di un Paese, qualora non siano al servizio degli interessi dei potentati economici e finanziari occidentali. In pratica, nei regimi neoliberali occidentali da tempo ci si adopera perché l’unica opposizione possibile sia quella di “Sua Maestà” ovverosia non vi sia alcuna “reale” opposizione e perché un Paese che non segua i diktat dei “mercati” venga considerato, “senza se e senza ma”, una pericolo per la pace mondiale (di modo che possa essere aggredito senza tanti scrupoli) e una pericolosa dittatura.
A tale proposito, si deve osservare che anche la (rozza e semplicistica) contrapposizione tra dittatura e “democrazia occidentale”, assai cara ai media manstream, è tutt’altro che convincente. In primo luogo, infatti, si deve tener presente che perché vi sia dittatura non necessariamente ci deve essere “un dittatore” (basti pensare, ad esempio, al regime oligarchico dei “Trenta tiranni”, che si instaurò ad Atene alla fine della guerra del Peloponneso). D’altronde, è pacifico che in una società industriale avanzata una dittatura e perfino una dittatura di tipo totalitario (si pensi alla mercificazione di ogni mondo vitale, all’imposizione del linguaggio “politicamente corretto” e via dicendo)  si possa instaurare ricorrendo a complessi sistemi di repressione o di “esclusione”. Il punto da comprendere è che per l’oligarchia neoliberale è necessario che la funzione politica strategica venga svolta “principalmente” dal grande capitale sia pure – occorre non dimenticarlo per evitare un ottuso economicismo - “in sinergia” con i vertici dell’apparato politico-militare dello Stato capitalistico egemone e con quelli dei suoi vari “vassalli”, “valvassori” e “valvassni”). Vale a dire che gli strateghi e i funzionari neoliberali del grande capitale non possono tollerare che siano davvero i vertici del potere pubblico “democraticamente eletti” a detenere il controllo politico-strategico della sfera economica e sociale in funzione dell’interesse dei molti, a prescindere dal fatto che tale controllo sia basato o no sul consenso dei molti - un consenso effettivo, s’intende, che presuppone perciò l’esistenza di qualche forma di pluralismo e una certa dialettica politica e sociale. (Può dunque esserci pure una democrazia autoritaria (un governo dei pochi o di un “autocrate” che persegua l’interesse dei molti ma senza il loro “reale” consenso – e gli esempi storici notoriamente non mancano), ma questo problema  - la differenza cioè tra una democrazia non autoritaria e una autoritaria o, se si vuole, una autocrazia o una dittatura -, pur essendo certamente rilevante, non è affatto decisivo per comprendere la fondamentale differenza tra una democrazia e un regime neoliberale, ossia oligarchico, antidemocratico e potenzialmente totalitario).
La questione della democrazia non può essere dunque più confusa con quella della “democrazia liberale”, a differenza di quanto pensano non pochi intellettuali che provengono dall’area marxista o da quella della cosiddetta “destra radicale”, i quali tendono a non fare differenza tra oligarchia neoliberale e democrazia (spesso identificata con il livellamento culturale, l’omologazione e il falso egualitarismo che caratterizzano l’attuale formazione sociale neoliberale). Ma perfino sotto il profilo geopolitico non ha senso opporsi alla prepotenza del polo atlantico senza porsi seriamente la questione della democrazia. D’altronde, la tipica formazione politica liberal-democratica del secolo scorso era connessa “a doppio filo” con la “vecchia” forma del capitalismo (che si potrebbe designare come “ancora borghese”) nonché con gli equilibri geopolitici del cosiddetto “bipolarismo”. Con la fine del bipolarismo e la nuova “forma” di capitalismo è logico che la stessa questione della democrazia si ponga in termini del tutto differenti. In quest’ottica, “liberazione” dall’egemonia del polo atlantico (nonché dall’“euro-tirannia”) e lotta per la democrazia (secondo la definizione che qui si è cercato di illustrare, sia pure sommariamente) si devono considerare come due facce della medesima medaglia.
Ovviamente, moltissime sono le questioni cui in questa sede non si può nemmeno accennare (come, ad esempio, la definizione più precisa di che si intende per governo dei pochi e per interesse dei molti, i vari modi in cui tale interesse si può difendere, il rapporto tra individuo e comunità, il problema del pluralismo e della istituzionalizzazione del conflitto, la questione del sistema educativo e dei meccanismi di formazione di una classe dirigente, etc.) e che sono essenziali per delineare in modo più articolato i “lineamenti” di una formazione politica e sociale democratica in quanto contrapposta ad una formazione politica e sociale oligarchica. Comunque sia, è indubbio che oggi, in Occidente, la scelta (geo)politica decisiva sia quella tra oligarchia neoliberale e democrazia (pur rimanendo “aperta” la questione dello “spazio” che può essere concesso a gruppi o associazioni che perseguono fini che contrastano pericolosamente con l’interesse collettivo e che sono “portatori” di logiche di potere funzionali all’egemonia polo del atlantico; difatti, gli “agenti” del grande capitale, dato che possono disporre di ingenti mezzi e risorse, sono in grado di influire “pesantemente” sulla vita politica e sociale di un Paese, anche nel caso che non siano presenti in posizione dominante nelle istituzioni politiche).
In definitiva, si dovrebbe prendere atto che la questione della democrazia ormai si può comprendere “correttamente” solo se la si definisce secondo una prospettiva metapolitica e geopolitica che tenga conto che la liberal-democrazia occidentale si è trasformata negli ultimi decenni in una oligarchia, “mascherata” ancora da democrazia ma sempre più caratterizzata da tratti marcatamente autoritari e perfino totalitari. Alla luce di questo nuovo “contesto (geo)politico”, mi pare difficile negare che limitarsi alla critica “generica” (da posizioni di “destra” o di “sinistra”) della “democrazia occidentale” senza cogliere l’importanza politica e geopolitica che può assumere la difesa della democrazia (sociale) contro la pre-potenza dell’élite dominante neoliberale ed euro-atlantista, significhi non solo “interpretare” l’attuale fase storica mediante schemi concettuali anacronistici e “incapacitanti” ma anche e soprattutto rischiare di portare (più o meno inconsapevolmente) acqua al mulino neoliberale ed euro-atlantista.